Lavori da casa?

La pandemia come spunto di riflessione sul lavoro indipendente.

All’inizio della pandemia mi sono trovata a vivere in uno spazio nuovo, piuttosto ridotto, all’interno di un grande palazzo signorile. Un monolocale all’ultimo piano, proprio sotto il tetto, una ex camera della servitù trasformata in abitazione, il tipico alloggio che, nell’immaginario dei non francesi, incarna anacronisticamente lo spirito bohémien.

In questi pochi metri a mia disposizione ho assaporato a fasi alterne la solitudine assoluta, il misticismo ascetico, la gioia profonda, l’abbattimento più nero e anche la noia più divorante ma, tutti, nel più completo silenzio. Le uniche interruzioni sono state le voci attutite dei vicini sulla mia destra e i salti e le grida della figlia treenne di quelli difronte, dall’altro lato del corridoio. L’elemento costante di questo lungo periodo è stato il lavoro che ho continuato a esercitare secondo gli stessi ritmi di sempre.

Oggi si apre una nuova fase che qui, per fortuna, non porta numeri, ma che ha registrato il ritorno della saltatrice nana all’asilo, nonché un certo fermento nell’aria, insomma, una palpabile ripresa dell’attività. Mi arrivano voci e suoni di passi nei corridoi e negli appartamenti che sono stati vuoti tutto questo tempo. Mi sembra che nella stanza alla mia sinistra ci siano addirittura due operai che progettano imminenti lavori di ristrutturazione! E poi sento nuovi suoni di chiavi che girano nelle serrature a latitudini che non riconosco. E cos’è questo rumore di tacchi? Nessuno in questi mesi si è mai messo i tacchi.

Iniziano a vacillare le mie recenti certezze, si squarcia la calma irreale in cui ho vissuto finora in questo luogo, che allora non era un palazzo calmo, ma solo un palazzo vuoto. Adesso torneranno tutti come formichine nelle loro stanzette e cominceranno a grattare i muri, a sbattere le porte, a strascicare i piedi, a parlare forte nel corridoio, a smartellare durante il giorno, proprio mentre io nella mia continuo a lavorare come prima.

Forse ho un po’ di margine, perché sono ancora molte le persone che lavorano a distanza, da casa. Quindi posso ancora far valere il diritto al silenzio in nome del rito, da poco collettivo e ancora sacrosanto, dello smart working. Quando anche questa effimera fase sarà conclusa, però, e la maggior parte degli inquilini andrà fuori a lavorare, qui rimarranno solo quelli che non lavorano o ci verranno quelli che lavorano per altri; quelli che resteranno perché il proprio luogo di vita e di lavoro coincidono saranno in minoranza e dovranno tacere. Nessuno sospetterà che dietro la penultima porta dell’ultimo corridoio del quinto piano ci sono io che cerco di trovare l’editore giusto per un bellissimo albo illustrato in serigrafia. Quando tutti gli uffici riapriranno a pieno ritmo sarò una specie estinta. E sarà impossibile pretendere il rispetto dei muratori o degli idraulici assetati di pietra che grideranno passando davanti alla mia porta. Uscire nel corridoio e dare qualche colpetto di tosse non servirà a un accidente, a parte ricoprirmi di ridicolo, così come dire “Scusate io sto lavorando, potreste evitare di urlare, grazie.” Sì, lavori a casa… A casa ci rimani quando sei malato, quando sei in pensione e quando sei disoccupato. Se lavori hai un ufficio, se lavori da casa sei uno sfigato e quindi devi tacere!

Inoltre, chi lavora da casa è sempre un po’ sospetto. Persino la portinaia quando viene a consegnarmi la posta mi fa sentire in colpa se in quel momento non ho il computer sul tavolo. Dirà ma questa che fa tutto il giorno in casa?

Quando lavoravo in azienda il direttore era contrario al lavoro da casa, persino per chi abitava a 300 km da Parigi in periodo di sciopero dei mezzi di trasporto. Non si fidava, diceva che a casa si può solo fare finta di lavorare. Oltre a insospettire la portinaia e il datore di lavoro, non espletare le proprie mansioni professionali in uno spazio esterno al proprio domicilio, quindi senza controllo da parte di un altro, è sospetto anche per gli altri lavoratori, quelli dipendenti. Ah lavori da casa, che bello! Quello pensa che non fai una mazza tutto il giorno, ti svegli tardi, parli sempre al telefono dei fatti tuoi e ti fai la doccia il pomeriggio (percepita da taluni come un lusso estremo). In linea di massima è il contrario, e lavori come tutti gli altri, perché non è il luogo che conta.

Nel mio caso poi, oltre a non essere una lavoratrice dipendente, e a lavorare da casa, faccio anche un mestiere che la gente ha difficoltà a capire con esattezza (il traduttore passi ancora, ma l’agente letterario non è di immediata comprensione), e per questo il quando e il dove esercito le mie mansioni professionali rimangono spesso un terreno di curiosità e mistero. Il lavoro di agente si può fare ovunque, al chiuso, all’aperto, in treno, al telefono, a una cena, in una villa sul mare e in uno sgabuzzino sotto il tetto, ha una componente di relazioni umane piuttosto importante, a cui seguono periodi assolutamente statici di lavoro a domicilio, il mio.

Ho provato senza successo anche diversi co-working, ovvero una scrivania in affitto in un open space dove si ritrovano molte persone che lavorano per aziende, che danno da fare fuori quello che prima si faceva dentro, da dipendenti. A Parigi oltre a essere molto cari, sono anche molto affollati e rumorosi.

Per me è finita l’epoca in cui il mio lavoro era dentro un palazzo con una targa d’ottone che diceva ai passanti cosa facevamo all’interno, con un centralino che mi chiamava quando arrivava qualcuno che aveva appuntamento con me e potevo riceverlo in una sala riunioni prenotata a quello scopo. Avrei potuto vendere merda secca (e certe volte ci sono andata vicina) ma il quadro architettonico faceva credere il contrario e rimandava l’immagine di una profonda operosità. Per il lavoratore indipendente come me questa cornice salta: per guadagnarsi da vivere, oltre a essere responsabile di tutte le scelte, spesso non è pagato fino a quando il lavoro non è finito o solo se qualcuno si fida dei suoi consigli di esperto del settore. Nel frattempo ha fatto molti investimenti in tempo e denaro e quindi lavora da casa per ridurre i costi di rappresentanza e per avere la calma necessaria a portare a termine con successo la missione che ha intrapreso.

Un altro giudice inflessibile della condizione del lavoratore a domicilio è la sua stessa famiglia, che ha difficoltà a capire come si possa stare tutto il giorno in casa senza occuparsene per nulla. Invece a chi torna alle otto di sera da fuori si è pronti a scusare tutto, anche aver lasciato il pigiama nel portaombrelli uscendo la mattina. Lavorare “fuori”, “andare a” lavorare, magari addirittura “in ufficio”, cancella tutti i peccati.

Per tornare al mio problema di oggi: per la mia attività di agente e traduttrice ho bisogno di molte ore di calma al giorno e quindi, oltre al riconoscimento e al rispetto, avrei bisogno del silenzio dei miei vicini. Non voglio chiedere loro di mettere delle scarpe di feltro durante i miei orari di lavoro o di far mettere la paglia nella corte quando viene scaricata della merce. Penso di avere invece molto da imparare dal padre della treenne, che è rispettato e riverito da tutti, a partire dalla portinaia che sorride maliziosa quando parla di lui. Quando mi ha rivelato “Sa, lui è un famoso pasticcere!” io ho pensato solo “Ahsticazzi, madame”. E invece ho sbagliato, perché lui è stimato proprio a causa della sua professione, che pure esercita altrove e che non ha alcuna ricaduta pratica nel suo comportamento di inquilino del palazzo. A parte una volta in cui l’ho sentito parlare al telefono di ganache, non è che distribuisca dolci o bignè ai condomini, non riempie i corridoi di panna montata. Eppure è riuscito a traghettare il suo mestiere fino al suo luogo di domicilio e a trasformarlo in uno status sociale all’interno del palazzo in cui vive, e questo non solo lo rende rispettabile ma, addirittura, permette a sua figlia di scorrazzare in monopattino dentro casa in completa impunità. Mi chiedo allora: se una professione esercitata “fuori” può rendere intoccabili sul proprio luogo di residenza, perché una professione svolta nel proprio domicilio non può essere altrettanto rispettata?

Spero possa essere spunto di riflessione in un momento in cui molti lavoratori dipendenti si sono fatti un’idea di cosa significhi non lavorare in ufficio, e forse alcuni preferiranno lavorare con più autonomia. Forse il lavoro dal proprio domicilio sarà più rispettato e riconosciuto e forse smetteremo di intasare le stesse strade delle stesse città per andare tutti a lavorare in pochi luoghi e odiarci gli uni con gli altri perché siamo troppi alla stessa ora, nello stesso posto, per fare la stessa cosa, mentre magari non ce n’è tutto questo bisogno.

A meno che non serva una scusa per fuggire di casa, non dover rimettere a posto il pigiama o non vedere la propria famiglia, tutte ragioni valide per spiegare la volontà di molti di infliggersi lavori e ritmi insopportabili. Mi riferisco ovviamente a coloro che hanno il privilegio di poter scegliere dove e come lavorare, e che sembrano contenti di avere una riunione dietro l’altra fino alle otto di sera, specialmente a Parigi, dove uscire dall’ufficio alle cinque è molto mal visto. La battuta più frequente rivolta in questi casi a chi se ne va è “Ti prendi il pomeriggio libero?” E poi ci sono quelli che questa libertà di scelta non ce l’hanno e per loro è tutto un altro discorso.

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