Lavoro e sfruttamento nella filiera del libro.
A partire da Acta, l’associazione dei freelance, è nata Redacta: un’inchiesta sull’editoria portata avanti da un gruppo di lavoratori del settore che hanno condotto un sondaggio, pubblicato i dati e avanzato delle proposte. Li abbiamo intervistati per farci raccontare cosa è emerso dal loro lavoro e come contano di proseguirlo.
Assieme ad Acta, associazione che da 15 anni si occupa dei diritti lavorativi dei freelance, avete avviato un’indagine sul mondo editoriale e sulle figure che al suo interno percepiscono retribuzioni basse e spesso pagate in ritardo: principalmente redattori, traduttori, grafici e illustratori. Cosa avete scoperto? Quali sono i dati più indicativi, che riflettono un’organizzazione del lavoro poco equa per i freelance? Quante persone hanno partecipato al sondaggio?
Come associazione ci siamo sempre mossi trasversalmente rispetto alle singole professioni, e continueremo a farlo su temi come il fisco e il welfare. Tuttavia per affrontare il problema dei compensi (che per i freelance è il problema) abbiamo provato a concentrarci su un micro-mercato del lavoro (appunto, l’editoria libraria). Abbiamo cominciato con una serie di riunioni a Roma e Milano, a cui nel tempo abbiamo affiancato interviste telefoniche con professionisti di tutta Italia. Da metà settembre abbiamo inoltre fatto partire un sondaggio online, per raccogliere dati in modo più sistematico e anonimo. Ad oggi hanno risposto circa 300 persone. Il campione dei compilatori è composto principalmente da lavoratori e lavoratrici residenti a Milano, con un alto livello di istruzione e una formazione specifica per il settore editoriale. Per i tre quarti si tratta di donne. I dati che abbiamo raccolto sono allarmanti su più fronti. Più della metà dei compilatori dichiara di avere un reddito annuo lordo inferiore a 15.000 euro, eppure il lavoro non manca: la maggior parte lavora infatti tra le 30 e le 50 ore alla settimana. Gli uomini, mediamente, hanno un reddito più elevato, sia tra gli autonomi sia tra i dipendenti. Se si osservano poi da vicino i compensi di alcune prestazioni (per esempio bozze e revisioni di traduzioni) emergono tariffe medie orarie molto basse: da un massimo di 13€/h a un minimo di 6€/h. Punti dolenti sono anche i tempi di pagamento e i contratti. Secondo lo Statuto del lavoro autonomo il pagamento deve essere effettuato a 30 giorni dalla fatturazione, periodo prolungabile a 60 in caso di accordo scritto tra le parti; ma due terzi dei compilatori dichiara che i tempi di pagamento “concordati” (o, per meglio dire, imposti dal committente) sono più lunghi: 60, 90, 120 giorni… senza contare i ritardi, ricorrenti secondo un terzo dei compilatori. Sul tema dei contratti si registrano inoltre due problemi. Il primo è la loro assenza: tre quarti dei lavori (da questa piaga sono fortunatamente esclusi, per legge, i traduttori) vengono concordati a voce o via email senza alcun documento scritto. In secondo luogo abbiamo registrato la pratica diffusa di ricoprire ruoli stabili (full-time o part-time) all’interno di case editrici o studi editoriali in partita iva, e non con regolari contratti da dipendente. È evidente che il problema non riguarda solo i lavoratori autonomi del settore, che sono comunque uno degli anelli più deboli della catena, e neanche una categoria in particolare. Consapevoli di questo, sin dall’inizio abbiamo aperto il nostro spazio di discussione anche ai lavoratori dipendenti, e non abbiamo fatto distinzioni tra redattori, traduttori, illustratori, grafici e addetti stampa, anche perché molti e molte di noi si ritrovano a cavallo tra più categorie, e in passato hanno lavorato anche con contratti da dipendente. L’ecumenismo era inevitabile.
Quale riscontro avete avuto dai lavoratori dell’editoria che avete coinvolto? Ci sono la voglia e la disponibilità a trovare forme aggregative e di rappresentanza, oppure persistono timori e paura di perdere – denunciandone le ingiustizie – anche quel poco che si ha?
Conoscendo il settore da diversi anni siamo partiti con un cauto pessimismo. La maggior parte degli editoriali, e in particolare i freelance, lavora molto spesso in solitudine, in diversi casi lontana chilometri dai colleghi. Poi, come abbiamo denunciato anche durante la nostra Via Crucis, le condizioni del settore, i redditi bassi e le garanzie praticamente nulle hanno colmato gli editoriali di emozioni tristi. Soli e senza una via d’uscita, i lavoratori editoriali sono spesso omertosi, invidiosi, pessimisti e spaventati. Un esempio di quanto questo sia vero, e a che livello sia stata interiorizzata la paura, lo si intuisce da alcune risposte date al sondaggio, che ricordiamo essere anonimo. Nella parte che prevede di inserire le tariffe delle case editrici con cui si collabora, alcuni hanno indicato con cura le tariffe delle singole prestazioni, rifiutandosi, però, di fornire il nome della casa editrice a cui si riferivano. Così abbiamo trovato diversi: Campo Vuoto, Non posso dirlo, Non si dice il peccatore, Non voglio fare nomi, Pinco Pallo, XXX… Eppure già dalla prima riunione ci siamo accorti che fornire una piattaforma all’interno della quale riflettere e agire in modo collettivo può funzionare, di per sé, come un catalizzatore della voglia di partecipare e di ascoltare le storie degli altri. In diversi momenti, nei primi mesi, ci siamo trovati in grande difficoltà nella gestione di interviste, segnalazioni e richieste di aiuto: erano semplicemente troppe. Interpretiamo queste ondate di entusiasmo come la spia che, nonostante tutto, il terreno è ancora fertile e pronto a far fiorire la consapevolezza. In primis la consapevolezza che, ogni volta che si lavora per conto terzi (da dipendenti o meno), esiste un conflitto tra le pretese del professionista e del committente, ovvero uno spazio di negoziazione, che però sembra essere completamente dimenticato da molti professionisti del settore.
Nell’articolo uscito il 4 novembre 2019, Il lavoro editoriale: trick or treat, emerge la questione dei compensi minimi per il lavori editoriali e si fa menzione alla Low Pay Commission britannica. Potreste spiegare di cosa si tratta? Tra le vostre proposte esiste quella in futuro di pubblicare sul sito di Acta un tariffario per lavori redazionali e di traduzioni svolti da freelance?
Una volta raccolte, grazie al sondaggio, le tariffe praticate da moltissimi editori e studi editoriali, ci siamo posti il problema di cosa fare con tutti quei dati. La Low Pay Commission britannica, in cui siedono sindacati, datori di lavoro ed esperti, utilizza un metodo per calcolare i compensi minimi di chi viene pagato “a pezzo”, tenendo come riferimento il salario minimo stabilito per i dipendenti. Si parte dal numero medio di pezzi prodotti in un’ora (le cartelle/ora che abbiamo rilevato nel sondaggio), lo si divide per 1,2 – per evitare di penalizzare i nuovi arrivati, più lenti – e infine si usa quel numero per dividere il salario minimo orario (noi abbiamo preso come riferimento i minimi tabellari del CCNL Grafici-Editoriali). Alla cifra risultante abbiamo aggiunto un 20% per tenere conto dei rischi e dei costi aggiuntivi (formazione, amministrazione, promozione) a carico dei freelance. La prima volta che abbiamo esposto in pubblico le nostre proposte di tariffa minima (tra le altre, 2€ a cartella per una prima bozza), un editore che partecipava al dibattito ha subito provato a smontare le nostre cifre, sostenendo che fossero eccessive. Questo nonostante:
- i minimi salariali garantiti dal CCNL sono abbastanza esigui e per i nostri esempi abbiamo scelto inquadramenti medio-bassi;
- da tutte le interviste con freelance e dipendenti (soprattutto i più esperti) è emerso che negli anni il carico di lavoro richiesto per le singole lavorazioni è aumentato costantemente. Per esempio, è ormai abbastanza comune che quella che viene chiamata “prima bozza” diventi una “lettura attenta alla lingua”, in sostanza una revisione di traduzione (o un editing) low cost;
- le magre tariffe attuali costringono a lavorare a grande velocità. Il rapporto cartelle/ora che abbiamo rilevato è tendenzialmente “alto”, e secondo molti non consente di svolgere sempre un lavoro di qualità.
Un modo efficace per diffondere consapevolezza sul problema delle tariffe, e fornire ai professionisti dei parametri per negoziare, è sicuramente la pubblicazione dei dati che abbiamo raccolto. Sarà una delle novità del sito di Acta per il 2020: stiamo studiando come farlo, per evitare da una parte che la pubblicazione scateni un’asta al ribasso, dall’altra l’intervento dell’Antitrust. Sembrerà incredibile, ma per la Comunità europea due grafici che si attengono a una tariffa comune costituiscono un trust nei confronti dei loro committenti (come se due grosse aziende si accordassero per praticare gli stessi prezzi ai consumatori). Un discorso che non ha molto senso e che deriva dal fatto che per la Comunità europea il lavoratore autonomo è stato a lungo assimilato a un’impresa – per cui qualsiasi tariffa concordata viene interpretata come un accordo collusivo tra imprese, e non come un modo per evitare che i ribassi diventino tanto eccessivi da minare la possibilità di una vita dignitosa per i lavoratori indipendenti.
Come mai ci sono tante persone – giovani e donne soprattutto, ma non solo – disposte ad accettare una retribuzione così bassa e ritmi lavorativi tanto stressanti pur di lavorare nel mondo dell’editoria? La “passione” che avete messo in scena è un elemento realmente esistente, che a volte porta a subire trattamenti ingiusti pur di lavorare in un mondo ancora percepito come un miraggio da conquistare a tutti i costi?
In anni di esperienza nel settore e poi in quasi nove mesi di riunioni e interviste abbiamo incontrato professionisti che, data la qualità del lavoro e il livello delle retribuzioni, si sentono ridotti all’impotenza. La passione cede così terreno all’opportunismo, all’omertà e all’egoismo, che avvelenano le relazioni fra lavoratori. Tanti stanno pensando a un modo per cambiare vita. A conferire ancora un’aura mitica al settore editoriale è ormai solo una minoranza dei professionisti, e sono soprattutto i più giovani. Il vero problema è che gli editori non si fanno scrupoli a sfruttare la debolezza e l’isolamento di lavoratori e lavoratrici. Bastano pochi mesi di stage a far svanire qualsiasi trasporto verso il mondo dell’editoria, ma questo non è sufficiente a giustificare una svalutazione del lavoro o a permettere che si chiudano gli occhi di fronte a pratiche palesemente illegali. Continuare a insistere sull’elemento della passione finisce per spostare la responsabilità dello sfruttamento dagli editori ai lavoratori, ed è per questo che, al termine della nostra Via Crucis, è stata la passione stessa a morire. Mettere in scena le nostre vite travagliate ci ha fatto riscoprire una dimensione collettiva all’interno della quale lottare per cambiare una situazione che ci è sempre stata presentata come immutabile. Un anno fa pensavamo che i professionisti editoriali fossero capaci solo di sbranarsi l’uno con l’altro; quella sera siamo tornati a casa con la certezza che non fosse affatto così.
Che dire del mercato editoriale italiano in genere? Le proposte che state portando avanti hanno qualche possibilità di essere praticate senza cambiare un sistema – legato alle modalità distributive, per esempio, o al sistema dei “resi”, che strozzano anche e soprattutto i piccoli editori?
Ogni anno, all’uscita dei dati Aie, si registra il consueto giubilo per il vertiginoso aumento dei titoli pubblicati (nel 2018 siamo a 78.875, +29% rispetto al 2010). Meno attenzione viene posta su un altro dato: contestualmente, le tirature medie sono in discesa (e questo accade già dagli anni novanta; rispetto al 2000 siamo a -47%). Mettendo in relazione i due dati, si deduce che gli editori stampano sempre più titoli, ma investendo sempre meno su ciascuno di essi. Se nel 1997 per ammortare i costi di un libro occorreva stamparne più di 5500 copie, nel 2018 ne bastavano, in media, 2112. La riduzione dei costi è stata possibile grazie a una serie di avanzamenti tecnologici su tutta la filiera ma, stando ai dati e alle interviste che abbiamo raccolto, a questo incremento della produttività non è corrisposto un aumento dei compensi per i lavoratori del settore, anzi, i redditi sono peggiorati. Il famoso svuotamento delle redazioni (ovvero l’esternalizzazione del lavoro) significa esattamente questo: strumenti come InDesign consentono di coordinare il lavoro da remoto (con la promessa di una maggiore flessibilità per i lavoratori), col risultato di aumentare sì la produttività, ma indebolendo drasticamente la capacità di confrontarsi gli uni con gli altri e, in definitiva, di fare coalizione. Alla luce di questo è possibile ricondurre la sovrapproduzione, e tutti i problemi di promozione, distribuzione e sostenibilità che porta con sé, a uno sfruttamento più intenso su tutta la filiera. Ed è da qui che bisogna ripartire per cambiare la situazione. In questo contesto è evidente che gli editori con una distribuzione interna (come Mondadori) e quelli legati al monopolista de facto della distribuzione “degli altri” (ci riferiamo al gruppo Gems, di cui Messaggerie detiene il 76%) si trovano in una posizione di vantaggio sul mercato; tuttavia, pur incamerando una fetta notevole del prezzo di copertina, nemmeno loro garantiscono compensi adeguati. Crediamo anche che occorra ridiscutere l’idea di “piccolo editore”: è veramente utile una categoria in cui finiscono progetti di “autoproduzione” e case editrici minuscole ma finanziate da ingenti patrimoni? Molti di questi “piccoli” fondano la propria sopravvivenza su tariffe penose, lavoro gratuito e pratiche illegali su tempi di pagamento e inquadramento delle collaborazioni. Dunque, per quanto ci riguarda, non meritano alcun rispetto reverenziale. Lo stesso vale per l’insistenza sui progetti “di qualità”. Lavorando nel settore è evidente che i libri sono, prima di tutto, oggetti di consumo la cui presunta qualità dipende, di volta in volta, dall’occhio di chi guarda e, soprattutto, dalla mano di chi vende. È tempo di valutare gli editori (grandi, medi o piccoli che siano) anche in base alla qualità del lavoro che offrono: le retribuzioni si prestano molto meno a simili giochetti di marketing.
Prima di diventare freelance, nella maggior parte dei casi si inizia con un tirocinio. Dalla vostra ricerca e successiva analisi sono emerse criticità rispetto a corsi di traduzione e redazione che molte volte, dopo aver richiesto il pagamento del corso stesso, portano i corsisti ad eseguire stage, spesso più lunghi di tre mesi e il più delle volte non retribuiti?
I master e le scuole di editoria non mancano: anzi, costituiscono spesso una fonte di introiti per gli stessi editori, alcuni dei quali giustificano le tariffe basse proprio con un eccesso di offerta di manodopera. Al termine di questi corsi c’è lo stage (ci sono pure quelli che riservano questo privilegio solo agli studenti più meritevoli…). Se si passa da un ente di formazione accreditato è spesso uno stage curricolare, che per legge non prevede un compenso minimo e la cui attivazione non deve essere comunicata al Centro per l’impiego. Con questo strumento diversi editori mantengono postazioni fisse in redazione ricoperte a turno da nuovi stagisti o, nei casi più grotteschi, finiscono per accumulare un numero di stagisti pari o superiore a quello dei dipendenti che, in teoria, dovrebbero formarli. In ogni caso, questo tipo di stage ha una durata limitata, legata al completamento del percorso di studi (in genere intorno ai 3 mesi). Esiste poi lo stage extracurricolare, che prevede un compenso minimo, un rapporto massimo stagisti/dipendenti (per garantire un minimo di valore formativo all’esperienza), la comunicazione al Centro per l’impiego, e può protrarsi fino a 12 mesi. Questa durata esagerata, pur a fronte di maggiori garanzie, ci porta a dubitare su quale delle due fattispecie comprima maggiormente i compensi del settore. Per questo abbiamo proposto una riforma integrale della normativa italiana sugli stage. Tutti i tirocini dovrebbero:
- garantire un compenso minimo;
- essere comunicati al Centro per l’impiego;
- avere un rapporto massimo stagisti/dipendenti su base annua;
- non durare in nessun caso più di 3 mesi.
Il sistema italiano non è certo a corto di strumenti contrattuali flessibili che garantiscono qualche beneficio in più dello stage: l’eventuale “valutazione in attesa di una stabilizzazione”, può proseguire con questi. In attesa di un intervento del legislatore, i master e le scuole di editoria potrebbero agire fin da subito chiedendo compensi minimi e un rapporto massimo stagisti/dipendenti come condizione per attivare gli stage. Sarebbe un modo per scremare le imprese che sfruttano i buchi legislativi per garantirsi lavoro gratuito. Ad oggi non ci risulta che alcun ente di formazione agisca in questo modo: chi non ha problemi di “conflitto d’interessi” con qualche editore sostiene che esista un trade-off tra retribuzione ed effettiva formazione; un discorso che, di per sé, rende l’idea di quanto la scarsa valorizzazione del lavoro in editoria parta proprio da chi si pone l’obiettivo di formare i professionisti. Il tema degli stage, come è evidente, non riguarda solo il settore editoriale.
Partendo dall’analisi dei vostri dati, riguardanti il mondo editoriale, credete che possa essere efficace inserire questo discorso e questo tipo di rivendicazioni all’interno di uno più ampio sul diritto del lavoro e fare dunque rete con altre categorie di lavoratori?
Sin dai primi mesi di attività abbiamo avviato una collaborazione con Strade, il sindacato dei traduttori editoriali, che ha diffuso il nostro sondaggio e ci ha ospitato a Più Libri Più Liberi, e con cui intratteniamo un dialogo serrato su strategie e proposte. Lo stesso vale per Autori di Immagini, l’associazione degli illustratori. Questi scambi sono stati importantissimi per guardare la filiera da punti di vista diversi e individuare soluzioni che raccolgano il maggior sostegno possibile (sulle problematiche legate al diritto d’autore, per esempio, abbiamo imparato molto), e siamo sempre aperti ad avviarne di nuovi. Su alcune questioni, poi, la convergenza dovrebbe essere naturale. Stiamo preparando delle campagne di crowdfunding per finanziare delle cause pilota sui tempi di pagamento (spesso ben oltre il limite previsto dallo Statuto del lavoro autonomo) e sulle “finte partite iva”. Al pari degli abusi sugli stage, sono problemi che riguardano gran parte del tessuto economico nazionale e che dunque meritano un sostegno più ampio possibile. Acta è sempre stata un’associazione pragmatica: l’obiettivo è strappare dall’isolamento i lavoratori e garantire un accesso universale ai diritti. Redacta* proseguirà sullo stesso solco, declinando questo metodo in un settore in cui è cruciale arginare il crollo dei compensi e la despecializzazione, e in cui i lavoratori sono più isolati e sconsolati che mai. Le trasformazioni del mercato del lavoro rendono questo tipo di approccio sempre più urgente, anche al di fuori dell’editoria.
*Per qualsiasi ulteriore informazione l’indirizzo di Redacta a cui scrivere è: ricercaeditoriacta@gmail.com.