L’Autarchia Verde

Mercoledì 18 gennaio, presso la Libreria Becarelli, MondoMangione in collaborazione con Uni.D.E.A. organizzerà la presentazione del libro L’Autarchia Verde (Jaca Book edizioni) di Marino Ruzzenenti.  L’autore insieme a Simone Neri Serneri, docente di storia contemporanea dell’Università di Siena, metterà a confronto gli attuali temi della green economy con i progetti autarchici della seconda metà degli anni Trenta.Vi riproponiamo la recensione al libro di Serge Latouche

Le lezioni dell’autarchia italiana [*]

di Serge Latouch

La recente comparsa di un libro importante passato totalmente inosservato, l’Autarchia verde, di un ricercatore italiano quasi sconosciuto, Marino Ruzzenenti, è l’occasione de fare il punto sul dossier del protezionismo e dell’autonomia dal punto di vista della decrescita [1]. Lo studio storico molto documentato di Marino Ruzzenenti mira a rivisitare le politiche e le realizzazioni del periodo fascista, in Italia, dal punto di vista «della crisi ecologica, dei limiti dello sviluppo, dell’impossibilità di una crescita infinita dell’economia in un mondo finito» [2]. L’attualità dei problemi e la pertinenza di certe soluzioni sono impressionanti. Se si può comprendere l’ostracismo di cui l’autarchia è fatta oggetto a causa dei suoi eccessi e del suo orientamento in vista della guerra, uno dei meriti dell’opera, e non tra i minori, è di ricordare che nella stessa epoca, da parte delle democrazie, le stesse politiche, come il new deal di Roosevelt, avevano per obiettivo di salvare la pace. Nel suo saggio, La fine del laissez-faire, Keynes è molto chiaro: «Io inclino a credere che, una volta che il periodo di transizione sia compiuto, una certa dose di autarchia e di isolamento economico tra le nazioni, superiore a quello che esisteva nel 1914, può servire piuttosto che danneggiare la causa della pace» [3].

La politica autarchica condotta sistematicamente a partire dal 1935 ha favorito la lotta contro lo spreco e i rifiuti. L’obiettivo “rifiuti zero” era già all’ordine del giorno allora, quando le famiglie ne producevano tre volte meno di oggi. Si preconizzava una politica di riciclaggio sistematico e gli inceneritori erano proscritti perché troppo costosi e irrazionali. Si cerca così lo sviluppo delle energie alternative, con un dibattito sui biocarburanti, una propaganda per la dieta mediterranea ecc. In breve un gran numero degli ingredienti e delle misure suggerite dagli ecologisti e che entrano nel progetto della decrescita.

La sfortuna ha voluto che questa politica sia tata sviluppata da un regime fascista con tutto quello che ciò implica di inaccettabile. In particolare, questa politica non aveva alcuna ispirazione ecologica: essa non cercava per nulla di rompere con il produttivismo e il saccheggio del pianeta, anzi al contrario. Lo mostra bene il desiderio di sfruttare (già!) gli scisti bituminosi o d’introdurre delle specie invasive dalla crescita rapida come l’alianto. Essa non mirava che a ridurre la dipendenza dal mondo esterno con il fine di fare la guerra. L’autore stesso, d’altronde, finisce col riconoscerlo: « Ed è forse il caso di sottolineare, a questo punto, che, se l’autarchia risulta interessante per l’oggi sul versante dei limiti naturali dello sviluppo, non lo è altrettanto per quanto riguarda l’altro aspetto dell’odierna crisi ecologica, l’inquinamento ambientale: proprio in quegli anni, oltre al PVC, si svilupparono alcune delle produzioni più tossiche che hanno causato devastazioni ambientali e sanitarie, come i PCB della Caffaro di Brescia o l’Eternit di Casale Monferrato, considerati materiali autarchici per eccellenza».

Infine, la guerra ha ridotto al nulla tutti gli sforzi e gli effetti positivi. Di conseguenza, gli Italiani e i Tedeschi – e in una minor misura gli altri popoli europei – hanno gettato il bambino con l’acqua sporca. Questa reazione, incoraggiata dalla «rivoluzione» consumistica del dopoguerra, ha grandemente assecondato la propaganda in favore della controrivoluzione neoliberale, già presente dal 1948 nella politica di Ludwig Ehrard e, in una certa misura, in quella di Luigi Einaudi. Questa ideologia qui ha camminato sotterraneamente durante i trenta anni del keynes-fordismo trionfante, il tutto servendo da base alla costruzione europea, ha finito per imporsi a sua volta dopo la crisi degli anni Settanta [4].

Una delle lezioni interessanti da tirare dall’esperienza autarchica italiana è che la crescita verde e lo sviluppo durevole sono condannati allo scacco per delle ragioni tecniche come quelle contro cui si è urtato il progetto mussoliniano, a dispetto della straordinaria ingegnosità degli scienziati. Tutte le difficoltà tecniche o quasi per trovare dei sostituti ai prodotti mancanti erano state risolte, che si trattasse del petrolio, del caucciù, del cotone o dei metalli rari. Nondimeno, nessuna produzione era sufficiente per rispondere ai bisogni. La ragione è che non si può fare niente a partire da niente. Si è saputo trasformare il carbone in petrolio, tuttavia bisogna avere del carbone. Si è potuto, certo, rimpiazzare il carbone con il legno, comunque bisogna averne a sufficienza. Si può rimpiazzare la seta con il rayon, comunque bisogna avere della cellulosa. Si può produrne trasformando il legno, ma allora con che cosa ci si scalderà? Con del carbone? Ma allora, bisogna rinunciare a utilizzarlo per fare del carburante, etc. Essendo l’Italia molto povera in risorse naturali, tutti i settori hanno visto la loro crescita limitata dall’insufficienza di materie prime. Come dice felicemente Marino Ruzzenenti, «Il gatto si mordeva la coda» [5].

In assenza dello sfruttamento delle risorse non rinnovabili (soprattutto carbone e petrolio), il motore dei sistemi termoindustriali non può funzionare che a basso regime. Una economia che non può contare sul saccheggio della natura e deve vivere sulle sue sole risorse rinnovabili è condannata a un stato quasi stazionario, a meno di inventare il moto perpetuo…

Ciò che hanno ben tentato i sapienti, ma a dispetto dei loro fantasmi, essi si sono scontrati con la seconda legge della termodinamica da cui essi amerebbero tanto affrancarsi [6].

Contrariamente all’adagio famoso, non è sufficiente avere delle idee in questo sistema termoindustriale, bisogna assolutamente avere del petrolio! La scienza può realizzare dei prodigi nella trasformazione, ma non ha il potere di creare ex nihilo. Sarebbe il vero miracolo! Dunque, se si conteggiano tutti i dati, il bilancio energetico delle conversioni è deludente. L’Italia fascista ne ha fatto la dolorosa esperienza. Al contrario, durante il dopoguerra, grazie a Enrico Mattei che le ha fornito il petrolio, l’industria italiana ha potuto capitalizzare un grande numero d’invenzioni dell’era mussoliniana e approfittare del saper fare acquisito sotto il regno dell’autarchia, rinnegandone del tutto la parte di saggezza. E questo fu il “miracolo italiano”.

Il bel libro di Marino Ruzzenenti ce ne fornisce le chiavi e apre delle piste per uscire dagli impasse attuali.

Parigi ottobre 2011

Note

[*] qui, oltre alla testo di Latouche, potete trovare le recensioni di Luca Mercalli e Giorgio Nebbia al libro di Ruzzenenti

[1] Marino Ruzzenenti, L’autarchia verde, Jaca Book, Milano 2011

[2] Ivi, p . 37

[3] Ivi, p . 13

[4] Si veda Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Saggio sulla società neoliberale. La découverte, Paris 2009

[5] Ivi, p . 162

[6] Così ne è già delle speranze poste nell’idrogeno “il gas elettrico” come veniva chiamato, capace di ricombinarsi con l’ossigeno in una pila senza dispersione «sottraendosi al secondo principio della termodinamica». Cfr., Ivi, p . 162

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