Nicola Perugini analizza le modalità di produzione di quella “verità sul terrore” che i media propongono come ermeneutica collettiva in tempo reale.
Due esplosioni scuotono il traguardo della popolare maratona di Boston il 15 aprile 2013. Si contano alcuni morti e oltre cento feriti (bilancio 15 aprile). Una terza esplosione si verifica alla libreria John F. Kennedy alle quattro del pomeriggio.
La polizia accerterà questo secondo fatto non correlato alle esplosioni della maratona, prodotte invece dalla detonazione di due bombe, secondo le fonti ufficiali.
Le indagini iniziano immediatamente e la polizia scandaglia tutti i filmati delle numerose telecamere puntate sulla maratona. Le telecamere di sicurezza e quelle private vengono setacciate alla ricerca di prove. Gli esperti forensi analizzano i luoghi delle esplosioni alla ricerca di oggetti sospetti o brandelli di corpi su cui rinvenire piste investigative; gli inquirenti si recano negli ospedali per verificare l’origine delle ferite dei ricoverati, il tutto al fine di escludere che le esplosioni fossero operazioni suicide.
I media che seguono i fatti aprono le danze dell’ermeneutica collettiva dell’attentato e iniziano a intervistare testimoni oculari, maratoneti ed esperti di terrorismo alla ricerca immediata di una possibile interpretazione dell’accaduto. Si aspettano le rivendicazioni e le prime conferenze stampa delle istituzioni locali e nazionali. Nel pomeriggio, il presidente Barack Obama parla brevemente alla nazione: “Non abbiamo tutte le risposte. […] Non sappiamo chi sono i responsabili e perché lo hanno fatto”. Ma subito dopo un portavoce della Casa Bianca definisce l’accaduto come “atto di terrore”, superando l’apparente prudenza di Obama.
Intorno a questa definizione dell’evento da parte della Casa Bianca iniziano le speculazioni e gli abbozzi di possibili identikit dei responsabili. I terror analysts (gli analisti del terrore) tracciano due possibili piste. Una più “tautologica”, araba o arabo-musulmana, e una di scorta che rimanda a un terrorismo locale. Si cercano chiavi di lettura ricollegabili a dinamiche locali o internazionali. La bilancia viene fatta magicamente pendere da molti esperti sulla pista araba o arabo-islamica, nonostante alcuni tra loro mettano le mani avanti e dicano “sto facendo solo congetture”.
Un commentatore intervistato dalla televisione araba Al Jazeera (versione in inglese) prova a tracciare lo spartiacque. La linea di demarcazione sembra essere quella dei gradi di umanità. Alcune forme di terrorismo sono più umane e non colpiscono in un evento come la maratona di Boston – spiega l’esperto. Altre forme di terrorismo, più disumane (cita il Pakistan e altri paesi islamici), colpiscono in luoghi affollati per raggiungere un certo livello di efficacia –continua l’esperto.
Forse in maniera più marcata che in passato, ciò che si può osservare dopo l’undici settembre 2001 è proprio la crescita esponenziale della presenza di esperti e commentatori del terrore. E lo spazio che c’è tra l’evento e il cosiddetto “accertamento della verità” – questa sorta di intermezzo in cui si elabora socialmente e mediaticamente la “versione credibile” dei fatti – è precisamente lo spazio in cui queste figure emergono sempre più frequentemente e socializzano la specifica forma di conoscenza acquisita nei luoghi istituzionali in cui si formano i nuovi esperti di terrore.
Una conoscenza con cui anche molti commentatori, giornalisti e forse anche gli spettatori sembrano aver preso dimestichezza. In un certo senso, si tratta di una sorta di cultura del terrore che circola e si scambia tra figure che ovviamente occupano posizioni diverse – giornalisti, esperti, spettatori per l’appunto, tre “ruoli” differenti – nel campo dell’accesso e della produzione della “verità sul terrore”.
Ma nonostante i suoi protagonisti occupino posizioni differenti nell’economia di questa circolazione, essa ha come condizione di possibilità la condivisione di certe predisposizioni – predisposizioni a condividere le conclusioni inevitabilmente provvisorie degli esperti. Diciamo che il percorso di “scrematura” delle ipotesi che gli analisti e gli esperti a cui mi riferisco seguono sono “facili da capire”, poiché tanto tra i media quanto tra gli spettatori esiste già un immaginario pronto ad accogliere la sequenza e la configurazione del terrore disegnata da queste figure.
Alla domanda “è un attentato o no?” si risponde su base tecnica, con un accertamento della polizia sull’origine delle esplosioni. Alle domande “chi può essere stato?” e “di che terrorista parliamo?” si risponde – fino alla fine dell’accertamento da parte della polizia e alla convergenza sulla verità istituzionale sull’evento terroristico – con un processo simile a quello dell’accertamento investigativo (la ricerca di prove), ma che in realtà si fonda su un altro piano di produzione della verità. O meglio, su almeno due piani non-investigativi correlati.
Innanzitutto il piano dell’immaginario, come dicevo. L’arabo musulmano o l’arabo come mai “al di sopra di ogni sospetto”, dunque un immaginario che fa da terreno fertile per il punto di arrivo delle sequenze montate dagli analisti del terrore. A questo piano se ne aggiunge un secondo: quello dell’autorevolezza di questi esperti e delle formulazioni con cui producono i loro identikit collettivi. Le loro ipotesi in pubblico iniziano talmente rapidamente dopo l’evento – molto prima che le istituzioni dello stato parlino – che risulta ovvio a chiunque che essi non hanno in mano prove di alcun genere, a meno che le indagini della polizia non producano risultati immediati di cui gli esperti dispongono (ma a quel punto il loro ruolo viene meno).
E allora su cosa si regge l’autorevolezza di queste figure che ormai popolano sempre di più gli intermezzi di veridizione tra eventi e spiegazione accertata degli eventi da parte delle istituzioni statali? Molti degli esperti in questione sono ex-poliziotti, o ex-membri dei servizi sicurezza. Dunque queste figure vantano un passato affidabile agli occhi di molti, dato il loro passato professionale. Ma nel caso degli esperti di terrore, un ulteriore elemento di autorevolezza è dato dal linguaggio specifico che ormai accompagna la loro ermeneutica del terrore.
Il commentatore ospitato da Al Jazeera ha spiegato la “pista islamica” con un linguaggio simile a quello utilizzato in guerra nei dibattiti sull’uso legittimo e illegittimo della violenza in relazione al diritto internazionale. Trattandosi di un’azione così efferata come quella della maratona di Boston, in cui l’obiettivo è quello di “massimizzare i costi delle vittime” (mentre un uso legittimo della violenza si reggerebbe sulla minimizzazione delle uccisioni), non si può che pensare ai paesi islamici, spiega l’esperto. Il linguaggio tecnico-militare degli analisti del terrore si salda con l’immaginario neo-orientalista dell’arabo islamico o dell’islamico terrorista.
Tutto questo prima ancora che le indagini abbiano portato a qualche tipo di risultato, in quell’intermezzo che esiste tra evento e “verità sull’evento”. Poi magari le indagini ufficiali smentiranno o confermeranno la “pista” tracciata dall’esperto, ma questo non ne intaccherà l’autorevolezza, poiché l’esperto gioca un po’ d’azzardo apparentemente, non fa che delle ipotesi. La versione ufficiale degli eventi potrà smentire o confermare le ipotesi dell’analista del terrore. Ma questo in un certo senso non conta. In occasione di eventi simili si riprodurrà un copione simile, con l’analista chiamato a interpretare il terrore.
Quel che conta – ai fini della comprensione di questo processo di riduzione della comprensione del politico a una scienza del terrore (gli atti di terrore sono per l’appunto definiti atti “mossi politicamente”, tanto dagli esperti quanto da istituzioni e circuiti mediatici) – è quell’intermezzo, quello specifico meccanismo di costruzione, circolazione e condivisione delle ipotesi “credibili” e “veritiere” sull’evento. In questo intermezzo, le ipotesi dell’analista diventano come delle prove di un’indagine collettiva.