L’apocalisse permanente: su László Krasznahorkai

Un percorso tra quattro romanzi dello scrittore ungherese László Krasznahorkai.

Sa che l’apocalisse è una condizione strutturale dell’uomo, che non è un avvenimento ma una realtà con cui le persone nascono e che si portano dentro per tutta la vita, che è uno stato d’animo connaturato, che ci riguarda tutti e sempre. Tutte queste cose, l’ungherese László Krasznahorkai le sa, e i suoi romanzi sono prima di tutto un’incarnazione di tale consapevolezza. Ecco un percorso fra le sue quattro opere principali: Satantango, Melancolia della resistenza, Guerra e guerra e Seiobo sulla terra.

Satantango (1985)

Piove da tanti giorni. Futaki si sveglia, in una tenuta abbandonata nella campagna ungherese e, in lontananza, sente suonare delle campane. Ma la chiesa più vicina è a quattro chilometri di distanza, non ha campane e per di più il suo campanile è stato distrutto durante la guerra. È da escludere. E in tutta quella zona non ci sono altri luoghi da cui possa provenire quel suono. È con questa scena che inizia Satantango, che László Krasznahorkai ha pubblicato in Ungheria nel 1985 e che ha recentemente conosciuto una nuova e grande fortuna con acclamate e premiate traduzioni negli Stati Uniti e altrove.
La storia si svolge nel giro di pochi giorni in un villaggio della campagna ungherese. I personaggi vivono in un’impasse a cui sopravvivono bevendo al bar locale, conducendo una vita moralmente dissoluta e come se fossero in perenne attesa di qualcuno che li salvi, preparandosi per seguirlo ma anche godendo della disgregazione becera della loro esistenza. Ci sono la signora e il signor Schmidt, Halics, Futaki, il contadino Kerkes, gli Horgos, le due prostitute adolescenti, e così via. Un personaggio anomalo ma centrale è quello del dottore, che vive recluso in casa e che ha un fascicolo per ogni abitante del villaggio, di cui scruta (e non solo) la vita dalla finestra.
A metà libro spuntano due personaggi decisivi: Irimiás e Petrina. Creduti morti, sono semplicemente da poco usciti di prigione. Irimiás parla e si atteggia da messia, e la gente del villaggio gli crede. Ma lui e il suo scugnizzo Petrina organizzano una truffa a danno di tutti gli abitanti, a cui prospettano un piano concreto per un futuro migliore (uno dei capitoli è l’orazione con cui Irimias li convince a dargli dei soldi e gli parla delle loro colpe nella morte di una bambina del posto, Esti). Irimiás e Petrina dipendono da un ignoto e temuto Capitano, a capo di una rete d’informatori.
Futaki, colui che ha sentito quel suono di campane, è convinto che fosse un chiaro segno di salvezza, «la melodia perduta della speranza». Del resto, quello che racconta Krasznahorkai – e i modi con cui lo fa – ha sempre l’aura del sacro, del mitico.

Il ragazzino spense la luce e rimasero tutti in silenzio. La sola cosa che per un po’ si poteva sentire erano i mormorii di Petrina che cercava di ricordarsi le parole di una preghiera che da piccolo sentiva recitare a sua nonna: «Padre nostro… uhm, padre nostro…»

La struttura di Satantango, ora in libreria per Bompiani nella traduzione di Dóra Várnai, imita l’andamento del tango, da cui il titolo: sei passi avanti nella prima parte, sei passi indietro nella seconda, con scene viste da altri punti di vista e passaggi ripresi in diverse prospettive temporali. La lunghezza e la complessità delle frasi di Krasznahorkai – lunghezza che lui in più interviste ha attribuito a una maggiore rispondenza alla nostra lingua orale e modo di pensiero – hanno l’effetto d’immergerci con efficacia nell’inesprimibile della coscienza dei personaggi, e del caos permanente del mondo e delle relazioni. È una restituzione che si esprime attraverso livelli lirici vertiginosi e affascinanti. I dodici capitoli di Satantango sono dodici paragrafi ininterrotti. L’incedere della lingua è insieme narcolettico ed eccitante. La scrittura è quella di un dormiveglia inquieto ma allo stesso tempo estremamente lucido. I personaggi di Satantango vivono in quella zona di frontiera fra la catastrofe e la possibilità di catastrofe, fra apocalisse distruttiva e apocalisse liberatoria. È in questo che Krasznahorkai dimostra di essere uno dei pochi scrittori viventi, fra i giganti, a non temere di prendere per le corna la dimensione metafisica dei mondi che costruisce e racconta.

All’inizio erano state le campane fantasma a spaventarlo, ma ora era il terrificante silenzio che seguiva: sentì che ora sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa. Ma non mosse un muscolo, non finché gli oggetti intorno a lui, che fino a quel momento erano rimasti ad ascoltare soltanto, non avviassero una conversazione nervosa (la credenza scricchiolò, una casseruola sbatacchiò, un piatto di porcellana scivolò dietro lo scaffale), e a quel punto…

Melancolia della resistenza (1989)

Gli parve che la “sua amata città natale” non fosse vicina alla fine del mondo, come sosteneva la sua indomabile benefattrice, ma che la fine del mondo ci fosse già stata.

La storia di Melancolia della resistenza si svolge lungo due giorni, in una cittadina della provincia ungherese dove le strade sono piene di spazzatura, i lampioni sono tutti rotti ed è sempre buio e il freddo è straordinario.
Vide questo intorno a sé, poi arrugginite saracinesche abbassate sulle vetrine dei negozi chiusi da settimane con lucchetti, guardò le braccia pendenti dei lampioni ciechi, osservò macchine e autobus abbandonati con i serbatoi vuoti…
La signora Pflaum sale sul treno per tornare in quella cittadina, dove abita. Ma il treno si blocca di continuo, la gente è nervosa, gli sguardi e le parole sono tesi, c’è puzza e sudore. La signora Pflaum, dopo la brutta avventura di quel viaggio in treno, riesce ad arrivare nella cittadina, di notte. Cammina fra il buio delle strade. A un certo punto sente un rumore, si volta e vede passare lentamente accanto a sé un vecchio trattore che trascina un gigantesco container. Legge il manifesto che vi è appeso e capisce che si tratta di una specie di circo, ma un circo fatto di una sola attrazione: una balena, grandissima, imbalsamata. «Attrazione in città! Attrazione spettacolare! La balena più grande del mondo!», dice il manifesto. Quell’insolito circo si apposta nel centro della piazza principale.
C’è poi Valuska, il figlio della signora Pflaum. È per molti il matto del villaggio. La gente lo tollera, lo deride, ci gioca. Sua madre l’ha praticamente ripudiato.

Valuska, nel suo antro buio e sudicio, probabilmente sdraiato come sempre sul letto con i vestiti addosso a guardare il cielo con aria trasognata nel tanfo di nicotina stantio senza rendersi conto che i suoi occhi luccicanti non stavano contemplando la scintillante volta celeste ma un soffitto incrostato d’umidità.

L’unico a rispettare e ascoltare Valuska è il signor Eszter, musicista ormai recluso in casa. Ossessionato dalla ricerca delle armonie forse scoperte dal compositore e organista tedesco del XVII secolo Werckmeister, è in quelle armonie che cerca rifugio e rassicurazione. Tutt’altro che reclusa invece sua moglie, la signora Eszter, che è colei che più di tutti si dà da fare per combattere il degrado e il conflitto che hanno investito la cittadina, in un nome del suo «movimento per il riarmo morale». È anche l’amante del capo della polizia, che soggioga per i suoi fini.
Oltre alle lunghe visite al signor Eszter, Valuska vaga per la cittadina, sembra sempre assorbito nei suoi continui pensieri di cielo, cosmo, pianeti, stelle. Gli ubriaconi della bettola Pfeffer gli domandano sempre il loro numero preferito, e Valuska inscena la rotazione dei corpi celesti, chiedendo agli storditi avventori di fare la parte dei pianeti. L’eclisse di sole li immobilizzerà tutti per qualche secondo, prima che Valuska gli dia il via e loro riprendano il moto cosmico. È in quei secondi d’eclissi, fredda e buia, che pare incunearsi tutto il mondo di Melancolia della resistenza.
Nella cittadina non succede niente di diverso dal solito, ma la tensione è forte. E la balena in mezzo alla piazza pare attirare tutta quella tensione, come fosse un catalizzatore di conflitto, un magnete del senso di apocalisse che c’è nell’aria. Insieme alla balena arriva il Principe, un uomo che parla una strana lingua, deforme e pericolosamente carismatico. Chi entra nel container, vede la balena solo in penombra. La gente si affolla attorno all’attrazione, allo stesso tempo angosciata e minacciosa. Fino all’esplosione di violenza.
Mentre in Satantango l’apocalisse pareva una condizione strutturale della vita umana, in Melancolia della resistenza appare il fermento che non può altro che portare all’instaurazione di un regime totalitario e alla distruzione della società. Non è certo il caso di vederci una semplice, per così dire, allegoria del comunismo: si tratta invece di un mito politico ben più ampio, nella polarità fra caos e anonimia da una parte, e autorità e coercizione dall’altra. Fra questi due poli oscilla il romanzo.
Sembrava chiaro che quella gente non era accorsa per assistere a uno spettacolo straordinario, ma per partecipare a una battaglia oscura, cominciata tanto tempo prima e dall’esito già deciso.

Guerra e guerra (1999)

In un sottopassaggio della ferrovia, Korim subisce un’aggressione da sette ragazzini. Sette come le sette teste del Drago dell’Apocalisse. Questa la scena iniziale di Guerra e guerra.
Korim rischia di essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico, allora decido di partire dal suo sperduto paesino ungherese. Nonostante l’aggressione, arriva a Budapest e, in maniera rocambolesca, riesce a decollare per New York. Non ha con sé nessun bagaglio. Ha solo, cuciti nell’interno della sua giacca, dei soldi e un antico manoscritto, che ha trovato mentre lavorava da archivista. Il suo obiettivo, lì a New York, è quello di trascrivere al computer tutto il manoscritto e renderlo liberamente disponibile a tutti pubblicandolo in un sito internet. È la sua missione. È stata proprio la lettura del manoscritto a scuotere (far impazzire?) Korim e a spingerlo a lasciare tutto e partire per New York.
Il manoscritto s’intitola Guerra e guerra. Mano a mano che lo trascrive, ne racconta il contenuto alla povera moglie portoricana del violento interprete che lo ospita, oltre ad altri personaggi che incontra girovagando per la città. Il romanzo si compone dunque della storia di Korim e di quella raccontata dal manoscritto. Ogni tanto Korim esce di casa e si aggira per New York. Per poter rappresentare al meglio la città, Krasznahorkai trascorse un periodo ospite a casa di Allen Ginsberg, che lo aiutava a capire New York in cambio di racconti sull’Europa orientale.
Il manoscritto, una storia nella storia, racconta l’epopea di quattro personaggi (Kasser, Falke, Begazza e Toot) che si ritrovano in quattro diverse epoche storiche: a Creta durante la civiltà minoica, dopo il naufragio della loro nave; nel XIX secolo durante la costruzione della cattedrale di Colonia; poi nella Venezia del XV secolo e infine fra i tempi del vallo di Adriano e il Portogallo di Giovanni II. Si devono tutti e quattro – in tutte e quattro le epoche – confrontare con una figura dai tratti demoniaci, Mastermann.
Il manoscritto, un lungo enigma fatto di meravigliose e folli frasi e di una storia smisurata, mostra come il mondo sia da sempre in uno stato di guerra permanente, eppure Korim lo trascrive per salvare le ultime tracce di bellezza e renderle disponibili a tutti coloro che hanno la sensibilità di riconoscerle, aggrappandovisi e moltiplicandole. È una storia di guerra continua che però offre con la sua bellezza l’unica speranza di salvarsi da un mondo fatto in quel mondo. Voltando le pagine di Guerra e guerra, non ci si può trattenere dall’idea che quel manoscritto (esisteva poi davvero?) meraviglioso e spaventoso insieme lo stiamo leggendo anche noi, ed è proprio il libro di Krasznahorkai.
Korim ha in realtà deciso di suicidarsi alla fine della trascrizione, ma l’incontro con un’immagine gli farà cambiare idea. Una foto di un’opera di Mario Merz, che si trova a Sciaffusa (Schaffhausen), in Svizzera, vicino a Zurigo. Una sorta d’igloo. Vorrà andarci a tutti i costi, per passarci un’ora dentro. Arrivato al museo di Sciaffusa, implora un guardiano di lasciargli realizzare il suo proposito e di poter affiggere alla parete del museo una piccola targa. Lo accontentano (troppo tardi?), e la targa c’è davvero. Ed è lì che è scritta l’ultima frase del romanzo:

Seiobo sulla terra (2008)

Un guardiano del Louvre e la Venere di Milo, monaci ortodossi e le loro icone dorate, il lavoro di un fabbricante di maschere per il teatro Nō, un visitatore dell’Alhambra, un esperto di musica barocca, una disastrosa visita dell’acropoli di Atene, un ammiratore di Tintoretto a Venezia, un uccello sul fiume Kamo di Kyoto, un’esperienza sconcertante di fronte a un ritratto del Cristo morto, Filippino Lippi che dipinge La regina Vasti, il restauro di una statua del Buddha, e così via.
I capitoli di Seiobo sulla terra, a metà fra raccolta di racconti-saggio e un anomalo romanzo, sono diciassette meditazioni sulla bellezza, comprese le sue delusioni e le sue forme di minuto artigianato, misticismo e sacralità. I personaggi sono inizialmente attratti da un’opera d’arte e dalla sua forza spirituale, poi la presenza e la forza di quell’opera finisce spesso per annichilirli e schiacciarli. La Seiobo del titolo è una principessa che, nel teatro Nō giapponese, mangia una pesca da un albero che fiorisce una volta ogni tremila anni e che la rende immortale. Seiobo si aggira, affacciandosi occasionalmente, fra le storie d’arte che Krasznahorkai racconta.
Nel libro c’è molta Italia: oltre ai capitoli su Firenze e Venezia, assistiamo al viaggio fra Firenze e Perugia del Perugino. Del resto, nel 1998 Krasznahorkai è stato residente a Civitella Ranieri, nelle colline umbre (qui, cioè). Altri capitoli derivano certamente dai lunghi soggiorni dell’autore in Cina e Giappone.
I racconti di questo libro sembrano allo stesso tempo il vertice mistico di Krasznahorkai e i suoi pezzi di bravura, virtuosi ed eruditi assoli. L’oscurità degli altri libri sembra lontana. Dopo una serie di romanzi in cui il senso di apocalisse è forte e costante, con Seiobo sulla terra Krasznahorkai sembra dirci che è nel gesto artistico e nel suo spessore mistico che è il caso di cercare rifugio. O, più che altro, distrazione, distrazione da un senso di apocalisse che non possiamo comunque ignorare.

Eppure

Nel 2015, Krasznahorkai ha vinto il Booker International Prize, ed era anche fra i favoritissimi per il Nobel. Inoltre, negli Stati Uniti e altri Paesi è idolatrato ormai quanto autori quali Roberto Bolaño e W.G. Sebald. In Italia, la storia editoriale dello scrittore ungherese è stata finora piuttosto travagliata. Melancolia della resistenza, tradotto da Dora Mészáros e Bruno Ventavoli per Zandonai, è purtroppo sparito dalle librerie insieme all’editore che lo ha pubblicato. Di Guerra e guerra, invece, una traduzione italiana esiste già, ma rimane inedita. La versione italiana di Satantango è stata pubblicata il primo dicembre 2016 da Bompiani, nella traduzione di Dóra Várnai.
Per inciso, Béla Tarr ha tratto dai romanzi di Krasznahorkai, con sua stessa sceneggiatura, due film, Satatango e Le armonie di Weirckmeister (ecco la notevole scena iniziale), basato soprattutto sulla seconda parte di Melancolia della resistenza. Krasznahorkai ha inoltre collaborato con il regista a due sceneggiature originali, Il cavallo di Torino e Perdizione, oltre all’adattamento del romanzo di Simenon L’uomo di Londra.
Nell’osservare l’umanità attraverso i libri di László Krasznahorkai, con la sua prosa allo stesso tempo ipnotica e decisa, ci accorgiamo che c’è sempre qualcosa di frapposto fra noi e il mondo reale, qualcosa che non ci permette di capirlo veramente, o forse di non vederlo senza essere ingannati da illusioni ottiche. È forse l’unico modo per descrivere davvero quel senso di apocalisse permanente che i suoi personaggi vivono. E noi con loro.
Come ha detto George Szirtes, poeta e traduttore in inglese di alcune opere di Krasznahorkai, la sua è una colata lava di materiale narrativo, lenta ma di grande forza. Ma è una forza solo distruttiva? Per spiegare perché credo di no, mi rivolgo a Ernesto De Martino.
Al momento della sua morte, nel 1965, Ernesto De Martino, il più importante antropologo italiano, stava lavorando a una grande ricerca sull’idea di fine del mondo nella storia delle religioni e nelle diverse declinazioni culturali. Non fece in tempo a finire il lavoro, ma il volume uscì lo stesso, nel 1977, seppure a frammenti. Era La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Che c’entrano De Martino e Krasznahorkai? De Martino capì che l’apocalisse viene in molti casi costruita e vissuta collettivamente come un ritorno al caos, quasi un regredire allo stato cosmologico primordiale. È proprio questo a permettere alle apocalissi di avere una funzione rigeneratrice per l’umanità, che può così avviare un nuovo ciclo di esistenza del mondo. Per questo, la letteratura di László Krasznahorkai è, nonostante tutto, una letteratura di speranza.

 

Edit del 29 novembre 2016: una versione italiana di Satantango è stata pubblicata il primo dicembre 2016 da Bompiani, nella traduzione di Dóra Várnai. Scheda del libro.

Print Friendly, PDF & Email
Close