Larghe vedute: l’ampiezza di uno sguardo che si fa sentire

Nasce “Larghe Vedute“: il primo network radiofonico ideato e creato dalle Radio della Salute Mentale.

«Sanità mentale vuol dire essere in malafede con se stessi. Vuol dire mentire, imbrogliare…far finta di niente. I matti son quelli che fanno il contrario, si prendono sul serio, anche a sproposito, perché non è il caso di prendersi troppo sul serio. I “normali” sono quelli che mentono a se stessi. In mezzo ognuno cerchi di vedere dove vuole stare».

(Franco Rotelli, psichiatra, all’interno del radio documentario Lavorare da Matti)

Dieci anni fa per motivi di ricerca andai un po’ di volte a Mantova a seguire le vicende di Radio Rete 180 (oggi ancora esistente e diretta da un circolo Arci), un laboratorio radiofonico per pazienti con disagi mentali del centro psicosociale delle strutture sanitarie di Mantova. Partecipavo come un giovane etnografo dei media alle riunioni di redazione, ai laboratori con i pazienti e intervistai alcuni di loro cercando di fargli spiegare il ruolo che aveva la radio nella loro vita quotidiana, sia nell’ascoltarla che nel praticarla. Anni prima avevo fatto la stessa ricerca tra i detenuti di San Vittore. Mi interessavano le pratiche di ascolto all’interno di quelle che Goffman chiamava “istituzioni totali” (prigioni, ospedali psichiatrici, conventi, caserme, manicomi). Cercavo di capire se la radio avesse un ruolo speciale, stra-ordinario, per persone che vivevano in condizioni di isolamento ed esclusione sociale. La ricerca su San Vittore fu rivelatoria (e anni dopo finì sul New Yorker, perché sull’argomento c’era pochissima ricerca). Scoprii quanto la radio fosse un vero strumento di sopravvivenza per i detenuti, ma non primariamente per connettersi con l’esterno, quanto per rifugiarsi in un luogo interiore, virtualmente più ampio e più solitario rispetto ai pochi metri quadri condivisi con altri detenuti. Un vero spazio privato all’interno di un luogo privo di privacy. Sarebbe stato lo stesso per i “matti”?

All’epoca esistevano pochissimi studi sull’effetto dell’ascolto e della pratica radiofonica su pazienti affetti da disagi mentali, se non il lavoro pioneristico dello psicologo argentino Alfredo Olivera fatto a Buenos Aires dal 1991 con la ormai famosa Radio La Colifata. Olivera era tra i pochi ad aver pubblicato anche alcune ricerche in cui descriveva gli effetti osservati tra i suoi pazienti. Da etnografo alle prime armi tentavo di replicare quegli studi e vedere cosa succedeva con i pazienti di Mantova.

Il motivo per farmi ritornare queste storie alla mente è la nascita di un vero e proprio network delle radio della salute mentale, lanciato il 2 marzo 2015: Larghe Vedute, che contiene trasmissioni molto diverse (contenitori di attualità, performance radiofoniche, interviste e selezioni musicali, redazionali di teatro/cinema, Momenti di informazione sulla salute mentale in Italia oggi, realizzati anche con la collaborazione di associazioni ed Enti differenti) con l’obiettivo di raggiungere un pubblico più ampio e uscire fuori dai confini dei dipartimenti della salute mentale. L’idea è nata dalle Radio della Mente che annualmente si incontrano a Trieste parallelamente al convegno Impazzire si può, e dal bisogno di queste realtà di trovare una “casa” in cui condividere i propri contenuti. La casa è una web radio, Radio Ohm, che ogni giorno, dalle 14 alle 15, trasmette i programmi di Larghe Vedute. Ma a cosa serve una radio della “salute della mente”? Per rispondere devo tornare alla mia ricerca.

Ritirando fuori vecchi faldoni sono riuscito a recuperare alcuni frammenti delle interviste fatte a Mantova a una ventina di pazienti. Ricordo che le risposte erano molto brevi, concise e gli intervistati si prendevano dei tempi lunghissimi per rispondere. Qui di seguito ne riporto alcuni, montando estratti da interviste diverse:

Che differenza c’è secondo te tra ascoltare la radio e farla…

Ascoltare la radio è passivo, farla è una roba attiva.

Secondo te fare la radio ti aiuta…

Sì, mi aiuta a star meglio, mi aiuta ad esprimermi… questo.

Cosa ti dà la radio? Cosa provi?

Mi aiuta a dimenticare le mie voci, perché è la voce di chi sente le voci… anch’io sentivo le voci, allora ho voluto partecipare per dimenticare le voci, per guarire, per essere anch’io una di quelle che… che sono nella norma, insomma.

Perché dici “per essere anch’io nella norma?” Parlare alla radio ti fa sentire nella norma?

Sì, mi fa sentire insieme agli altri, insieme a tutti gli altri che hanno anche loro qualcosa, che hanno anche loro i loro problemi e quindi minimizzo i miei e…  e quasi li sciolgo, li diminuisco.

Quando invece ascolti la radio, provi le stesse cose?

No, mi fa sentire in compagnia, non mi fa sentire sola, quando mi sento in solitudine accendo la radio e questa mi fa cambiare, mi fa perdere la solitudine.

Cosa ti spinge a fare la radio?

Cos’è che mi spinge? Qualcosa dentro di me che mi aiuta a voler realizzare qualche cosa di mio, che sento dentro di me, che ho, che ho nei miei valori, nei miei desideri. Se ascolto e basta non lo posso fare.

Stai meglio da quando fai la radio?

Sì, sto meglio.

Che differenza c’è secondo te tra fare la radio come fai te e ascoltarla…

C’è la differenza che invece che ascoltare la radio, aiuta molto perché si impara a reagire nel modo giusto, e si impara anche a fare colloqui, si impara a fare tante cose utili. È utile.

Che differenza c’è tra ascoltare e fare?

Be’, praticamente c’è differenza perché è molto, molto utile perché libera… aiuta i sentimenti a buttarli fuori, quando la faccio. Quando l’ascolto mi vengono in mente…

Da queste conversazioni con i pazienti pensai di aver capito alcune cose, che oggi andrebbero sicuramente riviste e che descrissi in questo articolo. Quello che sembrava emergere dalle loro parole, dai colloqui con gli psicologi e dall’osservazione partecipante alle loro riunioni era soprattutto che fare la radio funzionava se sapevano che dall’altra parte c’era qualcuno che li ascoltava. Avere la certezza, tramite i feedback degli ascoltatori, che le loro parole erano ricevute e rielaborate, era per i pazienti l’elemento più importante del loro entusiasmo verso il mezzo. Era un modo, a mio avviso, per rientrare, temporaneamente e virtualmente, dentro i confini della società. Essere ascoltati era la loro più grande necessità, oltre a un altro fatto molto importante: poter verbalizzare i propri sentimenti e potersi ri-ascoltare. E questo credo, vale per ognuno di noi, non solo per i matti: se accumuliamo problemi senza dargli voce, senza espellerli fuori dal corpo per poterli osservare da fuori, se non confidiamo a nessuno cosa ci turba, questi problemi crescono e ci fanno letteralmente diventare matti. È per questo motivo che le persone che non sono matte chiamano le radio per confidare a degli sconosciuti dj i loro problemi personali e le loro intime abitudini (una sera ricordo di aver sentito degli ascoltatori chiamare Caterpillar per confidare a Massimo Cirri i modi in cui facevano sesso con la televisione accesa).

Per questo, credo, un network delle radio della salute mentale può aiutare tutti, non solo chi, come i radiofonici di Mantova, “sentiva le voci”. Non si tratta di raccontare solo le proprie storie e farle uscire fuori, si tratta anche di creare una rete di comunicazione per la comunità di attivisti, medici, volontari, familiari che hanno a che fare con la sanità mentale. Per esempio, dando uno sguardo al palinsesto di Larghe vedute, oggi ho scoperto che la domenica alle 14 c’è Radio Stella 180 di L’Aquila che affronta il tema della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari ma anche «di situazioni un po’ strambe, di tecnologia paranoica, di sport, di tisane e tanto altro»; oppure una puntata di Radio Senza Muri in cui Silvia Santilli «presenta il suo libro: Una strana malattia: terribile e meravigliosa, terrificante e affascinante. L’autrice racconta la sua storia tra assunzioni di farmaci, allucinazioni, sofferenze e un fascino irresistibile verso la sua condizione».

Ecco, questi due programmi sono un esempio di cos’è una radio, che non fa solo informazione, ma che intra-tiene una comunità (nel senso che le fa compagnia e la tiene insieme).

Le persone hanno bisogno di raccontarsi, e se non trovano qualcuno con cui farlo, se non sono inserite in un tessuto sociale pronto ad accoglierne la voce e condividerne i problemi, sono anche disposte a confessare i propri problemi o condividere le proprie abitudini con degli sconosciuti che gli ispirano fiducia, come i conduttori di una radio. Quando chiamiamo la radio per svelare qualche nostra storia personale, siamo tutti apparentemente matti, né più né meno dei matti di Mantova. Ma è parlando con loro che ho capito che diventiamo tutti matti, in misure diverse, quando nessuno ci ascolta e che la radio può farci sentire, in modi diversi, meno matti di quello che crediamo. Ascoltare una voce umana parlare e trasmettere la propria voce a qualcun altro è una delle terapie migliori per sentirsi accolti, in qualche modo “a casa”, a proprio agio nel mondo.

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