L’archistar al tempo della crisi

Il Cretto di Burri a Gibellina. Foto: iJuliAn, CC BY-NC-SA 2.0

In Italia sta emergendo, ormai da diversi anni e in modo sempre più mediatico e mediatizzato, il ruolo di professionisti dell’architettura, solitamente uomini di mezza età, ormai affermati e con una certa visibilità che, a seguito di un evento calamitoso, sono chiamati dalle istituzioni, risultano vincitori di bando o semplicemente offrono a titolo gratuito il proprio contributo per ricostruire o proporre un edificio, un’infrastruttura, riportare alla vita elementi o luoghi simbolo del territorio. Si tratta delle archistar, forti di una certa aura pop e della propria creatività e credibilità sia agli occhi della politica che dell’opinione pubblica, che supportano le istituzioni nelle loro scelte strategiche per fronteggiare la crisi e, allo stesso tempo, attribuiscono alle proprie opere un forte connotato catartico per i territori in cui intervengono.

Il coinvolgimento di grandi architetti nei processi di ricostruzione non è certamente nuovo in Italia. Già dopo il terremoto del Belice nel 1968, Gibellina Nuova divenne terreno di sperimentazione per architetti e artisti che diedero vita tuttavia a un fallimento urbanistico e sociale. In Irpinia, Aldo Loris Rossi ricostruì parte del comune di Bisaccia post-1980 con idee che, seppur lodate come utopiste e d’avanguardia, mal si attagliavano alle funzioni richieste, addirittura non trovando realizzazione ma solo scheletri e costi lievitati. Anche Corrado Beguinot, intervenendo per la rilocalizzazione di Conza della Campania, propose soluzioni abitative poco contestualizzate, tanto da dover abbandonare il progetto[1].  

Col tempo, il coinvolgimento delle archistar è diventato sempre più appannaggio della visibilità mediatica dell’azione istituzionale, ponendovi un brand, un marchio di qualità, ad appiattire il dibattito critico sulla complessità dell‘intervento in tempo di crisi. In una logica efficientista del fare, le archistar sembrano confermare più che contestare, non tenendo conto del resto dell’intervento: per chi, per cosa, perché? Affossano il dibattito, non contestualizzano l’intervento e non si schierano contro mancanze strutturali e ideologiche. Questo finisce per congelare la realtà in un passato perduto o, in alcuni casi, in una visione futuristica spesso irrealizzabile.

Il Piano griffato

Tra le più famose archistar vi è certamente Renzo Piano, progettista di opere iconiche in tutto il mondo, una delle personalità più influenti dell’architettura contemporanea e senatore a vita dal 2013. Piano è anche una delle archistar più presenti nelle fasi di ricostruzione italiane degli ultimi anni. Dall’Aquila alla Liguria la sua azione, individuale o in collaborazione con altri architetti, ha sempre più calamitato l’attenzione sulla ricostruzione materiale del luogo e il suo potere visuale.

All’Aquila, l’auditorium del Parco del Castello (2013), che è diventato parte del paesaggio urbano, generò polemiche legate a sostenibilità ed integrazione nel contesto. L’opera conteneva criticità sia a livello ambientale – per l’impatto delle piattaforme di fondazione in cemento, necessarie comunque anche per una struttura in legno- sia a livello paesaggistico – per l’interferenza della volumetria dell’opera con la mole del Castello. Sempre all’Aquila, la donazione dell’auditorium Paper concert hall da parte dell’architetto giapponese Shigeru Ban in prossimità del conservatorio cittadino ha significato un ulteriore gesto di rinascita a firma prestigiosa. In entrambi i casi, il carattere temporaneo e l’accento posto sulla scelta dei materiali leggeri, dal legno al bambù, hanno reso i progetti accettabili per l’opinione pubblica, a seguito del terremoto. Di fatto, le opere hanno assunto carattere permanente, apparendo in retrospettiva come interventi catalizzatori di attenzione mediatica durante la complessa fase post-disastro.

L’Auditorium realizzato da Renzo Piano all’Aquila dopo il terremoto del 2009.

Storie analoghe si ritrovano in Liguria. Nell’ottobre 2011 l’alluvione nelle Cinque Terre ha avuto conseguenze devastanti per piccoli comuni come Vernazza e Monterosso. Con l’avvio del processo di ricostruzione, Richard Rogers, architetto italiano naturalizzato inglese e frequentatore abituale di Vernazza, si è offerto, insieme a Renzo Piano (collaboratori da lungo tempo ed entrambi vincitori del prestigioso premio Pritzker Prize), di progettare e supervisionare la ricostruzione del fronte-mare di Vernazza. Il progetto era stato finanziato tramite una raccolta fondi lanciata dalle associazioni locali impegnate nella ricostruzione. Nonostante l’accoglienza positiva, visto anche il contribuito del progetto ad accrescere la notorietà del territorio, non sono mancate note critiche circa la sua incapacità di riflettere sulle reali esigenze locali e di innescare un ripensamento delle relazioni di potere tra i territori. Anche in questo caso infatti l’intervento ha finito per confermare l’esistente, piuttosto che rivedere gli squilibri presenti.

La Riviera di Levante vive da tempo una relazione dicotomica tra area costiera e area montana, con una forte pressione e attenzione esercitata soprattutto sulla prima a discapito della seconda. Questa disuguaglianza territoriale è anche alla base delle dinamiche geofisiche da cui si generano le frequenti alluvioni e frane che interessano l’area. Intervenire sulla costa, quindi, ha sostanzialmente reiterato la centralità della stessa nel futuro del territorio, senza tuttavia cogliere come l’una non possa sopravvivere senza l’altra. Parafrasando un abitante di Vernazza in un’intervista del 2012, lo sfruttamento di quest’area di costa cesserà solo quando tutta la terra sarà dentro il mare. L’ingordigia dell’industria turistica costiera sarebbe tale, dunque, da non avere interesse a salvare il territorio, lasciandolo lentamente ‘scivolare’ nel mare, finché non sarà completamente inghiottito. Il problema di questo intervento risiederebbe, dunque, nell’incapacità di leggere queste dinamiche di potere, e di comprendere il proprio ruolo all’interno di esse.  

Pochissimi giorni dopo il crollo del ponte Morandi di Genova nell’agosto 2018, Renzo Piano ha regalato alla città e al governo il suo progetto, con accettazione immediata da parte dell’opinione pubblica. Il progetto, diventato realtà in tempi brevissimi, ha restituito visivamente la solidità e sicurezza ricercata dopo il crollo. Tuttavia, la platealità del gesto ha contribuito a stroncare sul nascere qualunque dibattito sulle problematiche sociali e ambientali nella città di Genova, che si sarebbero potute affrontare ripensando la mobilità, la logistica integrata, i trasporti e l’organizzazione spaziale, di cui il ponte era effettivamente un simbolo. Il ripensamento del ponte, in quanto elemento essenziale di connessione, interconnessione e interdipendenza, sarebbe dunque stata l’occasione per comprendere meglio tutto quello che attraversa il ponte, i percorsi, le reti, e le potenzialità di rinascita di una città da anni in forte spopolamento.

Focalizzare l’attenzione sul ponte ha invece impedito questa riflessione, vedendo la ricostruzione come mero atto di ripristino dello stato precedente. Il ponte appare più solido e forte, quasi rassicurante; tuttavia, le reti e i flussi che lo attraversano e forgiano la città sono rimasti gli stessi, ricostruiti nelle proprie difficoltà e fragilità. Apporre il brand Renzo Piano all’intervento ha, dunque, da un lato fornito credibilità e validità all’azione di ricostruzione, e dall’altro annullato qualunque spazio di discussione critica e alternativa sugli obiettivi strategici dell’intervento (per quale Genova ricostruire il ponte?) e sulla complessità urbana della città, che era e risulta oggi in continuo cambiamento nella sua struttura sociale ed economica, protesa tra le conseguenze dei mutamenti economici e una questione ambientale sempre più pressante.

Il Ponte Morandi dopo il crollo. Foto: Michele Ferraris, CC BY-SA 4.0

Multi-tasking Boeri

Dopo il terremoto di Amatrice del 24 agosto 2016, l’architetto Stefano Boeri -fratello di Tito Boeri, economista ed ex presidente INPS, entrambi presenti in modo discutibile nel dibattito pubblico su molte questioni cruciali per il paese, con posizioni legate all’informe centro sinistra riformista e progressista- è intervenuto in varie aree del cratere, da Amatrice a Norcia, Castelsantangelo sul Nera, Arquata del Tronto. Ad Amatrice ha realizzato la piazza del Polo del Gusto, riunendo varie attività di ristorazione delocalizzate oltre il centro storico distrutto.

Il progetto intendeva fornire un nuovo punto di aggregazione sociale, ma di fatto ha accentuato la disgregazione del centro urbano, ignorando le dinamiche spaziali e sociali necessarie per ripristinare la vitalità e la funzione comunitaria in un contesto post-disastro, a causa del carattere monofunzionale della struttura, a uso esclusivo di ristorazione e mensa, intorno a un vuoto centrale ridefinito piazza. Ricopiando lo stesso linguaggio architettonico utilizzato ad Amatrice, Boeri ha firmato anche il discusso centro polifunzionale di Norcia, una struttura di accoglienza temporanea per le funzioni di protezione civile ma rimasta a lungo inutilizzata a causa delle indagini che hanno interessato lo stesso Boeri ed il sindaco di Norcia per presunte irregolarità, poi assolti.

Il centro polifunzionale di Norcia (settembre 2019). Foto: Giulia Scandolara.

Boeri ha operato anche nelle Marche, intervenendo nel piano di ricostruzione di Castelsantangelo sul Nera, affiancato dai professori Alberto Prestininzi e Franco Braga e dalla società di ingegneria MATE. Presentato a settembre 2020, il piano vorrebbe far leva sulla sostenibilità contrapponendo fragilità ed antifragilità al motto di “non ricostruire l’identico ma l’autentico”. Il team di esperti e tecnici, estranei al territorio, consulterà la popolazione per ridisegnare il nuovo insediamento in base a una idea di rinascita.

Dietro il motto che promuove il sacrificio dell’identità in nome dell’autenticità, contrapponendo concetti tuttavia profondamente interconnessi, si aprono invece questioni ben più complesse che una ricostruzione porta sempre con sé ma che il progetto non sembra contemplare. Manca, per esempio, chiarezza su quali siano gli elementi effettivamente sacrificabili – le forme? i materiali? le funzioni? su quali basi? – come manca anche una visione strategica riguardo allo spopolamento dei paesi.

Quest’ultimo punto viene ignorato anche nell’intervento di Boeri per Arquata del Tronto. Come per Castelsantangelo, il progetto di ricostruzione della nuova Arquata invoca un processo partecipativo ma la quantità di attori affiliati a Boeri – dalla sua stessa società al gruppo di ingegneria MATE – sembra di fatto lasciare poco spazio all’espressione o al coinvolgimento delle competenze locali. La ricostruzione di Arquata è dichiaratamente finalizzata alla rinascita economica e da essa modellata, per una speditiva ed efficace riattivazione – sulla carta – dell’economia locale in nome del turismo.

Tuttavia, la sostituzione di sette insediamenti montani (tante sono le frazioni interessate dal piano) con altrettante controparti griffate apre molti interrogativi. Saranno anche qui replicati poli funzionali e piazze vuote? Come si colloca il progetto in relazione agli altri interventi e al problema, preesistente al terremoto, della gestione dei territori montani? Esiste una strategia d’insieme, strutturata, che, oltre al restyling finalizzato a servire il turismo dei nuovi ‘luna park griffati’ coinvolga e ripensi, ad esempio, servizi e regimi fiscali, con un approccio territoriale invece che puntuale? 

Boeri floreale

Lo scorso dicembre Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia e commissario straordinario per l’attuazione delle misure pandemiche, ha lanciato la campagna vaccinale Covid-19, fornendo pochissime informazioni sulle tempistiche, sull’attuazione e sulle risorse da investire. Ben chiara invece la presenza di Stefano Boeri che, contattato dal governo, ha donato un proprio progetto per la rinascita dell’Italia con i vaccini: un padiglione a forma di primula che dovrebbe fungere da struttura mobile per la somministrazione, che al contempo garantisca le misure di sicurezza richieste e sia facilmente trasportabile. Come un poco convinto Boeri ha affermato in un’intervista, l’idea della primula rappresenta un simbolo di serenità e rinascita, essendo il primo fiore a spuntare dopo l’inverno. Un messaggio semplice e diretto per la popolazione, tanto da campeggiare come logo sia sul sito del Ministero della Salute che del Report Vaccini Anti Covid 19.

La primula di Boeri nel logo ufficiale della campagna vaccinale.

Pur col beneficio delle difficoltà e incertezze legate a una delle più grandi sfide logistiche e sanitarie del dopoguerra, Arcuri ha focalizzato l’attenzione mediatica sulla figura di Boeri e il brand dell’archistar mentre altre questioni dirimenti, come la trasparenza, il ricorso alla medicina territoriale, la disponibilità di risorse, la stabilizzazione di personale, le priorità e le tempistiche, sono emerse solo nelle settimane seguenti in maniera frammentaria e confusa. Insomma, il marchio dell’architetto -a opera non ancora realizzata- sembra contribuire a dare credibilità all’azione istituzionale, rallentata invece da questioni non solo di natura logistica e dalla mancata consegna dei vaccini ma anche da problemi strutturali e aspetti di governance sanitaria a macchia di leopardo. Sembra comunque che il progetto dei padiglioni floreali, apertamente criticato sia per mancanze logistiche che per i suoi costi, certamente impiegabili per altre urgenze, stia comunque naufragando, rendendo il tutto una classica vicenda italiana, surreale e grottesca.

Quanto descritto vuole essere una riflessione preliminare sull’uso strumentale che le istituzioni fanno delle archistar nel dibattito sugli scenari di crisi e disastri. Rivendichiamo da tempo il bisogno di riflettere sugli scenari post-crisi come una necessità di rinnovamento a partire dagli errori passati, attraverso uno sguardo critico sulla società di oggi -dall’ambiente costruito, al sistema sanitario, all’economia- anche grazie all‘architettura e alla pianificazione. Questa rivendicazione comporta anche e soprattutto la contestualizzazione dell’intervento nel territorio, l’ascolto delle voci dal basso, e un’attenzione alle persone e situazioni maggiormente vulnerabili. Ci ritroviamo, invece, fin troppo spesso a raccontare di interventi superficiali e decontestualizzati che, indipendentemente dalla loro funzionalità e utilizzo, fungono spesso da paravento al mantenimento dello status quo, perpetrato da centri di potere della politica e della conoscenza. Le archistar, in questo, hanno un grande peso.

 

[1] G.I. Moscaritolo, Memorie dal cratere. Storia sociale del terremoto in Irpinia. Editpress, Firenze, 2020.

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