L’antropologo a domicilio

Questa sera (giovedì 21 maggio, ore 19), il Circolo ARCI Lavoro e Sport di Siena ospiterà la performance “Ritmi di festa” di Paolo Apolito: un monologo che indaga la grammatica del festivo tra comunità ritmiche, entrainment e mimesi.

Pubblichiamo un estratto dal volume Ritmi di Festa. Corpo, danza, socialità (il Mulino, 2014) dal quale la performance è tratta.

La bettola di Salonicco

Tra l’aprile e l’ottobre del 1915 John Reed, famoso giornalista americano autore di I dieci giorni che sconvolsero il mondo dedicato alla rivoluzione bolscevica, e il suo amico disegnatore canadese Boardman Robinson s’aggiravano nella devastazione delle retrovie del fronte orientale di guerra nel vano tentativo di raggiungere la prima linea. I paesi erano a ferro e fuoco, la guerra travolgeva città e villaggi, la popolazione civile era vittima innocente. Una notte, nel quartiere del porto di Salonicco, incuriositi da una cantilena maschile, i due sbirciarono attraverso il vetro sporco di una malandata finestra dentro una bettola, e videro seduti intorno a un tavolaccio otto uomini che cantavano battendo animosamente il tempo con posate e bicchieri. «All’improvviso uno ci scorse alla finestra: tutti si interruppero e balzarono in piedi. La porta si aprì di scatto, alcune mani ci afferrarono e ci trascinarono dentro».

Investiti da parole di lingue diverse, Reed e Robinson furono quasi forzati a bere e assediati di domande, francesi? inglesi? perbacco, americani! ma noi abbiamo parenti in America, anzi dopo la guerra vogliamo andarci. Erano quattro greci, un italiano di Aleppo, un francese di Smirne, un armeno e il padrone del locale, greco anche lui. Parlavano lingue diverse, «uno parlava inglese, un altro un rozzo francese marinaro, il terzo napoletano, il quarto spagnolo levantino, e il quinto un tedesco semplificato», ma «tutti sapevano il greco e lo strano linguaggio dei marinai mediterranei». Dai quattro angoli del mondo, la guerra li aveva sbattuti in quella bettola e là avevano scoperto di fare tutti lo stesso mestiere di carpentiere. L’oste aveva voluto festeggiare la coincidenza offrendo da bere e mangiare ai carpentieri senza lavoro e senza famiglia a causa della guerra. Ripresero a cantare. Una canzone araba, una turca, l’italiano cantò con voce da tenore La donna è mobile, accompagnato da improvvisate percussioni in stile orientale, poi altre canzoni, abbozzi. Di tanto in tanto, tra una canzone e l’altra, ognuno raccontava la sua storia. L’uomo che parlava «una specie di dialetto tedesco» era un armeno, cui i turchi avevano distrutto l’intera famiglia, mentre era lontano per lavoro, a Baghdad.

Proprio la città da cui il francese era fuggito a bordo di un peschereccio, lasciando moglie e due figli, per evitare la leva militare, e in cui l’italiano, fuggiasco anche lui, aveva perso il fratello, catturato forse ucciso mentre erano in fuga. Nel clima surriscaldato di canti, nostalgie e racconti, gli otto chiesero a Reed e Robinson una canzone americana e questi cantarono John Brown’s Body, e la ricantarono a gran richiesta per un bis, un tris e poi ancora. Per ringraziare, i carpentieri danzarono il kolo, ballo noto tra tutti i popoli balcanici, «gli scarponi battevano pesantemente sul pavimento, le braccia ondeggiavano, le dita schioccavano, gli abiti laceri sventolavano dalla penombra scura alla luce giallastra». Fu la volta di un ballo arabo, «contorsioni del corpo, passi leggeri e sincopati, lente giravolte con gli occhi chiusi». Andarono avanti ancora per tutta la notte, «alle prime luci dell’alba davamo lezioni di boston e di trot turco alla compagnia»

Sconosciuti in festa

[…]

Che senso poteva avere un festeggiamento, tra sconosciuti peraltro vittime della guerra, durato una notte intera? Un oste offre da bere ai suoi sette clienti quando scopre che sono tutti carpentieri, questi accettano, ma non si limitano a bere e andar via, magari dopo aver scambiato quattro chiacchiere di circostanza, ma festeggiano una notte intera, e quando vedono due estranei incuriositi dalla loro festa, li tirano dentro e con loro si fondono in un’improvvisata comunità festiva destinata al mattino a sciogliersi e mai più ricomporsi. Un impulso a festeggiare curioso, tra persone che solo per caso sono vicine, mentre infuria una guerra. Non nemiche neppure ostili, come nei casi precedenti, però estranee, vicine solo per i capricci degli eventi. Sette carpentieri mediterranei e due viaggiatori nordamericani trascinati quasi a forza nella bettola – qualunque altro al posto loro forse lo sarebbe stato allo stesso modo, fu casuale che si trattasse di Reed e Robinson – che festeggiano perché stanno là insieme. Ancora una volta, un impulso tra persone casualmente vicine.
E poi, […] qualcosa che scatta tra loro. […] Come una forza magnetica che attrae.
Dopo la festicciuola al mattino tutti via, ognuno per la sua strada.

Feste senza comunità

Ma non si festeggia dentro una comunità che già c’è? Fare festa non è confermare e consolidare un «Noi» preesistente, stabile e duraturo, un gruppo, un’associazione, un quartiere, un paese, una famiglia?
E non ci vuole una ragione valida per festeggiare? Un motivo forte, che so, un trionfo, un guadagno insperato, un risultato conseguito? Oppure una ricorrenza, una tappa del tempo che torna e che si rinnova, ma tra amici, tra sodali?
Non sono questi il «senso» del festeggiare?
La comunità impossibile tra nemici di guerra, quelle fragili tra compagni di sventura nella cantina di Berlino e nella bettola di Salonicco, quella futile del bar di Caracas, furono tutte comunità provvisorie, senza un solido «Noi» e (tranne nel caso di Berlino) senza ragioni importanti per festeggiare. Comunità inconsistenti, effimere, destinate a scomparire. Non avevano una storia alle spalle né un futuro davanti. Si sciolsero appena finì l’effetto del festeggiare.
Nondimeno tali comunità erano tutt’altro che deboli mentre funzionavano, la loro intensa effervescenza fu capace di trascinare a entusiasmi irrefrenabili. A gesti di apertura di sé, contatti anche fisici tra partecipanti, generosità e «amore» di cui dopo i protagonisti si sarebbero meravigliati, forse quasi vergognati. Mostrare le fotografie dei propri cari ai nemici e guardare le loro il giorno dopo averli bombardati e mitragliati e prima di tornare a farlo ancora; abbracciarsi commossi un giorno e neppure salutarsi o guardarsi in cagnesco nei giorni seguenti; ballare mentre si è in lutto per i propri familiari o bere e cantare abbracciati con estranei che mai più si incontreranno, e così via, sono azioni che agli stessi protagonisti probabilmente il giorno dopo saranno apparse stranezze. Di cui si saranno chiesti il senso. E noi con loro cercheremmo un senso di questi «insensati» festeggiamenti. Senza trovarlo. Sono festeggiamenti incomprensibili, se ne cerchiamo un senso fuori, nelle «cause», oppure nella celebrazione di un «Noi» stabile e duraturo. Non c’è.
Invece che guardare fuori quei festeggiamenti, cercare un senso laddove è introvabile, bisogna guardare dentro, osservare ciò che accadde alle e soprattutto tra le persone che festeggiarono.
È là, tra loro, che si incontrerà quel qualcosa, quella forza, un vero legame speciale. Che è in grado di disporre gli atteggiamenti e orientare i comportamenti delle persone, in alcuni casi dettarli. Visibile, anche molto, e tutto sommato noto, però ignorato e al tempo stesso indecifrato, forse proprio perché troppo visibile e ovvio […]

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