L’ Antropocene e l’invasione di locuste

Pubblichiamo l’ottava puntata di Intemperie*

Terre asséchée Prise à Toulon. Foto di Kos, CC.

Le potenzialità di uno sguardo antropologico.

Noi abitanti dell’Antropocene dovremmo ormai aver raggiunto la consapevolezza che tutto ciò che avviene oggi sul pianeta, come la riduzione della biodiversità, i cambiamenti climatici o le epidemie, ha una chiara origine antropica. Se oggi possiamo parlare di Antropocene lo dobbiamo a Crutzen (2000)1 che, attraverso le sue ricerche sulla chimica dell’atmosfera e sul buco dell’ozono, si rese conto di quanto le attività umane avessero modificato l’atmosfera e di conseguenza il clima, gli habitat e le biodiversità. Lo scienziato ritenne quindi che non si potesse più parlare di periodo climatico naturale. 

All’indomani della proposta di Crutzen si è aperto un vero e proprio dibattito su quando sarebbe iniziata l’epoca dell’Antropocene, che possiamo riassumere attraverso quattro punti di vista diversi. La proposta di Crutzen associava l’inizio dell’Antropocene con l’invenzione della macchina a vapore nel 17842. Alcuni studiosi ritennero invece che le modificazioni dell’habitat e il cambiamento microbiotico marino iniziarono 3700 anni fa3. Un’altra corrente individuò nella data del 6 agosto 1945 l’inizio dell’Antropocene collegandolo alla detonazione della prima bomba atomica4, mentre altri sancirono l’inizio dell’Antropocene con la fine della Seconda guerra mondiale5. E’ importante sottolineare che gran parte degli scienziati, seppur non in accordo sulla periodizzazione, sono tuttavia concordi e consapevoli nel ritenere che l’epoca in cui stiamo vivendo sia plasmata dalle azioni umane. Va notato però come attribuire implicitamente a tutta la specie umana le medesime responsabilità nel destino del pianeta e delle catastrofi ambientali che stanno avvenendo sia iniquo. Lo storico dell’ambiente Moore sottolinea e afferma (2017) che l’essere umano in sé non è la causa dell’Antropocene, ma è la violenza inscritta nel rapporto fra natura e umanità che è presente dalle origini del capitalismo ad aver generato questa nuova epoca. Per questo motivo propone di parlare di Capitalocene, considerando il sistema capitalistico come un modello che comprende anche il mutamento dell’ecosistema, lo sfruttamento incontrollato delle materie prime e le disuguaglianze sociali6.Parlare di Capitalocene è inoltre importante perché la reazione al concetto di Antropocene è stata una risposta capitalistica, green e sostenibile: le ricette della scienza nella creazione di nuove tecnologie efficienti dal punto di vista energetico sono spesso pensate in un medesimo regime di crescita capitalistica7.

Warming stripes (global WMO, 1850-2018), Climate Lab Book di Ed Hawkins, CC.

Su LAPh ITALIA, Stefania Barca evidenzia inoltre come le società che maggiormente contribuiscono ai modelli di produzione e consumi neoliberlisti sono anche quelle che oggi subiscono in termini relativi conseguenze minori dal cambiamento climatico. Se osserviamo infatti i costi ambientali che le diverse società stanno affrontando, ci rendiamo conto che

non sono equamente distribuiti: essi tendono a concentrarsi nelle cosiddette ‘zone di sacrificio’ – ovvero territori marginali abitati da comunità di cittadini/e di serie b, alle cui vite, per ragioni diverse, viene attribuito un valore minore.

Un esempio molto interessante che mostra quanto la specie umana sia interconnessa con le altre e ci permette di focalizzare lo sguardo su ciò che avviene nelle “zone di sacrificio” riguarda l’invasione di locuste del deserto che si è diffusa a partire dalla fine del 2019 principalmente in Kenya, Etiopia e Somalia. Essa ha rappresentato un grave rischio per la sicurezza alimentare ed i mezzi di sussistenza delle popolazioni locali. Le locuste si sono moltiplicate per un’alternanza di piogge abbondanti dovute ai cicloni Menkunu e Luban seguite da periodi di siccità. A seguito di questi eventi le locuste si sono diffuse in sciami estesi spostandosi dallo Yemen all’Africa Orientale. Il cambiamento climatico, l’aumento delle temperature e delle precipitazioni nelle zone desertiche e i forti venti associati ai cicloni tropicali hanno fornito un nuovo ambiente per la riproduzione, lo sviluppo e la migrazione delle locuste. Le invasioni di locuste si sono però aggravate da fattori non climatici come l’instabilità politica, i conflitti armati, la cattiva governance, le limitate risorse finanziarie8. Ciò evidenzia come non tutti gli Stati siano ugualmente vulnerabili ai disastri ambientali che avvengono sul pianeta. Esiste infatti una distribuzione iniqua dei disastri, e diversi studi hanno evidenziato come tra i fattori che determinano tale distribuzione quelli economici e sociali sono preponderanti9.

Per arginare i danni dovuti all’invasione di locuste, sono stati investiti milioni di euro in pesticidi da irrorare sulle larve prima ancora che comincino a volare; nonostante il blocco dovuto alla pandemia di Covid-19, il personale dell’ONU ha avuto l’autorizzazione a lavorare e intervenire nelle zone colpite. 

Sono quindi state adottate “soluzioni emergenziali”, dannose per la vegetazione, per gli esseri umani e per il territorio in cui vengono applicate e non finalizzate a prevenire realmente lo svilupparsi delle invasioni, puntando puramente ad evitarne la diffusione. Di fronte a emergenze come questa non possiamo più pensare a soluzioni che vedano l’umanità agire in maniera isolata e scollegata del sistema-mondo, ma dobbiamo riconoscere l’arroganza delle nostre azioni e dobbiamo quindi riconoscere alle altre specie un posto come compagne10.

Dobbiamo quindi assumere una visione zooantropologica del rapporto fra umano-non umano, avvicinandoci sempre più alle proiezione degli esseri umani nei confronti dell’animalità e della rappresentazione di somiglianze e diversità. Diviene quindi necessario superare la tradizionale dicotomia tra esseri umani e animali che ha permesso e accreditato la relazione oppressiva fra le due parti, riconoscendo la cultura come una qualità di tutte le specie umane e non11.

Bisogna inoltre pensare a soluzioni che partano da un approccio diverso anche nei confronti degli altri esseri viventi implicati nei disastri. Come propone Lecoq, ex direttore del programma di ricerca e controllo delle locuste della FAO, che riflette sulla necessità di integrare l’approccio ecologico con il sapere antropologico. Per trovare una risposta adeguata alle invasioni di locuste bisognerebbe ascoltare, considerare, e integrare le numerose componenti della società che sono coinvolte in questi processi ambientali. Come? Ad esempio, considerando e dando voce alla cittadinanza, ai pastori, ai contadini e anche agli stregoni o ai medici che cercano di contenere e combattere le locuste con gli strumenti a loro disposizione12. Il coinvolgimento del sapere antropologico potrebbe dunque giocare un ruolo importante in una ricerca di nuove soluzioni.

I cambiamenti climatici e gli effetti dell’Antropocene, o come alcuni preferiscono chiamarla del Capitalocene, sono visibili, come abbiamo visto, quotidianamente in molte parti del pianeta. Il nostro compito, come ci suggerisce Haraway (2008) è quello di rendere questa epoca il più breve e “sottile” possibile, mettendo al centro l’esperienza dei subalterni, siano essi umani o non umani13.

Per fare ciò, l’utilizzo dei saperi antropologici nel direzionare lo sguardo sulla percezione individuale e collettiva del cambiamento climatico, dei saperi locali e tradizionali può far emergere la moltitudine di aspetti umani e non umani che sono coinvolti nell’affrontare le emergenze e favorire un cambio di paradigma tuttora inedito.

*Serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino.

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Note

  1. Crutzen, P.J., Stoermer, E.F. (2000). The “Anthropocene”. Global Change Newsletter 41, 17-18.
  2. Crutzen, P.J. (2002). Geology of mankind. Nature 415, 23.
  3. Certini, G.; Scalenghe, R. (2011). Anthropogenic soils are the golden spikes for the Anthropocene. The Holocene, 21, 1269-1274.
  4. Zamora M. E.; Huerta A. H.; Maqueo O. P.; Badillo G. B.; Bernal S. I. (2016). Cambio global: el Antropoceno, In “Ciencia Ergo Sum”, vol. 23 (1), marzo-junio, 2016, pp. 67-75.
  5. Steffen W.; Crutzen P.J.; McNeill J.R. (2007). The Anthropocene: are humans now overwhelming the great forces of Nature? In “Ambio” vol. 36, pp. 614-621.
  6. Moore J. W.  (2017). The Capitalocene, Part I: on the nature and origins of our ecological crisis, In “The Journal of Peasant Studies”, vol. 44 (3), pp. 594-630.
  7. Armiero, M.; De Angelis, M. (2017). Anthropocene: Victims, Narrators, and Revolutionaries, The South Atlantic Quarterly 116:2, April 2017, 345-362, doi 10.1215/00382876-3829445
  8. Salih A.A.M.; Baraibar, M.; Mwangi, K.K. et al. (2020). Climate change and locust outbreak in East Africa. In “Nature Climate Change” vol. 10, pp. 584–585 e Meynard C. N.; Michel L.; Chapuis M. P.; Piou C. (2020). On the relative role of climate change and management in the current desert locust outbreak in East Africa. In “Global Change Biology” 2020, vol. 26, pp.3753–3755.
  9. García-Acosta, V., (2009) Prevención de desastres, estrategias adaptativas y capital social. In: Koff, H. (Ed.), Social Cohesion in Europe and the Americas: Power, Time and Space, Berne, Switzerland: Peter Lang- Editions Scientifiques Internationales, Regional Integration and Social Cohesion Series vol. 3: 115-130.
  10. Haraway D. (2008). When Species Meet. Minneapolis. University of Minnesota Press.
  11. Marchesini R.; Tonutti S. (2007). Manuale di zooantropologia, Meltemi, Roma.
  12. Lecoq M. (2005). Desert Locust Management: From Ecology to Anthropology. In “Journal of Orthoptera Research”, vol. 14(2), pp.179-186.
  13. Armiero, M.; De Angelis, M. (2017). Anthropocene: Victims, Narrators, and Revolutionaries, The South Atlantic Quarterly 116:2, April 2017, 345-362, doi 10.1215/00382876-3829445
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