L’“altrui mestiere” dello scrittore e il ponte tra le due culture

Nell’epoca dei settorialismi è essenziale tornare a capirsi. Il ventunesimo secolo, prodigo di narrazioni, ha alimentato nell’uomo due tendenze tra loro opposte: il fascino e la paura dell’ignoto.

Ricerca ed esorcizzazione del mondo furono in tempi, non così lontani, le chiavi a stella di Primo Levi, scrittore-scienziato che fece della cultura umanistica e di quella scientifica un unico metodo d’indagine della realtà, che oggi ritorna essenziale.

«La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere:
sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti
o a dare corpo alla propria fantasia».
P. Levi, L’altrui mestiere

 

Sappiamo sempre di più, eppure sappiamo di non sapere, ingrediente di suspense di una storia che ha per protagonisti esploratori, scienziati, astrofisici, biologi che sintetizzano genomi e li trapiantano per creare nuove vite: è il romanzo della scienza, come ha recentemente espresso in un articolo apparso su «la Lettura» il filosofo della scienza Telmo Pievani. Ed è in questo scenario, forse di ennesimo ripensamento culturale, che torna necessario il dibattito tra cultura scientifica e umanistica, le cosiddette due culture, storicamente separate sul piano disciplinare e politico, ma accomunate da un’unica esperienza di linguaggio: l’alfabeto mondo.

Scienza e letteratura si riscoprono, pur senza generalizzazioni assolute, ancora una volta compatibili sul piano dell’esperienza, anzi spesso essenziali l’una all’altra. E non è raro trovare esempi contemporanei di come le conoscenze scientifiche possano essere divulgate attraverso un approccio storico e narrativo, come dimostrato dal Premio Nobel per la fisica Steven Weinberg nel libro Spiegare il mondo. La scoperta della scienza moderna, dal fisico Carlo Rovelli, nel best seller Sette brevi lezioni di fisica e dallo scrittore e chimico Marco Malvaldi, nel suo ultimo libro L’infinito tra parentesi. Storia sentimentale della scienza da Omero a Borges.

La rarefatta consistenza della precisione scientifica ha a più riprese lanciato nuove sfide al discorso letterario: dai dialoghi di Galileo alla scienza medica indagata da Verga e Capuana, passando per Leopardi e D’Annunzio, sino ad approdare alla letteratura industriale e alle opere di Calvino, Buzzati, Del Giudice e Primo Levi, la storia ha sviluppato la fantasia di voyeur scrittori, animati dal tentativo di estrarre un’armonia dall’oscuro labirinto della natura, reso ora compatibile, ora solo confrontabile con la società umana.

Così scriveva Primo Levi, figura ancipite della letteratura italiana, chimico e scrittore che seppe analizzare con curiosità micrologica la vita umana e la sua storia:

Copernico e Galileo avevano sbalzato l’umanità dal centro del creato: non era stato che un trasloco, da cui pure molti si erano sentiti destituiti ed umiliati. Oggi ci accorgiamo di ben altro: che la fantasia dell’artefice dell’universo non ha i nostri confini, anzi, non ha confini, e sconfinato diventa anche il nostro stupore. […] Non è ancora nato, e forse non nascerà mai, il poeta scienziato capace di estrarre armonia da questo oscuro groviglio. [Eppure] Queste notizie dal cielo sono una sfida alla nostra ragione. La nostra nobiltà di fuscelli pensanti ce lo impone: forse il cielo non farà più parte del nostro patrimonio poetico, ma sarà, anzi è già, nutrimento vitale per il pensiero. […] Non neghiamogli alimento, non cediamo al panico dell’ignoto (Levi, Notizie dal cielo, in L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 2016, p. 175).

L’ingenuità, cioè la capacità di presentarsi vergine davanti agli eventi del mondo, la modestia, tipica dell’uomo dalla mentalità scientifica consapevole di procedere per approssimazioni, ma soprattutto la tensione conoscitiva, desiderosa di raggiungere l’umanità, fanno di Levi un personaggio estremamente contemporaneo e centrale nel dibattito tra cultura scientifica e umanistica, campi che egli stesso praticò in un continuo vagabondaggio tra saperi. Come un montatore di ponti con la sua chiave a stella oscillò, infatti, tra immaginazione e racconto di una realtà sofferta e amata, che lui stesso definì «piena di problemi e di pericoli, ma non noiosa» nell’annotazione finale alla premessa della raccolta di elzeviri L’altrui mestiere.

È infatti in quest’ultima raccolta di scritti, comparsi per lo più su «La Stampa» tra il 1964 e il 1984, che ritroviamo il Levi moralista-osservatore e scienziato, migrante nei mestieri altrui con «invasioni di campo» – come le dichiara lui stesso – volte a rintracciare i legami trasversali che collegano il mondo della natura con quello della cultura, e così della memoria.

Secondo Levi, la funzione della scrittura è quella di muovere conoscenza, sia che si parli di molecole ed elementi, sia che si parli di sentimenti o di morale, perché «chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell’allevamento del bestiame e dell’apicoltura» (Levi, Perché si scrive?, in L’altrui mestiere, p. 32).

Così, anche l’instabilità naturale di una sostanza organica come il legno, al contatto con l’ossigeno dell’aria, diventa riflessione su una «debolezza intrinseca» alla dimensione umana:

I contorni di questa instabilità fragile, che i chimici chiamano metastabilità, sono ampi. Vi stanno comprese […] quasi tutte le sostanze organiche, sia naturali sia di sintesi; ed altre sostanze ancora, tutte quelle che vediamo mutare stato a un tratto, inaspettatamente: un cielo sereno, ma segretamente saturo di vapore, che si annuvola di colpo; un’acqua tranquilla che, al di sotto dello zero, congela in pochi istanti se vi si getta un sassolino. Ma è grande la tentazione di dilatare quei contorni ancora di più, fino a inglobarvi i nostri comportamenti sociali, le nostre tensioni, l’intera umanità d’oggi, condannata e abituata a vivere in un mondo in cui tutto sembra stabile e non è, in cui spaventose energie (non parlo solo degli arsenali nucleari) dormono di un sonno leggero (Levi, Stabile/Instabile, in L’altrui mestiere, p. 167).

Il mondo vive di continui cambiamenti di stato, metamorfosi che affascinano la curiosità di Levi, sia nella loro chiave mitologica che zoologica, cui dedica numerosi racconti, poesie e scritti; ogni suo racconto è giocato sulla natura duale del mondo, nello spazio tra sogno e realtà, visibile e invisibile, vita e morte, limbi mediani che le parole abitano in un modo apparentemente sereno, ma profondamente problematico, un metalinguaggio scomposto come su una lente del microscopio che porta lo scrittore allo studio del mondo invisibile abitato dagli insetti e dai parassiti.

Fra gli animali, sono proprio i parassiti quelli che più dovremmo ammirare per l’originalità delle invenzioni scritte nella loro anatomia, nella loro fisiologia e nelle loro abitudini. Non li ammiriamo perché sono fastidiosi o nocivi, ma una volta superato questo preconcetto ci si apre davanti un campo in cui, veramente, la realtà scavalca la fantasia (Levi, Il salto della pulce, in L’altrui mestiere, p. 104).

Di questi animali la tenia è il più ammirato, nonché l’esempio di più stretto contatto tra mondo animale e umano, cui Primo Levi dedica uno dei racconti più interessanti di Storie naturali, L’amico dell’uomo. La storia narrata, dal titolo chiaramente ironico, gioca sull’idea della scoperta di un linguaggio delle tenie da parte di due scienziati, Serrurier Flory (ispirato forse al chimico e Premio Nobel Paul Flory) e Bernard W. Losurdo (forse calco del fisico Antonio Lo Surdo), nel racconto-saggio docente di assiriologia. Le cellule epiteliali della tenia, disposte in file parallele, sarebbero caratterizzate da un ripetersi ritmico di elementi tale da costituire una composizione poetica decifrabile nel suo significato:

Ve ne sono di rudimentali e frammentari, scarsamente articolati, che il Losurdo chiama «interiettivi». […] Atri si riducono a una breve frase sentenziosa. Alcuni mosaici sembrano alludere al processo riproduttivo, ed ai misteriosi amori ermafroditi del verme. […] Ma di gran lunga più interessanti sono alcuni mosaici di livello palesemente più elevato, in cui viene adombrato l’orizzonte nuovo e conturbante dei rapporti affettivi tra parassita e l’ospite (Levi, L’amico dell’uomo, in Storie naturali, in Tutti i racconti, pp. 62-63).

Il verme-poeta vive in una tragica simbiosi con il corpo che lo ospita, un’astuzia evolutiva che presiede all’anatomia del parassita, ossia la capacità di vivere a spese dell’ospite senza ucciderlo ma senza potersene staccare: l’intestino è la sua dimora, la fuga da essa la sua morte. È la tragedia del poeta, cui è vietato in qualunque modo di oltrepassare il suo umile ruolo. Il parassita espulso dall’uomo muore inascoltato, il suo slancio vitale, nel tentativo di uno sradicamento dalla gabbia intestinale, si trasforma in morte, la morte di una poesia che l’uomo stesso ha nutrito, ma cui spesso è incapace di dare ascolto nella sua potenza rivelatrice.

Si tratta del «moderato pessimismo» primoleviano – per riprendere una citazione di Marco Belpoliti – frutto della violenta esperienza concentrazionaria, che, tuttavia, ha per contraltare un moderato illuminismo, quella tensione conoscitiva alimentata dalle due nature di chimico e scrittore, e oggi quanto mai ricca di suggestioni e insegnamenti: primo tra tutti la necessità di allargare i propri orizzonti, di osservare e riflettere su quanto avviene intorno a noi per compiere scelte responsabili, al di là di ogni pericolosa delega culturale.

La scrittura, per lui strumento del «non-mestiere» di scrittore, così come il filo di rame degli strani manufatti artistici che realizzò sino alla morte, è la mano del pensiero che opera sul mondo per testimoniare, rivelare e allora raccontare l’esperienza labirintica e instabile della società: quella prigione perfetta, che già Calvino descrisse in Ti con zero, e che Levi non finì mai di voler ostinatamente comunicare attraverso la sua letteratura centauresca – metafora mitologica che Levi ascrisse a se stesso per raccontare quelle che sentiva come delle scissioni, metà chimico e metà scrittore, metà ebreo e metà italiano, metà testimone e metà narratore –, capace di dare una forma alle gabbie della norma per poi evaderle con lo scarto, perché, scrive:

Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla vera – e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo mai ma almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sta qui perché non potrebbe trovarsi altrove, – o sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora più impossibile che di qui – e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con la vera per trovarla [Calvino, Cibernetica e fantasmi, (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, pp. 180-181].

Due sono, dunque, i modi in cui lo scrittore rappresenta la realtà: attraverso una complicità con la natura, percepita erroneamente come immutabile, e attraverso una tensione critico-conoscitiva del mondo riconosciuto al contrario come instabile.

La penna dello scrittore, insegna Calvino, sarà feconda quando capace di generare uno dei bisogni più tipicamente umani: la produzione di disordine, e cioè di uno spazio mentale di infinite possibilità di visione frutto della grande ambizione dell’uomo a capire, indagare e sorprendere il mondo. A questo, la letteratura arriva per giochi combinatori, attraverso le parole, elementi che tradiscono la loro stessa natura composta e componibile, alla pari dell’alfabeto della vita, il Dna.

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