La volontà di negare. La teoria del gender e il panico eterosessuale

1. “Bouvard et Pécuchet qualifièrent le curé de vieille bête” / “Bouvard e Pécuchet diedero del vecchio scemo al curato” (Flaubert). Sotto l’effetto del panico eterosessuale, ogni giudizio di ottusità emesso sul potere ricade fatalmente su chi lo pronuncia. È il caso di chi ritiene di poter respingere l’aggressività delle gerarchie ecclesiastiche e delle destre smentendo l’esistenza di una teoria del gender

Va in scena ormai da qualche tempo, nel dibattito pubblico italiano, un’irrefrenabile pulsione a minimizzare, se non proprio a disconoscere, verità note e tuttavia inassimilabili. Un acting out collettivo di ciò che Eve Kosofsky Sedgwick ha definito il «privilegio epistemologico dell’ignoranza» – dove chi ha (o finge di avere) la comprensione più limitata della pratica interpretativa impone la definizione dei termini dello scambio –, sembra infatti strutturare il campo della lotta antiomofobica e autorizzare la presa di parola.

Sotto gli effetti di questa pulsione, tutta la foga dispiegata dai poteri riformisti per rispondere alla crociata contro il gender lanciata dalla Chiesa cattolica e dalle destre tende a esaurirsi in una sequenza obbligata di dichiarazioni negative: «la teoria del gender non esiste», «l’ideologia gender non esiste» (oltre all’immancabile «nessuno ha mai negato la differenza sessuale»). Secondo queste versioni, dunque, a presentarsi sotto questi nomi altri non sarebbe che una mera invenzione polemica delle forze reazionarie, moralisticamente giudicate troppo ottuse per poter discernere quel che pregiudica la tenuta e la continuità della riproduzione sociale eteronormativa. Ma ci domandiamo: era del tutto fuori asse Joseph Ratzinger, nel suo discorso del 21 dicembre 2012, a individuare attorno al lemma “gender” l’emersione di una «filosofia della sessualità» che mira alla sovversione dell’ordine simbolico e sociale? E, ancora, fraintendevano proprio tutto i compilatori del Lexicon curato dal Pontificio consiglio per la Famiglia, quando ravvisavano nel «femminismo radicale» di Judith Butler e, in particolare, nella sua opera Gender Trouble, un «nuovo attentato all’umanità»? Continuare a sostenerlo, a dispetto di ogni evidenza, non significa collocarsi in una posizione strategicamente più favorevole per contrastare gli effetti di censura veicolati dagli anatemi ecclesiastici o destrorsi: al contrario, significa raddoppiarli in una forma ancora più insidiosa.

Et voilà ce qui fait que vôtre fille est muette: al posto di questo impossibile soggetto del discorso si fanno avanti — solidi, reali e così beneducati e ripuliti da far dimenticare l’infamia delle origini nell’attivismo femminista e omosessuale degli anni Sessanta e Settanta — «studi scientifici di genere, meglio noti come Gender Studies che, insieme ai Gay and Lesbian Studies, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari». Lo afferma, a nome dell’internazionale dei professionisti della salute mentale, l’Associazione Italiana di Psicologia che, anziché interrogarsi sulle ragioni e sugli effetti di questo possente meccanismo di difesa, ritiene decisamente più «opportuno intervenire per rasserenare il dibattito» e per chiarire «l’inconsistenza scientifica del concetto di ‘ideologia di gender’». Lo hanno ripetuto sulle colonne dei maggiori quotidiani nazionali, sulle testate online e su blog di varia natura filosofi e sociologi “progressisti” e “opinionisti” di “chiara fama” – così chiara da irradiare sull’opinione pubblica i lumi di una “verità” incapace di affermarsi senza dissimulare il proprio coinvolgimento con le procedure di selezione e di controllo che legano l’ordine del discorso alla materialità del potere. Ci hanno creduto quanti, codificando con una rigidità davvero inattesa la dissociazione tra le forme della violenza omofobica e di genere e le istituzioni sociali dell’eteronormatività, ritengono di potersi liberare delle prime lasciando rispettosamente intatto il privilegio di cui beneficiano le seconde. Ma quale apertura possiamo ancora concedere a un “discorso di opposizione” così politicamente inefficace, così ansioso di asserragliarsi nei confini di un’identità rassicurante, così desideroso di disciplinare l’accesso alla sfera delle parole che contano…?

2. “Yet no lie has only friends too polite to ask for proof” / “Eppure, nessuna bugia ha solo amici così gentili da non chiedere prove” (Auden). Per quanto comprendiamo il panico in cui versa la società eteronormata all’esistenza di una teoria del gender, suggeriamo ai filantropi negazionisti (indipendentemente dal loro genere o dal loro orientamento sessuale) che è più dignitoso non intromettersi

Identifichiamo nel panico eterosessuale la paura, da parte della società eteronormata, di perdere i propri privilegi, simbolici e materiali. Una spia eloquente di questo panico è costituita dalle subdole retoriche della tolleranza gay-friendly, molto diffuse in rete e sui social, che a sostegno della concessione di diritti non trovano argomenti migliori di una versione rimaneggiata del canonico adagio razzista “aiutiamoli a casa loro”: “dire che il matrimonio gay ci farà diventare tutti gay è come dire che frequentare persone alte ci farà diventare tutti alti”. Paul B. Preciado ha definito questo panico, prettamente ma non esclusivamente maschile, con una bella espressione: «terrore anale». Inutile dire che questo terrore si riversa in molte delle prese di posizione contro l’esistenza della teoria del gender, proprio perché essa fa detonare quanto di rassicurante – alle orecchie di un pubblico eteronormato – vi è in frasi di quel tipo: essa scombina non solo le certezze ontologiche e le pretese di naturalità delle distinzioni di genere e di orientamento sessuale, ma anche la loro indiscutibilità e ininterrogabilità laica e friendly, nella misura in cui impone anche alle identità di genere e sessuali egemoniche di riflettere sul proprio privilegio, sulla propria performatività, sulla propria costituzione. Essa mette in discussione i destini “naturali” ma revoca in dubbio, in modo se possibile ancora più potente, i destini “normalizzati”. È sintomatico che Michela Marzano, sulle pagine de “La Repubblica”, smorzi tutto ciò, auspicando un ritorno epidermico alla natura carico però di laica normalizzazione: «l’identità e l’orientamento sessuale non sono frutto del capriccio o del peccato. Non si insegnano e non si scelgono. Sono. Esattamente come il fatto di essere bianchi, neri o gialli». Amen.

Per quanto ci riguarda sposiamo dunque con convinzione l’espressione “teoria del gender”, così come (e proprio perché) usata offensivamente o irrisoriamente dai nostri detrattori per definire il nostro lavoro intellettuale e politico: esattamente come già abbiamo fatto con “queer”, crediamo nel potenziale trasformativo dell’assunzione politica dello stigma e della sua reimmissione nell’ordine del discorso, come uno dei presupposti che apre lo spazio di ogni critica e di ogni risignificazione.

Sarebbe poco interessante replicare alle argomentazioni di ciascun negazionista, così interessato a sostituire idraulicamente la teoria del gender con gli irenici “studi di genere”, o con i programmi scolastici di “educazione alle differenze” volti alla decostruzione degli stereotipi o alla promozione di un maggior rispetto per le “diversità”, o a bacchettare col dito alzato sulla parola “teoria”, sostituendola con il plurale “teorie”, o con il rocambolesco “teorizzazione”. Sarà sufficiente digitare su qualunque motore di ricerca “la teoria del gender non esiste” per avere una panoramica sufficientemente ampia dell’allucinato dibattito in corso. Quale che sia il nostro giudizio sugli “studi di genere”, sulle “teorie” al plurale, sulle equilibriste “teorizzazioni”, sulla bontà della decostruzione degli stereotipi o sull’auspicabilità di una società più rispettosa, reputiamo innanzitutto più importante rinunciare a fare atto di sottomissione ai termini del discorso così com’è impostato, poiché attraverso questo discorso l’eteronormatività tenta di mettere una pezza ai problemi che essa stessa ingenera.

È singolare ammetterlo, ma i compilatori del Lexicon, Joseph Ratzinger, i rappresentanti delle varie destre (anche quando anticapitalistiche) e dei vari neofondamentalismi, impegnati proprio in questi giorni a far ritirare dalle scuole quelli che loro chiamano “libri gender”, o a indire convegni spesso e volentieri patrocinati dalle università e dagli enti locali, hanno compreso – non filosoficamente, ma senz’altro politicamente – che nella teoria del gender di Judith Butler c’è qualcosa di più eversivo di una prece per l’eguale rispetto: in essa c’è qualcosa che minaccia il fondamento dell’ordine simbolico e sociale eteronormativo, ossia la produzione dei soggetti in generi distinti, complementari, coercitivi e oppressivi. Questa teoria è lo strumento che varie soggettività, implicate in forme complesse di oppressione, di inintelligibilità, di neutralizzazione e di inesistenza sociale, hanno accolto come valida, non per ambire a essere accolte senza stereotipi, ma come strumento per destabilizzare i meccanismi di quel “potere” che produce tanto gli stereotipi quanto i loro contrari. Quel “potere” è l’ordine simbolico e sociale eteronormativo, con tutto il suo corollario di sessismo, di razzismo, di classismo, di validismo (e, sempre di più, diciamo: di specismo). La teoria del gender mette in discussione le sue pretese e le sue strutture, e ambisce alla loro sovversione.

Nella misura in cui “umano” è ciò che è sancito e, previo disciplinamento o previa neutralizzazione, riconosciuto come tale da questo “potere”, invitiamo i negazionisti distratti a leggere, o a ripassare, le battute finali di quel libro che – come invece diligentemente denuncia il compilatore del Lexicon – “attenta all’umanità”:

Generi distinti sono parte di ciò che «rende umani» gli individui nella [nostra cultura]; in effetti, puniamo regolarmente chi manca al proprio dovere di genere. Dato che non c’è né un’«essenza» che il genere esprima o esteriorizzi, né un ideale oggettivo cui il genere aspiri, e dato che il genere non è un fatto, sono i vari atti del genere a creare l’idea stessa del genere e senza quegli atti non ci sarebbe genere. Il genere è, dunque, una costruzione che regolarmente occulta la propria genesi; il tacito accordo collettivo, che riguarda la performance, la produzione e il mantenimento di generi distinti e polarizzati quali finzioni culturali, è oscurato dalla credibilità di tali produzioni, e dalle punizioni che conseguono se non si acconsente a crederci; la costruzione ci «impone» di credere nella sua necessità e naturalità.
[…] Se gli attributi e gli atti di genere, ovvero i vari modi in cui un corpo mostra o produce la propria significazione culturale, sono performativi, allora non c’è alcuna identità pre-esistente, in base alla quale un atto o un attributo potrebbe essere misurato; non ci sarebbero atti di genere veri o falsi, reali o distorti, e il postulato di una vera identità di genere si rivelerebbe una finzione regolativa. Il fatto che la realtà di genere sia creata attraverso performance sociali accettate culturalmente significa che anche le nozioni stesse di un sesso essenziale e di una mascolinità o femminilità vera o costante sono costituite come parte della strategia che occulta il carattere performativo del genere e le possibilità performative di far proliferare configurazioni di genere al di fuori delle cornici restrittive del dominio maschilista e dell’eterosessualità obbligatoria. I generi non possono essere né veri né falsi, né reali né apparenti, né originali né derivati. In quanto portatori credibili di tali attributi, tuttavia, i generi possono anche essere resi completamente e radicalmente incredibili (Gender Trouble, 1990; tr. it., Questione di genere, 2013).

Battute conclusive esemplarmente e inequivocabilmente sintetizzate, anni dopo:

In Gender Trouble ho teorizzato la performatività del genere: secondo la mia teoria nessun genere è “espresso” da azioni, da gesti o dal linguaggio, ma è la stessa performance del genere a generare in modo retroattivo l’illusione che vi sia un nucleo interno in ciascuno dei due generi. Questo comporta che la performance del genere produce retroattivamente l’effetto di una qualche essenza o di una qualche disposizione femminile, ad esempio, vera, o almeno persistente, in modo tale da rendere impossibile impiegare un qualche modello analitico stabile per la comprensione del genere. Sempre in quel testo sostengo inoltre che il genere è la conseguenza di una ripetizione ritualizzata di convenzioni, e che tale ripetizione è socialmente imposta: questa imposizione, a sua volta, deriva in buona parte dalla forza di una eterosessualità obbligatoria (The Psychic Life of Power, 1997; La vita psichica del potere, 2013).

“Teoria”, dal greco θεωρέω (theoreo, “guardo, osservo, analizzo”), allude a un’idea formulata a partire da un insieme di ipotesi, più o meno astratte o rigorose, derivanti dall’osservazione della “realtà”, alla quale i greci si riferivano con un termine già straordinariamente intriso di performatività e decisamente meno gerarchizzante: θέα, thea, “spettacolo”. La “teoria” è ciò che scaturisce dall’osservazione, spesso di chi, come in questo caso specifico, è parte dello spettacolo stesso. A differenza del “dogma”, la teoria si espone al superamento e alla falsificazione da parte di altre teorie dotate degli stessi requisiti (che non ambiscono, cioè, al rango di dogmi). A differenza degli “studi” essa procede induttivamente. A differenza dell’“educazione alle differenze” essa non è animata da un intento pedagogico. A quanti bacchettano preferendovi la parola “teorizzazione” andrà ricordato dall’ultimo banco che “teoria” e “teorizzazione” sono pressoché sinonime. Per quanto ci sfugga la recalcitranza di opinionisti e studiosi per queste distinzioni concettuali e metodologiche davvero basilari, le citazioni riportate riferiscono del nucleo di quella “teoria del gender” messa esplicitamente o implicitamente all’indice dal nuovo catacretico ordine del discorso edificato dai suoi detrattori e paradossalmente raddoppiato dai suoi negazionisti. La teoria del gender di cui parlano il Lexicon, Ratzinger, e a ruota le varie destre e i vari neofondamentalismi, è la «teoria della performatività del genere» formulata da Butler alla fine degli anni Ottanta. Pur essendo stata sottoposta da Butler stessa a parziali revisioni e integrazioni in opere successive, questa teoria continua a offrire alla domanda “che cos’è il genere?” una risposta che semplicemente collide con l’ordine simbolico che l’odierna crociata dei cattolici e dei reazionari mira invece a difendere, e che riposa sulla differenza sessuale.

Su questo punto occorre essere chiari una volta per tutte: al di là delle mistificazioni e degli idealismi (di nemici e di amici), se c’è qualcosa che la teoria del gender di Butler non ha mai negato sono la materialità dei corpi, la vulnerabilità dei corpi e le differenze tra corpi – non “la differenza sessuale”, o non, almeno, in questi termini. Le differenze tra i corpi, infatti, eccedono di gran lunga le distinzioni XX/XY, e vanno a comporre una «fatticità biologica»  (cfr. l’articolo Atti performativi e costituzione di genere: saggio di fenomenologia e teoria femminista, 1988; tr. it. in Canone inverso. Antologia di teoria queer, 2012) che – di per sé – sarebbe muta, non determinerebbe nulla: né ruoli, né predisposizioni, né doveri, né desideri, né destini… né genere, appunto. Dunque, dire che la stessa performatività del genere produce retroattivamente l’idea di una differenza sessuale che la precede significa che è la prima a rendere intelligibile e a riempire di senso la seconda. Come ha fatto notare Luisa Muraro in un articolo apparso sul “Corriere della sera”, dal titolo La differenza sessuale c’è: è dentro di noi, è vero che in Fare e disfare il genere Butler scrive: «[non ho] alcuna fretta di dare una definizione inconfutabile di differenza sessuale, e […] preferisco lasciare la faccenda aperta, problematica, irrisolta, e promettente». E’ importante precisare, però, che queste che vengono salutate come rassicuranti parole “oneste” e “intelligenti”, continuano a comparire accanto a queste parole, che lungi dal confutare, rafforzano le formulazioni iniziali:

L’opinione che la differenza sessuale sia una differenza primaria è ormai criticata da più parti. Alcune argomentano che la differenza sessuale non sia primaria più di quanto non lo sia la differenza razziale o etnica, e che non sia possibile percepire la differenza sessuale al di fuori della cornice razziale ed etnica entro cui essa viene articolata. Vi sono altri che sostengono che il fatto di essere stati generati da una madre e da un padre sia una componente fondamentale della vita di ciascun essere umano. Ma si potrebbe obiettare: un donatore di sperma, un amante occasionale o – addirittura – uno stupratore, sono da considerare “padri” nel senso socioculturale del termine? Se gli spermatozoi e gli ovuli sono necessari alla riproduzione, e continueranno a esserlo (ed è forse in questo senso che la differenza sessuale continuerà a costituire una parte essenziale di qualsiasi narrazione che un essere umano, sia esso maschio o femmina, possa formulare riguardo alla propria origine), ne consegue anche che tale differenza plasmi il soggetto più in profondità rispetto ad altre costitutive forze sociali, come ad esempio le condizioni socioeconomiche o culturali o razziali in cui una bambina/un bambino viene alla luce…?

E queste:

Il sesso è reso comprensibile dai segni che indicano come dovrebbe essere letto o interpretato. Tali indicatori corporei rappresentano i mezzi culturali con i quali viene letto il corpo sessuato. Anch’essi possiedono una natura corporea e agiscono in quanto segni, perciò non è facile distinguere tra ciò che è “materialmente” vero e ciò che è “culturalmente” vero riguardo il corpo sessuato. Non intendo affatto approdare alla conclusione che i segni puramente culturali producano la materialità del corpo, ma intendo solo dire che il corpo non può diventare sessualmente leggibile senza quei segni, i quali sono irriducibilmente culturali e materiali allo stesso tempo (Undoing Gender, 2004; tr. it., Fare e disfare il genere, 2014).

Ecco perché pensare il genere significa, come ha ben riconosciuto la storica Joan W. Scott, individuare un «terreno fondamentale al cui interno o per mezzo del quale viene elaborato il potere». Ed ecco pure perché, come ha sottolineato la femminista materialista Christine Delphy, il presupposto di un’antecedenza del sesso sul genere, per quanto storicamente esplicabile, «non è più giustificabile teoricamente». Sono irricevibili, quindi, le castigate allusioni ai Gender Studies, se il senso di questi riferimenti si riduce a descrivere il genere come collettore universale di variabili socioculturali che trascorrono sullo sfondo invariabile della differenza sessuale. Ci interessa, invece, sottolineare e denunciare il residuo dogmatico che persiste in questa versione generalmente accettata del rapporto sex/gender: l’incapacità o il rifiuto di leggere i rapporti di potere (economico, sociale, simbolico) che animano il principio stesso della partizione. Teoria del gender è il nome che riconosciamo allo sforzo di sostituire la routine di una rilevazione passiva dei rapporti di forza (“a quali tipi di classificazione sociale dà luogo la differenza sessuale?”) all’incredulità che motiva la domanda autenticamente critica: “perché il sesso deve dare luogo a una qualsiasi classificazione?” Quel che non si perdona facilmente a questa teoria è il rapporto critico che essa istituisce con gli universali dati o presupposti, lo scetticismo che essa diffonde sulle sintesi conquistate al prezzo di nuove, pesanti, esclusioni. Sotto l’epiteto infamante di “ideologia”, che periodicamente si rinnova per screditare ogni soggettività marginale indisponibile a inchiodare la propria identità al ruolo di vittima da mettere sotto tutela o di risorsa umana da mettere al lavoro, opera una resistenza tenace a riversare nella pratica lo sforzo di tenere aperta la domanda sugli universali. La teoria del gender ha influenzato, nel bene e nel male, una generazione di studios* e attivist* nell’ambito della ricerca, della critica e della militanza antiomofobica, trans, intersex, femminista e queer – andando decisamente oltre se stessa. Tutte queste cose, evidentemente captate dai detrattori, per i negazionisti non esistono (o forse non esistono più, o forse non devono esistere).

3. “Lady Bracknell: Never speak disrespectfully of Society, Algernon. Only people who can’t get into it do that” / “Non parlare mai con scarso rispetto della Società, Algernon. Lo fa solo chi non ci può entrare” (Wilde). Rivendichiamo l’importanza di essere franche, non rispettose

Per quanto comprendiamo la repulsione di compilatori, burocrati del sapere ed esperti della valutazione all’idea che qualcuno possa ancora avere un po’ di curiosità e di vivacità intellettuale da formulare delle teorie – le quali, forse, influenzeranno “studi” empirici, “programmi didattici”, ulteriori “teorizzazioni”, interi “movimenti” ecc. –, l’alone di discredito che ruota attorno alla “teoria” è del tutto simile a quello che ammanta la parola “ideologia”. Non è un caso, infatti, che tanto i detrattori quanto i negazionisti usino “teoria” e “ideologia” (“teoria del gender”, “ideologia gender”) spesso in modo interscambiabile. E non è un caso, d’altronde, che per l’ordine del discorso neoliberale in materia di ricerca scientifica e di valutazione dei “prodotti” della ricerca, chiunque fuoriesca dal solco di un sapere evidence-based quantificabile e oggettivabile, anche nei campi umanistici, brancoli nel terreno scivoloso della formulazione di “ipotesi” la cui controintuitività è tacciata prontamente di “ideologia”. D’altronde, l’epoca “post-ideologica” in cui ci troviamo a vivere è quella in cui due teorie, il liberalismo e il liberismo, hanno portato a compimento le proprie aspirazioni ideologiche su larga scala, al punto da affermarsi pressoché ovunque come razionalità che, da un lato, dissimula quanto di genuinamente teorico e ideologico vi è in essa, mentre dall’altro esaspera – stigmatizzandolo – l’aspetto “ideologico” di ogni “teoria” potenzialmente in grado di mettere indirettamente in luce la stratificazione “ideologica” dell’ordine del discorso dominante di questa epoca. Dire, ad esempio, che dietro alle strategie di diversity management e alle operazioni di pinkwashing sia all’opera l’ideologia neoliberale, è screditato come “ideologico”.

Per farla breve, nel caso della teoria del gender tanto la Chiesa e le destre, quanto i neofondamentalismi e l’ordine del discorso neoliberale, hanno ottimi interessi e motivi per screditarla come “ideologica”, per minimizzarne la portata, o per negarne l’esistenza. Eppure, per quanto accordiamo valore ai propositi di quanti finora si sono adoperati per disinnescare l’imponente dispositivo retorico che annienta ogni spazio tra una teoria e il suo portato ideologico, non siamo al contempo disposte a sconfessare interamente l’aspetto ideologico della teoria del gender, e dunque lo rivendichiamo, anche in questo caso, proprio perché usato da detrattori e negazionisti per squalificare l’aspirazione normativa e, dunque, politica, della teoria del gender – ossia la sovversione dell’ordine simbolico eteronormativo.

Per quanto ci siano assai chiare le varie stratificazioni storiche e filosofiche del concetto di “ideologia”, vorremmo qui porre l’accento su una delle sue tante accezioni possibili: quella di una teoria che si fa prassi. Non vorremmo, infatti, che a forza di autoproclamarci immuni da “ideologia” finissimo col suggerire che il contenuto razionale della “teoria” fosse ciò che resta dopo che si è espunto dalla “realtà” il farsi e il disfarsi dei soggetti che la ri-producono e la immaginano, e la desiderano, spesso, diversa da come è. Per alcuni soggetti, e in particolare per tutti quei soggetti impossibili e incredibili, immaginare «possibilità performative di far proliferare configurazioni di genere al di fuori delle cornici restrittive del dominio maschilista e dell’eterosessualità obbligatoria» (supra) è di vitale importanza, nella misura in cui fa un tutt’uno con la possibilità di immaginare «nuove forme di relazioni, nuove forme di amore, nuove forme di creazione […] un nuovo diritto relazionale che permetta a tutte le possibili tipologie di relazioni di esistere e di non essere impedite, bloccate o annullate da istituzioni relazionali impoverite», come negli auspici di quel noto teorico e ideologo che è stato Michel Foucault. Ma è chiaro come questa aspirazione richieda un po’ di immaginazione, e di fantasia:

la fantasia, essendo parte dell’articolazione del possibile, ci trasporta, al di là di ciò che è puramente reale e presente, nel regno della possibilità, di ciò che non è ancora stato realizzato o che non è realizzabile. Non è possibile, in sostanza, scindere la lotta per la sopravvivenza dalla vita culturale della fantasia. E ovunque sia all’opera un rifiuto della fantasia, è all’opera una strategia di morte sociale. La fantasia, infatti, non è l’opposto della realtà, ma è ciò che la realtà esclude e, di conseguenza, ciò che contribuisce a puntellare i limiti della realtà stessa, ponendosi come il suo fuori costitutivo. La promessa critica della fantasia, qualora e là dove essa esista, è di sfidare i limiti contingenti di ciò che verrà, o meno, chiamato realtà. La fantasia ci offre l’opportunità di immaginare noi e gli altri in maniera diversa; essa fa sì che il possibile ecceda il reale, indicandoci un altrove e, qualora sia incarnato, offrendogli una casa (Undoing Gender, 2004; tr. it. Fare e disfare il genere, 2014).

Quali pensieri, quali parole, quali desideri potrebbero essere più ideologici di questi?

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