Di altre trattative. A proposito del 41bis

Sulla mancata abolizione del cosiddetto carcere duro.

Tra le richieste avanzate dai boss ai politici nell’ambito della cosiddetta trattativa Stato-mafia, una non veniva esaudita in alcun modo: riguarda l’abolizione del 41bis, il cosiddetto carcere duro. Nino Blando si serve di questa vicenda per evidenziare gli aspetti problematici del concetto di trattativa.

Dopo 1.790 giorni e 220 udienze, il processo sulla trattativa tra lo Stato italiano – i suoi ministri della giustizia, presidenti del consiglio, presidenti della Repubblica, vertici dell’Arma dei carabinieri, della Polizia e dei Servizi segreti – e i capi della mafia corleonese si è concluso il 21 aprile del 2018 con una condanna severa nei confronti della dirigenza dell’Arma, dei capimafia sopravvissuti e di un politico già in carcere. Una sentenza a sorpresa perché via via, in altri procedimenti, tutti i politici e gli stessi uomini dell’Arma erano stati assolti. La Corte questa volta non solo ha recepito quasi interamente l’impianto d’accusa, ma alla fine si è stretta in un abbraccio con il pubblico presente, dedicando la sentenza ai giudici Borsellino e Falcone, privilegiando l’opportunità politica sulla regola giuridica. 

Tra le dichiarazioni che i mezzi di informazione hanno diffuso il 21 aprile, subito dopo che i giudici di Palermo hanno condannato i vertici dei carabinieri e quelli della mafia – insieme al politico Marcello Dell’Utri – per essere stati da 25 anni in rapporti criminosi al fine di «minacciare il corpo politico dello Stato», una ha scosso più delle altre la politica italiana, impegnata a cercare un nuovo governo che fosse un punto di convergenza tra il partito di Beppe Grillo, la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia di Silvio Berlusconi. La dichiarazione è quella del giudice Nino Di Matteo, secondo il quale Dell’Utri, che già si trovava in carcere per un’altra condanna di mafia, era la «cinghia di trasmissione» tra la mafia stragista e Berlusconi: «finora si era messa in correlazione Cosa nostra con Berlusconi imprenditore. Adesso, per la prima volta, questa sentenza mette in correlazione l’organizzazione criminale col Berlusconi politico».

Quindi l’inchiesta dei magistrati, pur non riuscendo a dimostrare il collegamento tra il sistema politico della Repubblica dei partiti e la mafia corleonese, getta un’ombra insanguinata sul ventennio 1992-2012, politicamente segnato da due governi tecnici (Amato/Ciampi e Monti) garantiti da due presidenti (il democristiano Scalfaro e il comunista Napolitano), ipotizzando che proprio la riuscita della trattativa avesse permesso alla mafia di continuare a fare i propri affari sotto traccia e senza l’uso della violenza. Quindi non ci troveremmo di fronte ai successi repressivi dello Stato e al ridimensionamento della mafia siciliana. Al contrario, la mafia, secondo la tesi espressa dall’inchiesta, alla fine vince sempre. Lo Stato che era riuscito a sconfiggere il terrorismo, attaccato al cuore delle sue istituzioni repubblicane, si è arreso di fronte alla mafia dei corleonesi, che mostrava in questo modo il suo feroce e scellerato volto di violenza. Il processo penale diventa il luogo di elaborazione della verità storica.

Eppure questa «cinghia di trasmissione» tra la nuova politica italiana (rappresentata per oltre un ventennio dal berlusconismo) e la mafia non sembrava trasmettere granché, anzi forse si era bloccata: nessuna trattativa sembrava più possibile. Un dato che può essere facilmente confermato guardando da vicino come è stata disattesa una delle richieste più importanti avanzate da Cosa nostra, cioè l’abolizione del carcere duro, il 41bis.

Domenica 22 dicembre 2002, allo stadio Renzo Barbera di Palermo si giocava Palermo-Ascoli, diciassettesima giornata di campionato della serie B. All’inizio della gara dalla curva sud compariva uno striscione che recitava: «Uniti contro il 41bis. Berlusconi dimentica la Sicilia». Il partito di Berlusconi, Forza Italia, alle elezioni politiche del maggio 2001, grazie al nuovo sistema elettorale maggioritario, aveva ottenuto sull’isola l’incredibile risultato di 61 a zero, cioè la conquista di tutti i seggi parlamentari a disposizione. Alcune intercettazioni ambientali identificavano il responsabile della singolare protesta in Francesco Urso, figlio del boss di Brancaccio, Giuseppe, e cognato di Cosimo Vernengo – alleato storico dei corleonesi e condannato all’ergastolo per la strage di Via D’Amelio in un processo che poi si rivelerà essere uno dei più grandi errori giudiziari della storia italiana –, ma l’inchiesta veniva archiviata perché non sussisteva alcun reato.

Che reato è configurabile – spiegava il giudice Nino Di Matteo – nell’esporre in uno stadio uno striscione che esprime contrarietà al procedere al regime di carcere duro riservato ai mafiosi dall’ordinamento giudiziario? L’unica ipotesi per cui poter procedere era quella di associazione mafiosa, ma certo non basta esporre uno striscione di indiretta “solidarietà” ai detenuti del 41bis per poter essere accusati di mafia.

Tre giorni prima, il 19 dicembre, il Senato aveva approvato l’articolo 41bis della legge 354 del 26 luglio 1975 (sull’ordinamento penitenziario) come norma definitiva. Il 41bis era stato introdotto nell’ordinamento penitenziario nel 1986 come uno degli ultimi atti della legislazione emergenziale che aveva accompagnato la stagione del terrorismo politico e riguardava inizialmente la sospensione delle regole di trattamento dei detenuti nel caso di rivolte o gravi situazioni di emergenza. Nel 1992, dopo la strage di Capaci, con il «superdecreto antimafia Scotti-Martelli» veniva introdotto un secondo comma che rendeva possibile l’applicazione del regime speciale ai detenuti per criminalità organizzata anche se in attesa di giudizio. La disposizione era valida per tre anni, poi prorogata per altri quattro e in scadenza proprio nel 2002. Appuntamento che non passava inosservato per i 645 detenuti sottoposti al regime speciale d’isolamento, 17 dei quali in «area riservata».

Nel marzo del 2002, Pietro Aglieri, un altro dei capi più sanguinari del gruppo corleonese, scriveva una lettera a Pier Luigi Vigna (procuratore nazionale antimafia) e a Pietro Grasso (procuratore capo a Palermo) con la quale rivolgeva un appello alle istituzioni che con «lungimiranza» dovrebbero garantire anche ai mafiosi «processi equi», auspicando una «terza via» per chi, come lui, non è pentito ma neanche un irriducibile.

Con soluzioni intelligenti e concrete – scrive Aglieri detto «’u signurino» per l’eleganza nel vestire, killer spietato, raffinatore di droga, alleato con il cartello colombiano di Medellìn, cattolicissimo e devoto di Padre Pio – sicuramente i risultati sarebbero più duraturi, più profondi, più coerenti alla Costituzione di questo Paese. Capisco che soluzioni alternative, che prescindono dalla collaborazione o dalla dissociazione, sono inevitabilmente più lunghe, più complesse e articolate […] Non sarà con metodi o processi, che in certi casi vanno oltre quegli stessi metodi che si dice di voler combattere, che uno stato laico e moderno riuscirà a dare più sicurezza ai cittadini[1].

Il 5 giugno veniva presentato un libro bianco curato dalla Camera penale di Roma dal titolo Barriere di vetro, che raccontava le condizioni inumane dei detenuti a regime speciale. Oltre che contro le dure condizioni di isolamento, i penalisti protestavano contro il mancato rispetto del termine di 10 giorni, previsto dalla legge, per l’esame da parte del tribunale di sorveglianza sul ricorso del detenuto contro il provvedimento applicativo del regime di carcere duro e nei confronti dei decreti ministeriali «fotocopia-eguali per tutti» che applicano le restrizioni del 41bis. I penalisti chiedevano quindi l’abolizione della norma, invitando le istituzioni a «vigilare per il rispetto della Costituzione» e le forze politiche a «battersi per la tutela dei diritti dei detenuti e per il superamento di un istituto lesivo delle più elementari regole dello stato di diritto». Il 27 novembre la Corte europea dei diritti umani censurava l’Italia per l’applicazione del carcere duro.

Nell’estate scoppiavano scioperi in tutte le carceri che ospitavano detenuti sottoposti al «carcere duro». Il 5 luglio i detenuti di Ascoli Piceno si astenevano dal ricevere il vitto dell’amministrazione finché non fossero state annullate le «disposizioni lesive dei diritti umani inviolabili». Tanti anni di emergenza, scriveva a nome di tutti Giovanni Avarello (condannato a 11 ergastoli tra i quali quello per l’assassinio del giudice Livatino), erano il segno della mancata «serenità d’intervento [per] accettare che oggi non ci sono e non persistono gravi motivi di ordine pubblico e di sicurezza pubblica a causa della criminalità organizzata. Se la rieducazione è pura retorica, il carcere è solo vendetta, un regolamento di conti, oltre il giusto prezzo». Rifiutando il cibo e battendo con i pentolini contro le sbarre, i detenuti ottenevano l’attenzione di Maurizio Turco e Sergio D’Elia, rappresentanti del Partito radicale e dell’associazione «Nessuno tocchi Caino».

Dopo una serie di colloqui nelle carceri, i due politici pubblicarono un rapporto dal titolo Tortura democratica. «L’idea che ci siamo fatti – dice D’Elia – è che lo Stato sta realizzando una sorta di vendetta rispetto a fatti orribili compiuti […] Qui in discussione non è chi sono, cosa hanno fatto o cosa potranno fare questi detenuti, in discussione è chi siamo noi, cosa rischiamo di divenire se noi non riconoscessimo al peggiore degli assassini quei diritti umani fondamentali che lui ha negato alle sue vittime». Il giro «cella-a-cella» del 41bis diventava subito un libro. Nell’introduzione, Marco Pannella, esaltava la grande tradizione radicale – dal terrorismo ai diritti civili – in questo tipo di denunce, più che mai attuali in quanto «le filiere assassine, scie di cento “casi” Tortora, Cirillo, Moro, con i loro “Gruppi di fuoco” costituiti da magistrati, giornalisti, terroristi e criminali “comuni”, pentiti e politici, non sono affatto cancellate, anzi sono divenute malcelati orpelli di grandi “carriere”, di storie e complicità storiche ed ideologiche in individui potenti […] di antimafie mafiose»[2]. Pannella ricordava che al parlamento europeo aveva avuto uno scambio di opinioni con Salvo Lima sul riacutizzarsi del giustizialismo e dell’antigarantismo, specie dopo la fine del maxi-processo. Le parole di Lima erano cupamente profetiche, forse perché Lima era maggiormente in grado di decodificare il metalinguaggio e le voci che arrivavano dal sottosuolo criminale.

È una logica di guerra – spiegava Lima a Pannella –, contestabile ma rispettabile e probabilmente rispettata. Poiché me lo chiedi, devo però aggiungere che quel che voi state constatando è realtà tale che non sarà rispettata né tollerata, molto probabilmente. Non ti nascondo che sono molto preoccupato. Li si tratta con ferocia, come bestie, contro quel che dettano la legge e le leggi nostre. Come sorprendersi se ritenessero di dovere loro reagire con la ferocia di bestie?[3]

Lima, detto il «viceré di Sicilia», potente e chiacchierato leader nell’isola del partito democristiano, finiva i suoi giorni la mattina del 12 gennaio 1992, ucciso con un solo colpo di grazia sparato alla nuca dopo una disperata fuga dagli assassini che avevano bloccata la sua macchina in uno dei viali che circondano le lussuose ville di Mondello – località balneare e residenziale della upper class palermitana – mentre si recava a organizzare un meeting elettorale con il suo capo-corrente Giulio Andreotti. I giudici, nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti dei sicari, descrivono come elemento scatenante l’esecuzione la rottura di un tacito, sotterraneo, patto di «mediazione e di convivenza» tra parti del sistema politico e organizzazione mafiosa, segnato dalla sentenza della Corte di Cassazione che, pochi giorni prima, confermava tutte le condanne inflitte nel maxiprocesso agli esponenti della cupola. Un «voltafaccia politico» che doveva essere punito in maniera esemplare. Due leader locali della Dc dichiaravano ai giornalisti: «La mafia non cerca più nella politica la mediazione, sente che non c’è l’ha più nelle mani e la vuole piegare, assoggettare, stroncare» (Calogero Mannino); e «Lima esercitava un ruolo stabilizzatore […] era una specie di compensatore delle tensioni, una sorta di ammortizzatore politico» (Rino Nicolosi)[4].

Come Lima, anche altri protagonisti di quel legame occulto di «mediazione e di convivenza» con la mafia erano ben cosci della ferocia degli avversari, in primo luogo gli avvocati/politici dei mafiosi.

Il 13 luglio del 2002 entrava in scena, leggendo un proclama in aula, Leoluca Bagarella. Corleonese di ferro, parlava «a nome di tutti i detenuti ristretti a l’Aquila sottoposti al regime del 41bis, stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio delle varie forze politiche». Concedendosi anche qualche citazione tratta da sentenze della Corte costituzionale, annunciava: «la loro manifestazione contro il 41bis è civile e pacifica», ma aggiungeva che sarebbe proseguita a oltranza. Non era nuovo Bagarella a tale tipo di toni e manifestazioni. Il 16 settembre del 1996 aveva firmato, seguito da altri cento detenuti del nuovo carcere palermitano di Pagliarelli, una lettera aperta indirizzata al Consiglio nazionale dell’ordine forense e al ministro della giustizia. Il documento si apriva con una citazione di Ezra Pound che non lasciava spazio a equivoci: «Se un uomo non rischia per le proprie idee o le sue idee non valgono niente o non vale niente lui».

In un momento così pregnante riguardo i problemi della giustizia – scrivevano – noi uomini in custodia cautelare, mortificati nella dignità e calpestati nei diritti da un forte giustizialismo, chiediamo che gli avvocati penalisti del Foro di Palermo, ma anche quelli di tutta Italia, esprimano autorevole parere e assumano adeguate iniziative volte alla difesa dei diritti umani e del diritto alla giustizia.

Passavano pochi giorni dal «proclama politico» di Bagarella e il 18 luglio Daniele Capezzone, allora segretario del Partito radicale, rendeva pubblica una lettera firmata da 31 condannati al 41bis, tra cui anche i fratelli Graviano, autori delle stragi di Firenze e dell’omicidio di padre Puglisi. L’attacco era direttamente rivolto agli avvocati penalisti, come quello partito sei anni prima da Pagliarelli. Scrivono i boss:

Dove sono gli avvocati delle regioni meridionali, in cui sono più numerosi i detenuti sottoposti a questo regime, che hanno difeso molti degli imputati per mafia e che ora siedono negli scranni parlamentari e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi? Loro erano i primi quando svolgevano la professione forense a deprecare più degli altri l’applicazione del 41bis. Allora svolgevano la professione solo per far cassa […] pur sapendo come sono stati condotti i processi che sono stati plotoni di esecuzione, ora non si preoccupano pur avendo la possibilità di ridare dignità e lustro a una professione che ha perso del tutto la propria deontologia.

Per il giudice Grasso «quando un “rimbrotto” giunge da un personaggio come Bagarella c’è davvero da stare preoccupati»[5]. Di conseguenza, ben sette parlamentari-avvocati di Forza Italia, Alleanza nazionale e Unione di centro erano sottoposti a misure di prevenzione nei confronti di offensive mafiose: il ministro per i rapporti con le regioni, il senatore di Forza Italia Enrico La Loggia, il presidente della Camera penale di Palermo, allora vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, Nino Mormino eletto anch’egli in Forza Italia, il senatore di Alleanza Nazionale Antonio Battaglia, l’ex sindaco di Castelvetrano Giuseppe Bongiorno, anche lui di Alleanza nazionale. E del partito di Gianfranco Fini era anche Enzo Fragalà, della commissione Giustizia della Camera. In questo elenco comparivano, infine, l’allora capogruppo al Senato di Forza Italia, l’avvocato Renato Schifani, e l’onorevole dell’Unione di Centro, Francesco Saverio Romano, eletto nel collegio di Bagheria.

Il 26 febbraio del 2010 Enzo Fragalà, che tanto si era battuto per l’abolizione del 41bis e aveva rifiutato anche il servizio di scorta della prefettura, veniva brutalmente ucciso a colpi di spranga a due passi dal sorvegliatissimo tribunale di Palermo. Una morte a tutt’oggi avvolta da mistero, non poi così fitto.

[1] Cit. in G. Barbacetto, Cosa nostra, trattativa finale, in «Diario» 25 aprile 2002.

[2] M. Pannella, Prefazione a S. D’Elia e M. Turco, Tortura democratica. Inchiesta su «la comunità del 41 bis reale», Marsilio, Venezia 2002, p. 16.

[3] Ivi.

[4] Le dichiarazioni sono riportate in una autobiografia politica del leader democristiano Calogero Pumilia, La Sicilia al tempo della Democrazia Cristiana, Rubettino, Saveria Mannelli (CZ) 1998, p. 229.

[5] P. Grasso e F. La Licata, Pizzini, veleni e cicoria. La mafia prima e dopo Provenzano, Feltrinelli, Milano 2007, p. 105.

Print Friendly, PDF & Email
Close