La terra non è piatta

Mondo LGBITQ+, femminismi plurali e femminismi escludenti.

Proponiamo uno stralcio dal capitolo «Una brutta sceneggiatura. Mondi paralleli e interconnessioni non previste: le prospettive transfemministe e la svolta reazionaria delle “radicali”» di Mauro Muscio e Marta Palvarini, tratto dal libro La terra non è piatta. Mondo LGBITQ+, femminismi plurali e femminismi escludenti, di Lidia Cirillo, Carlotta Cossutta, Sara Garbagnoli, Paola Guazzo, Mauro Muscio, Roberta Padovano e Marta Palvarini (Asterisco Edizioni, 2021)

La politica della differenza. Perché liberarci ancora da Cartesio

Il femminismo della differenza non va sicuramente letto come una produzione monolitica di sapere e coscienza, sarebbe scorretto storicamente e politicamente perché non riconoscerebbe il lavoro di quelle femministe che a partire da quel femminismo hanno costruito esperienze importanti per le lotte alle oppressioni patriarcali, o al lavoro di quelle femministe lesbiche e bisessuali, che a partire da quel pensiero hanno elaborato quel loro posizionamento così importante quanto imprevisto. Le pratiche della differenza inoltre incoraggiarono uomini omosessuali a fare esperienza dell’autocoscienza come passo necessario da compiere per la costruzione di un soggetto, di un primo “noi” politico. Non sarebbe esatto identificare solo come essenzialista il femminismo della differenza, ma sarebbe scorretto allo stesso tempo non sottolineare come una parte di questo femminismo sia inevitabilmente ricaduta nell’essenzialismo, come mera conseguenza di una visione che della “donnità”, e non solo certamente, ne ha fatto un paradigma di lettura del mondo. A scanso di equivoci, ricordiamo come Liana Borghi, nell’introduzione de Il nostro mondo comune[i], illustri il significato della pratica separatista del femminismo e del lesbofemminismo, restituendo così l’idea di una prassi, quella separatista, che in sé non conteneva un obiettivo politico definito a priori, ma che si adattava (e si adatta) in base ad una strategia politica più ampia. Identificare e riconoscersi in un noi, rispetto ad un loro, è stata, ed è, pratica di soggettivazione politica delle minoranze, intese non in ottica quantitativa, ma piuttosto come espressione di subordinat* ai sistemi di potere; se pensiamo ad Adrianne Rich, a Monique Wittig, a Mario Mieli, a Guy Hocquinghem, troviamo differenti costruzioni del “noi”, ma sicuramente un comune abbandono del destino biologico e naturale delle identità. Al contrario invece uno zoccolo duro di pensatrici ha sostenuto con forza un’idea, prima di donna, e poi di donne, sempre fortemente ancorata al rassicurante dato biologico.

Questa parte ha trovato in Italia un’agibilità non indifferente nel mondo accademico, culturale e politico istituzionale. Il motivo per cui nomi importanti del femminismo della differenza hanno oggi spazio mediatico su testate giornaliste e programmi televisivi nazionali è anche spiegabile proprio a partire dalla loro visione rassicurante, perché inquadrabile in un discorso di vuoto progressismo civile al pari delle unioni civili, del rispetto degli animali o dell’integrazione culturale. Difficilmente infatti la stampa nazionale diede o darebbe visibilità a discorsi radicali quali la messa in discussione della famiglia, del dominio bianco, occidentale, eterosessuale e di specie.

Dal nostro punto di vista non si tratta evidentemente di annullare il dato biologico (come potremmo farlo? ci chiediamo) ma piuttosto comprendere come da questo derivino dei modelli di vita in un contesto gerarchico di potere; si tratta di adottare quel metodo epistemologico condiviso da E. K. Sedgwick, un approccio universalizzante e minorizzante. Se qui insistiamo sugli aspetti essenzialisti di questo femminismo non è per promuovere una lettura unica costruttivista, ma, al contrario, per uscire da una dialettica dualista e proporne una materialista. “Universalizzante e minorizzante” significa tenere presenti le variabili presenti e ascoltare quelle polifonie delle differenze[ii]. A tal proposito riteniamo fortemente utile nella nostra prospettiva politica quanto Federico Zappino sostiene in Comunismo Queer, quando scrive che «l’eterosessualità, per poter operare e riprodursi, si fonda sulla trasfigurazione di determinate differenze anatomiche di per sé mute e neutre come tutte le altre possibili»[iii]. L’approccio di Zappino non nega le differenze dei corpi, ma piuttosto i loro effetti pratici e politici in senso universalizzante perché naturalizzato. Perché, però, riflettere ancora sul dato biologico e non neutralizzarlo nell’astratto, in relazione ai nostri discorsi? Il nostro “dato biologico” non risiede nel dualismo quasi cartesiano del pensiero essenzialista, ma nella molteplicità delle forme corporee e dei dati (al plurale) biologici che compongono l’impossibile catalogazione delle tassonomie delle differenze. Corpi fuori norma perché biologicamente fuori norma si auto-soggettivano nella più ampia classe politica di critters che compongono, almeno in parte, il movimento transfemminista dell’oggi intento nel grande “gioco della matassa” harawayano[iv].

Negli ultimi anni sembra che questo femminismo sia tornato alla carica, anche se in determinati contesti non era mai scomparso, prima di fronte all’avanzata di rivendicazioni liberiste di un settore di movimento lgbt mainstream, dopo con un inquadramento di questa opposizione in un più ampio reticolato di opposizione, gender critical, così da loro stesse definito, verso le teorie queer. Il termine “radicale” genera confusione perché significa poco di per sé se non si contestualizza in relazione al soggetto; se infatti con radicale possiamo intendere qualcosa che concerne le radici, cioè un atteggiamento che scava nel profondo per individuare l’essenza minima di fondo, dobbiamo anche ammettere che, evidentemente, riconosciamo dei limiti oltre i quali l’empirismo non può certo bastare. Il femminismo radicale scava nel profondo a partire dall’ipotesi che il dato biologico sia il limite oltre al quale non poter andare, e dal quale quindi derivi il tutto. Radicale, in questo caso, come riduzione minima della divisione degli esseri umani tra maschi e femmine. Se partiamo invece da un’altra ipotesi, accreditata da ampi settori del femminismo, dell’antispecismo, dei movimenti antipsichiatrici e queer, oltre che da differenti settori accademici, che va oltre alla riduzione minima al dato naturale, a partire proprio dalla messa in discussione di questo dato, allora le cose cambiano. È senz’altro meno rassicurante perché ci porta a identificare dei limiti oltre ai quali non possiamo andare con gli strumenti adottati per descrivere il mondo, perché ci costringe a metterci in discussione continuamente e che, soprattutto, ci svela delle contraddizioni da cui non poter uscire; ma sono proprio quelle contraddizioni in cui viviamo, una volta identificate, che ci possono consentire di agire una prassi politica che mina le basi della società.

Particolare del manifesto di chiamata alla manifestazione per l’8 marzo 2021 (fonte: Non Una Di Meno)

Ripetiamo, non basta definirsi radicali se non si definisce prima il significato del termine e, nel caso di questi settori di femminismo, radicale è la supremazia di una visione capace di dividere il mondo tra soggetti dotati di peni e soggetti dotate di vagine, e utilizzare tale schema per codificare tutte le relazioni.

I limiti, e i pericoli, di questa visione sono evidenti, se pensiamo alla battaglia che questi settori portano avanti contro la maternità surrogata e il lavoro sessuale. Limite principale è quello di astrarre tali dinamiche dal contesto in cui avvengono. Nel suo Utero in affitto, precariato assoluto, Marina Terragni richiama l’importanza dell’idea sottostante l’articolo 3 della Carta de Diritti Fondamentali dell’Unione europea, che vieta di fare uso del corpo umano e delle sue parti in quanto tali come “fonte di lucro”; un’idea buona, scrive la giornalista cattolica, per impedire che se ti trovi in condizioni di svantaggio economico o culturale tu scelga liberamente di danneggiarti per ragioni di necessità[v]. Viene da chiedersi chi cercherebbe lavoro in questo mondo se non avesse svantaggi economici da colmare, o ancora cosa significhi essere svantaggiat* culturalmente nel vivere in un mondo che dà come unica opzione la nostra messa a valore riproduttivo ed economico. Non vogliamo semplificare il discorso ma, al contrario, sottolineare come questa visione di approccio sia strumentale. E senza dubbio è vero che decidere di essere una gestante è differente rispetto alla decisione di accettare un lavoro come impiegata, ma lo è prima di tutto in relazione alla modalità di sfruttamento di valore in un processo di mercificazione della vita, e non in base ad un ipotetico parametro per coglierne il grado di libertà nella decisione. Una relazione che avviene all’interno di un sistema che, forse è bene ricordare, contempla in sé diversi modelli di sfruttamento del lavoro: forme di semi-schiavitù, ad esempio, convivono perfettamente con il lavoro salariato nell’agricoltura, nei settori tessili o, in maniera più strutturata, come sostiene Christine Delphy nello stesso lavoro di cura per le donne. Per questo motivo riteniamo funzionale il discorso che spesso viene posto per riflettere su certi temi quale quello della libera scelta; la cornice entro la quale il soggetto attua la possibilità di scelta è sempre data per scontata attraverso modelli di lettura del mondo fortemente razzisti, sessisti e classisti, che spesso non si interrogano sul grado di universalità o meno della libertà e delle scelte entro cui questa si declina. La libertà di un gruppo è non solo circoscritta in un quadro di non-libertà generale ma è anche, spesso, il risultato di cessione di altre libertà o assenza di libertà altrui. Si pensi alla (non)libertà dei bambini, degli animali in cattività o in allevamento, o alla nuova libertà concessa alle donne di poter conciliare lavoro e famiglia, grazie alla non libertà di donne, e uomini, migranti che svolgono lavori di cura quasi sempre senza contratti di tutela delle condizioni di lavoro. Si pensi alla libertà concessa alle coppie lgbt di poter accedere ai regimi di cittadinanza chiedendo in cambio però l’integrazione totale ai modelli monogami e stabilmente produttivi della famiglia eterosessuale. In questo quadro complesso ovviamente non sosteniamo che non esista la libertà degli individui e delle scelte, ma riteniamo doveroso ogni volta considerare tutte le condizioni materiali di (r)esistenza entro cui queste si attuano. Il rischio è di ricadere nel particolarismo, certo, ma il contrario condurrebbe a generalizzare condizioni di vita che sappiamo essere diseguali. Essere liber* di scegliere nei paesi a capitalismo avanzato sottintende, in primis, un riferimento ad un diritto che, come Marx aveva ben illustrato ne L’Ideologia tedesca[vi], è legittimo perché salvaguarda la più ampia libertà diseguale della società, ma soprattutto è un atto che si estende in base a quanto sono lunghe le corde che ci legano alle condizioni di vita. Basti pensare alla meritocrazia come strumento continuamente utilizzato per colpevolizzare un io messo in perenne competizione con altri.

Nuova toponomastica a Milano in preparazione dell’8 marzo 2021 (fonte: MiTomorrow)

Da una visione limitata, il posizionamento politico di questi settori del femminismo rischia di passare rapidamente ad una forma fortemente pericolosa; la docente universitaria Mariam Irene Tazi-Preve nel suo Contro la maternità patriarcale, edito in Italia da Vanda, analizzando il ruolo delle nuove tecnologie riproduttive in relazione all’oppressione delle donne sostiene che queste abbiano creato un nuovo genere di “vita” disgiungendo la procreazione dal corpo femminile, suddividendo cioè il corpo materno nelle sue funzioni di concepimento, gravidanza, parto, allattamento, cura del/la bambino/a nel suo processo di crescita e sviluppo[vii]. Quello che fa l’autrice è cioè cancellare e rinnegare il ruolo del femminismo della seconda ondata che, pur scindendo il corpo femminile dalle sue funzioni materne in una prospettiva di autodeterminazione, mancava di analizzare come il neoliberismo fosse stato in grado di riappropriarsi di tali funzioni a fini economici. Muovendo da questa critica, l’autrice mette in discussione la scissione a favore di una visione unitaria e monolitica di donna. Un discorso che evidentemente trova un immediato successo tra i settori reazionari.

Nonostante queste voci radicali continuino a definire come liberali tutte le posizioni non conformi alle loro, noi possiamo e dobbiamo rivendicare un posizionamento politico materialista che non ricada in alcuna morale essenzialista e neocolonialista, per dichiararci favorevoli alla messa al bando dello sfruttamento dei corpi, ma non solo quando i corpi in causa sono di donne gestanti. «Non è la GPA che produce sfruttamento ma questa si inserisce in dinamiche di sfruttamento preesistenti»[viii], sottolinea Rosa Parisi in un bellissimo articolo che ricostruisce la genealogia del dibattito italiano sulla GPA, e per definire gli sfruttatori non serve guardare i loro organi genitali, ma ampliare lo sguardo alle dinamiche politiche, neocoloniali, culturali e imperialiste. Non ci appartiene l’utilizzo fazioso di una ritrovata letteratura scientifica riscoperta oggi per difendere presunti legami biologici da salvaguardare tra neonat* e gestante, il primario legame materno, li abbiamo rifiutati nel difendere le nostre famiglie allargate, omogenitoriali, adottive, monoparentali, li ha rifiutati il femminismo storico nel decostruire il significato di madre, figlie, sorelle e per riappropriarsene e li rifiutano ora il transfemminismo, l’ecofemminismo e il cyberfemminismo. Al simbolico, “scientifico”, naturale e sacro legame biologico spostiamo l’attenzione politica a quelle famiglie per scelta di cui The Care Collective parla nel Manifesto della cura, recentemente edito in Italia da Alegre, le stesse famiglie raccontate nella celebre serie Pose, quelle parentele di Donna Haraway, così lontane ma tremendamente presenti nella nostra quotidianità.

 

[i] Liana Borghi, Era il nostro mondo comune, in Collegamento lesbiche italiana, Il nostro mondo comune. Un contributo del C.L.I. al dibattito aperto dal gruppo n. 4 di Milano, Aste- risco Edizioni, Milano, 2020.

[ii] Si veda per approfondire il tema Introduzione: assiomatica in Eve Kosofsky Sed- qwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità, Carocci, Roma, 2011.

[iii] Federico Zappino, Op. cit., p. 28.

[iv] Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero Editions, 2019.

[v] Marina Terragni, Utero in affitto, precariato assoluto, in Lidia Cirillo, a cura di, Utero in affitto o gravidanza per altri? Voci a confronto, Franco Angeli, Milano, 2017, p. 141.

[vi] Karl Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 2018.

[vii] Mariam Irene Tazi-Preve, Contro la maternità patriarcale, Vanda Edizioni, Milano, 2020, p. 41.

[viii] Rosa Parisi, In nome delle altre. “Codice materno” e dibattito sulla GPA in Italia, in Roberta Pompili, Adalgiso Amendola, a cura di, La linea del genere. Politiche dell’identità produzione di soggettività, Ombre corte, Verona, 2018, p.118.

 

 

 

 

 

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