La temperatura del pensiero

Caldo / Freddo tra filosofia, ecologia e media.

Di Annamaria Pacilio 

Walter De Maria, “The Lightning Field” (Nuovo Messico, 1977)

Caldo e freddo, in quanto titolo di una raccolta di saggi, possono apparire come i termini poco decifrabili di una traccia comune, perché non direttamente aperti al concetto, non immediatamente “filosofici”. In effetti, non è scontato trovare in essi una tendenza icastica, che sfuma il loro stesso dirsi contrari: con essi il pensiero viene messo di fronte a un esercizio, consistente nel “ragionare” per accostamenti dissonanti, per collassi di dicotomie. Di primo acchito l’associazione di questi termini rimanda alla fonte del pensiero stesso, alla vita, ma anche alla non-vita, come generazione e corruzione, movimento e stasi. Calde e fredde, inoltre, sono tonalità emotive, connessioni empatiche, nutrimenti, habitat: a tale subisso speculativo si rivolgono i dodici saggi dell’Annuario Kaiak N.5, edito nel 2020, espressioni di un pensiero riacclimatato all’esterno di sé stesso, contemplante, in una divisione interna, i propri limiti e i propri sfrondamenti. 

La temperatura del pensiero è tema perciò fondamentale, in un senso stretto, che intitola emblematicamente il saggio di Eleonora de Conciliis: in esso viene spiegato come la metafora termica accompagni la filosofia occidentale sin dai suoi albori, «dal fuoco eracliteo al sole dell’idea platonica del Bene fino ai lumi rischiaranti della ragione e al calore distruttivo della critica nietzscheana»: il pensiero viene dunque compreso a partire dalla «consistenza filosofica dell’opposizione metaforico-simbolica tra caldo e freddo», ove per metafora si intende letteralmente un metapherein, una trasposizione, la quale conduce dalla vastità dell’ambiente naturale alla «clausura immateriale del pensiero» – incorporato, radicato a sua volta in un contesto fisico e materico (p. 172). Un’intensità puntuale e l’estensione di un frastagliamento si incrociano a metà tra la percezione straniante dello sguardo interrogante, fluttuante, e l’accordatura terrestre del supporto dei sensi, praticando «un ludico andirivieni tra la freddezza della filosofia e il calore ‘animale’ del corpo, tra metafora e metamorfosi» (p. 175). Del resto, ogni trasposizione non è mera trascrittura: una forma viene plasmata, permeata dal tocco gelido del proprio “fuori”; in questo gioco di reciprocazioni, il contatto esprime la possibilità de-individualizzante di una dispersione metaforica, che richiama al proprium della vita mediante l’opposizione del suo estremo/relato. Le metafore che albergano il pensiero, nietzscheanamente intese, non sono allora che espressioni di quella alterazione, di quello scambio con l’alterità di ogni precaria collocazione, quali aperture a «una metamorfica trasposizione del calore del pensiero nel freddo della filosofia, e viceversa» (p. 175). La filosofia è pertanto il contesto di un mitigamento, in cui un ardore, pur proprio, viene temperato, rimuginato nella spesa di energie astratte, metaforiche, eppure vivamente incatenate al medium metamorfico della viva animalità. 

Il raffreddamento – o meglio il passaggio dalla calura al tepore – è un’auspicabile ipotesi risolutiva per il problema del surriscaldamento ambientale. Esso varrebbe, more metaphorico, nell’adombrare l’aspergere di un’insolazione antropocentrica, di una mania secolare e serpeggiante, come liquida psicosi; ma proprio una sorta di discioglimento dei vincoli è ciò che permette di carpire una zona d’ombra, un’oasi anti-sistemica in cui placidamente schermarsi contro un onnivoro raggiare di limitazioni e fossilizzazioni. A tal proposito Vincenzo Cuomo, nel suo saggio Global (post) media warming, spiega come non vi siano individui chiusi, ma oggetti, organici o meno, che “subscendono” – secondo una fortunata nozione di Timothy Morton – entro le relazioni che li costituiscono come tali, creando connessioni allo stesso tempo “fredde”, spaesanti, e “tiepide”, abituali. Viene mediato uno stremarsi, e un estremizzarsi, di familiarità e straniamento, afferenti a due pulsioni di morte – per “intensificazione” e per “sottrazione”: distillante tra tale caldo e freddo assoluti è la subscendenza, avulsa sia dalla loro tensione, sia dal pigiare tra la vita e la morte, che sospinge apparentemente la prima sulla seconda. A ben guardare, anche la non-vita entra a far parte della vita, alimentandola: la simbiosi tra oggetti fluidifica le soglie tra corpi umani e inumani, animati e inanimati, oltrepassanti se stessi, eppure non trascendenti: essi subscendono, costituenti un substrato non sostanziale, accomodando l’oggetto nella perdita di sé, come suo stesso ritrovo, complementare e simbiotico. La novità della proposta di Cuomo, nei confronti della questione del global warming, è dunque l’aver trattato di una “via d’uscita” in termini non banalmente moraleggianti, ma strettamente ontologici:

non si tratta di adottare una “morale” ecologica ma di renderci consapevoli di quanto la nostra vita di specie non possa essere compresa se non attraverso il paradigma della “coesistenza” e della “solidarietà” con il non-umano, per quanto ciò possa risultare inquietante. Insomma, non è che noi “dobbiamo” sub-scendere ma è che noi siamo – come qualsiasi altro “oggetto” – entità sub-scendenti, vale a dire ontologicamente inconsistenti e dai confini incerti e frastagliati (pp. 135-136).

L’accordatura dei legami è data da un’incompiutezza, che rompe la bolla fittizia di idiosincrasia antropocentrica, quasi un ridestamento del corpo di un’idea – dunque, ancora, una sua metamorfosi – di contro a una non metaforizzante ipertrofia psichica della stessa. La psiche, attraverso lo specchio dei media, è sottoposta a sua volta a un’asfissia, a un’iniezione costante di riflessi e di immedesimazioni, vaneggiando a tentoni tra bias di conferma, fievoli comunanze o dissonanze. In realtà, anche la via mediale è proficua alterazione, nel suo disporre a un weird, e così, e contrario, nel ricucire al meglio le maglie di un’intimità. Tale questione abbraccia surriscaldamento ambientale e mediale, proponendo nell’inquietudine il tepore di un habitat, di un orientamento senza fisse mappature, contestualizzante nello strecciare una cornice opprimente, disintossicando da un narcisismo specista e mediale.

Dirompere nella Produzione dello spazio del vizio, a titolo del saggio di Marco Pavanini, è infatti operazione di aerazione contro il «carattere costitutivo del vizio, che struttura il clima interno proprio dell’umano», una costruzione e ostruzione dell’ovvio, atto a «celare una situazione di eccezionalità biologica che esso pure consente» (p. 154). Il comfort di un tepore da “serra” trova un ricambio per mezzo dell’inconsistenza e dell’incompletezza antropiche, intese in senso non esistenziale, ma oggettuale. O iperoggettuale: nel Morton di Phasing, saggio contenuto nel volume, gli iperoggetti denunciano l’inspiegabilità di una posizione individuale e chiusa, poiché rappresentano il traversamento costante della parte che eccede il tutto, che è simbioticamente infiltrata e “sfasata” da esuberi e tracimazioni. Nell’abbandono non solo di una prospettiva di scissione, ma anche di armonia, tra soggetto e oggetto, l’iperoggettività annuncia un’eccedenza che, in linea con i saggi Catastrofe solare di Ray Brassier, e L’inferno solare di Reza Negarestani, nega la tirannide afosa dell’asse privilegiato Terra-Sole – la fine del quale segnerebbe un’apocalisse, come pensiero destante – e vitale – di una non-vita, pronto a pronunciare, secondo Brassier, «l’assurdità filosofica par excellence: “Io sono morte”» (p. 22). Il pensiero è allora «inconscio organon universale», l’«alternativa non-filosofica alla filosofica sublimazione orizzontale della pulsione di morte»: desublimare l’appiattimento della soggettività è, nel senso brassieriano, la rottura di un paradigma egoico, una neutrale «escarnazione del pensiero», il suo vuotamento in un “esso” (pp. 39-40). In tal senso è forse la filosofia un mezzo non-filosofico, reciso internamente, e solo a quel punto con-templativo: un’esposizione all’altro, allo stordimento di un’abitudine, per sferzare l’aria claustrale che solidificazioni imperanti del concetto ancora profondono.

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