Tommaso Matano ripercorre l’attentato terroristico a partire dai contenuti diffusi e condivisi attraverso la Rete e i Social Network.
Questo post appartiene a un dossier di approfondimento sulla strage alla redazione di «Charlie Hebdo». A questo link potete leggere lo Storify #CharlieHebdo: l’ordine del discorso.
Il video che mostra l’esecuzione a sangue freddo dell’agente francese Ahmed Merabet, durante l’attentato terroristico alla redazione parigina di «Charlie Hebdo», viene trasmesso dai telegiornali nazionali con un lieve taglio, quasi impercettibile. Si vede uno dei due assalitori avvicinarsi all’agente che rantola in terra e alza le mani, poi – con un singulto dell’immagine – l’assalitore cammina già sul marciapiede, il poliziotto esanime alle sue spalle. Un’accortezza per non urtare la sensibilità dello spettatore, come se il fatto in sé non l’avesse già urtata per sempre.
Due giorni dopo, quando lo scenario di guerra è deflagrato nel cuore della Francia, aprendo due distinti sipari a pochi chilometri l’uno dall’altro, i media tentano di raccontare in diretta il blitz delle forze speciali. Gli inviati e gli esperti si alternano in una narrazione differita, riempiono l’attesa con le parole, non potendo mostrare quel che avviene. Non ci sono immagini all’altezza della tensione: l’evento è diluito, diviene snervante, la sua imminenza si fa immanente. Finalmente, nel tardo pomeriggio, si sblocca. L’evento accade. La conclusione spezza il tormento, ma non si tratta di un finale, del finale non ha l’assiologia: non è positiva, né negativa. Ironia della sorte – si scoprirà solo alcuni giorni dopo – al momento dell’assalto gli attentatori indossavano una camera GoPro: maneggiare quelle immagini in soggettiva, un domani, per rivedere quel che è accaduto: chi sarà chiamato a farlo, e come potrà?
Le immagini che i fatti di Parigi ci consegnano o ci consegneranno, convocandoci a farne uso, a guardarle, comprenderle, chiuderle, rifiutarle, vengono elaborate in un grande sforzo collettivo. I social media “microeventificano” gli accadimenti modulandoli sui nostri profili, personalizzandoli. Improvvisamente, per un’appropriazione fondata sull’esigenza di far fronte alla Storia, #CharlieHebdo diviene la mia o la tua tragedia. Per renderla nostra, si inventano hashtag (#JeSuisCharlie). Essere o non essere Charlie, pubblicare o meno un commento, un’opinione. Seguire la cronaca, o azzardare un’analisi. L’enormità dei fatti viene incanalata nei sentieri più immediati che abbiamo a disposizione; l’insensatezza è scorporata in percorsi di senso. La sensibilità è urtata, squarciata dall’incategorizzabile: la guerra che sbarca nel cuore dell’11éme arrondissement. Apriamo Facebook per cercare appigli, per cercare in ciò che è più vicino una risposta, un suggerimento, una strategia interpretativa. Chiediamo a Twitter cosa fare di quelle immagini, che ora invadono le nostre bacheche e – per metonimia – le nostre vite.
Di fronte al cortocircuito scatenato dalla brutale esecuzione di diciassette persone a Parigi, la Rete si pretende il dispositivo più agevole per ritrovare la bussola, per innescare un faticoso lavorio di ricomprensione di tale orrore all’interno di un orizzonte di senso. I media tradizionali ci risparmiano il gesto con cui l’attentatore spara in faccia al poliziotto disarmato che alza le mani, YouTube no. Non c’è esitazione, nel video integrale, non c’è la magia del montaggio. Il fatto fluisce nella sua semplice assurdità, ma insieme si offre alla nostra manipolazione. Si può fissare all’infinito, montarlo e smontarlo, io lo posso fare, e puoi farlo tu, perché abbiamo accesso all’eccesso della tragedia, perché la dimensione collettiva con cui questa storia è nata nell’attimo stesso in cui ha rivendicato il fatto di trascendere la singolarità delle nostre vite, non può che trovare la sua collocazione naturale nell’infrastruttura della collettività, dell’interconnessione, nel gesto di guardare insieme quel video che a sua volta ci ri-guarda tutti.
La temporalità schiacciante che l’attentato spalanca reclama una risposta che la Rete si offre di articolare attraverso una serie di risonanze e di rimandi in cui il pubblico si disperde in una molteplicità di privati. Ma la virtualità di questa comunità e insieme di questa comunicazione trova il suo corpo esemplare nell’enormità della marcia di place de la République, l’11 gennaio, il giorno in cui la Francia cerca di ricomporre la sensibilità violata.
Ancora un’immagine allora, di cui fare uso, quella di una folla che la Rete cattura per offrircene il fotogramma e trasformarlo in specchio in cui guardarsi, per offrire al coro di voci e di tweet il copione di un’identità. Da assumere, o da rifiutare. E allora ci si può dichiarare indifferenti, non importa, perché in ogni caso a a essere o non essere Charlie, o Ahmed, siamo noi, questa è la nostra storia, ed elaborarla è un compito che la modernità consegna a possibilità inusitate (è già online, nell’istante in cui sfilano i capi di Stato, un tweetstorm che ne denuncia l’ipocrisia).
Ci saranno, tra un anno, quando Facebook ci inviterà a ripercorrere il 2015, dispiegando il nostro profilo in un docufilm, le immagini di questa tragedia collettiva. Il dispositivo avrà saputo automaticamente che uso farne, le avrà raccolte insieme, in un atlante testimoniale, trasformandoci in storiografi parziali e inconsapevoli. Il mio e il tuo 2015 saranno nel segno di Charlie, indipendentemente da come potremo pensarla, perché il gesto stesso di pensare, del ricomporre la sensibilità urtata, del riattivarsi dall’an-estetizzazione, del rifiutare le semplificazioni, ciò dipenderà dall’uso che avremo fatto di queste immagini, con i nostri computer, con le nostre amicizie, con le nostre e le altrui comunità.