La salute operaia dal corpo al cervello

Salute, fabbrica, lavoro: le vicende legate a ThyssenKrupp, Petrolchimico di Marghera, Eternit e dell’Ilva di Taranto, pongono in primo piano una lunga relazione pericolosa.

Una questione che nel corso del tempo ha riguardato diverse aziende, svariati territori, e differenti comparti produttivi. L’intervista che segue fa parte di un progetto più ampio. Un tentativo di adottare uno sguardo di lungo periodo e riflettere su tale relazione facendo emergere le alleanze e le contraddizioni che l’hanno caratterizzata dal secondo dopoguerra ai giorni nostri.

Ore 15:00. Sono all’archivio della Cgil di Torino, con la testa china sui soliti mille fascicoli. Alla ricerca di volantini, accordi o verbali che diano testimonianza delle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori contro la nocività industriale, avvenute nel corso degli anni Settanta. È questo l’oggetto della mia ricerca, e mi riporta con la mente a un periodo di intenso fermento sociale, durante il quale il valore politico dei corpi – e dei saperi su di essi esercitati – venne affermato per la prima volta in maniera generalizzata.

D’altra parte il recente persistere di contraddizioni tra la difesa della salute, la tutela del posto di lavoro, e la conservazione delle risorse naturali, mi porta a riflettere in maniera critica su una stagione di lotte, che nel momento in cui emerse sembrava estremamente promettente.

Oggi è una giornata particolare: sto aspettando Gianni Marchetto, che mi raggiungerà qui per raccontarmi un po’ della sua storia. È stato operaio Fiat e delegato Fiom, attivo in fabbrica e nel sindacato a partire dagli anni Sessanta e Settanta. Dopo molte giornate passate sui libri e tra i documenti, penso che questo incontro è proprio quello che ci vuole, perché spesso le testimonianze orali regalano scorci sul passato, che i documenti difficilmente riescono restituire.

Incontro Gianni e ci presentiamo per la prima volta. Ha con sé un foglio su cui ha annotato alcune date e diversi avvenimenti, in vista dal nostro appuntamento. Gli chiedo a quando risale il suo primo incontro con la fabbrica. Mi risponde che viene dal Polesine, originario di una famiglia di tradizione contadina. Il padre lo iscrisse a un istituto tecnico industriale. Il primo impiego di Gianni fu quindi in un’officina, a pochi chilometri da casa, dove lavorava come tornitore.

Si tornivano le camicie. Le camicie sono dove dentro c’è il pistone. La camicia è quella che contiene, ed erano di ghisa grigia… Facevano un fumo! Periodicamente veniva un camion qui, da Torino, caricava pieno di pesci, scaricava i pesci a Porta Palazzo, e si caricava tutte queste camicie e le portava giù. Per cui avevano una puzza incredibile. E cosa che succedeva? Che facevo 8-9 ore al giorno. Per cui quando tornavo a casa ero nero, perché questa ghisa finissima ti entrava nei pori. Mi facevo la doccia e andavo a dormire, ma la mattina trovavo le impronte, era una cosa incredibile.

Si descrive come un ragazzo un po’ ribelle, che mal sopportava la fatica imposta dal lavoro industriale, e la monotonia delle mansioni di lavoro. Dopo uno scontro con la famiglia andò a Cinisello Balsamo, vicino a Milano, a lavorare in una fabbrica dove si producevano bottiglie. Abitava in una “Corea”, termine utilizzato allora per descrivere gli alloggi di fortuna in cui gli immigrati trovavano riparo, alle periferie di grandi centri industriali.

Con una bicicletta andavo a lavorare, facevo 10 chilometri andare e 10 chilometri a tornare…. Ho lavorato vicino a delle presse vecchie come il cucco, dove ho visto lasciarci le dita a qualche ragazzo e a qualche ragazza.

L’impatto con la grande città fu duro: il lavoro era monotono, faticoso, e le condizioni di vita di estrema povertà. Gianni, che allora aveva 16 anni, chiamò quindi il padre e chiese di poter tornare a casa. Il ritorno in Polesine non durò però a lungo, e presto fu di nuovo tempo di partire. La sua famiglia decise infatti di trasferirsi a Torino – dove già vivevano alcuni cugini – in cerca di un guadagno maggiore e di migliori condizioni di vita.

Nel 1966 Gianni iniziò a lavorare alla Fiat. Nel corso  di pochi anni venne trasferito in molti stabilimenti diversi, perché – mi racconta – faceva sempre sciopero, ed era inviso alla direzione. Lavorò anche a Mirafiori, dove allora erano impiegati più di 50.000 operai. In quegli anni, precedenti all’incontro con il sindacato, Gianni reagiva alla fatica e alla nocività delle condizioni di lavoro attraverso il rifiuto del lavoro stesso:

Io gli scioperi li facevo sempre. Non mi chiedere il motivo per cui, perché a me serviva per starmene a casa. Io ero un sottoproletario, un imbecille che camminava. Un po’ ribelle… Ti racconto un episodio […] C’era una giornata di sciopero […] A un certo punto ci fermiamo sotto una fabbrica, che erano una fonderia di alluminio, piena di crumiracci piemontesi, tra l’altro. Vedo che lui (un suo amico, n.d.r.) fa per tirare su dei sassi e noi con lui. Facciamo per lanciarli perché questa qui era l’abitudine che  avevamo, andavamo a fare a botte davanti alla fabbrica della Fiat di allora, ovvero a tirare i sassi ai crumiracci. E sentiamo dietro di noi un urlo “Co fe ven li, ban del picciu?”. Che tradotto dal torinese “Cosa state facendo banda di coglioni”. Ci giriamo ed era Pino Piovano. Un anno prima questo qui mi aveva iscritto alla Cgil, ed era un funzionario della Cgil. Era stato licenziato dal cotonificio Leumann. Tutto in torinese, il mio torinese è un po’ maccheronico: «che cazzo buttate i sassi, non vedete che sono le vetrate dove ci stanno gli spogliatoi dei lavoratori?». Si gira con la testa «se dovete tirare i sassi, ban del picciu, tirateli là!». Si gira con la testa verso la palazzina degli uffici. Questa cosa qui non me lo sono mai scordata, perché i sassi bisogna sempre tenerli, il problema è sapere dove tirarli, nelle vetrate giuste. Adesso per i ragazzi della tua età, il problema qual è?  È che le finestre, le vetrate, dove sono? Sono a Bruxelles, sono a New York, dove sono? Allora era fisicamente… eran lì.

È attraverso questo episodio che Gianni mi spiega come si è avvicinato al sindacato. Le parole con cui descrive il suo ribellismo giovanile sono un po’ severe, mediate da più di 40 anni di militanza sindacale. In realtà descrivono un sentimento molto diffuso tra i lavoratori dell’industria italiana alla fine degli anni Sessanta, coinvolti in un importante ciclo di lotte che iniziò nel 1969 e si protrasse fino alla prima metà del decennio successivo.

In quegli anni la Camera del Lavoro torinese aveva fatto dello slogan “la salute non si vende” uno dei suoi cavalli di battaglia. Marchetto fu prima attivista sindacale, e poi delegato di fabbrica, e prese parte ai numerosi corsi di formazione sull’ambiente di lavoro organizzati dalla Fiom, volti a spiegare ai lavoratori quali erano maggiori i fattori di rischio in fabbrica. Molta attenzione era dedicata alle malattie polmonari, derivate dall’inalazione di polveri come la silice e l’amianto. Gianni mi dice che durante i corsi la reazione dei lavoratori era varia, a volte inaspettata. Mi racconta quindi un altro episodio, che lo ha segnato molto. Un giorno, dopo un corso tenuto presso l’azienda metalmeccanica Mandelli, dedicato alla prevenzione della silicosi, alcuni lavoratori andarono dai capireparto e chiesero di essere trasferiti nei reparti più polverosi dello stabilimento. Gianni mi spiega che all’inizio questa notizia lo fece arrabbiare, ma col tempo imparò a darsi una spiegazione:

Questi lavoratori qui erano a un pelino dal 11%. Cosa hanno fatto? Sono andati ad aggravarsi l’esposizione a rischio per avere la pensione di invalidità.  […] Un operaio è abituato sempre a trovare una soluzione, e non perché la impara da bambino, ma perché la impara lavorando. [… ]Questi qua non si accontentavano più di chiacchiere: la salute non si vende, ma neanche si regala eh! Allora questi qua che sono abituati a trovare una soluzione, la soluzione che trovano sono i quattrini. Non tutti, però…

Marchetto mi dice di avere avuto un grande  insegnante presso la Camera del Lavoro: Ivar Oddone. Questi era un medico di origine imperiese, dove aveva preso parte alla Resistenza tra le fila delle Brigate Garibaldi: é a lui che Italo Calvino si ispirò ritraendo la figura del partigiano Kim, nel suo Il sentiero dei nidi di ragno. Oddone fu primo protagonista delle lotte per la salute dei lavoratori e insegnò a Marchetto che l’esperienza degli operai è un sapere pratico con cui i tecnici devono confrontarsi. Gli fece leggere alcuni testi di Gramsci, e le pagine dei Quaderni dal Carcere in cui si dice «non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens». Dice Gianni:

Oddone era uno dei pochissimi intellettuali – un tecnico, se gli dicevi intellettuale ti rispondeva male – che  ascoltava e chiedeva. Mentre invece normalmente allora, ma ancora adesso, un intellettuale, un tecnico, è qualcuno che pensa che la tua testa sia vuota, e non ci sia nessun sapere, lui faceva il contrario, pensava che la tua testa fosse piena,  magari di cazzate,  però bisognava farci i conti. Mirafiori era come un inferno dantesco.

Nel reparto fonderie il caldo e il rumore erano assordanti, tanto che gli operai avevano inventato un linguaggio con le mani per poter comunicare tra loro. Ricorda gli odori acri di ferro bruciato, di pece, di vernice. Un giorno, nei pressi della catena di montaggio, sentì un urlo fortissimo che presto coinvolse tutti gli operai. Capì in seguito che era un modo inventato dai lavoratori e dalle lavoratrici per scaricare lo stress e la tensione delle mansioni ripetitive, monotone e senza sosta.

Nel corso dell’intervista Gianni si dilunga sulla descrizione delle malattie e dei disturbi professionali derivati dallo stress psicologico. Era questa una tematica molto importante nel corso degli anni Settanta. Sollevata a partire dalla Camera del Lavoro torinese, che denunciò le contraddizioni di uno sviluppo economico avvenuto sia con il progresso tecnologico, ma anche con la contrazione dei ritmi di lavoro. In ogni caso nella completa noncuranza delle condizioni sanitarie dei lavoratori.

Soprattutto, il motivo per cui Gianni insiste sullo stress psicologico è perché nella sua memoria il passato e il presente sono legati da un filo di continuità. Parlare di ieri per lui è un  modo per parlare di oggi, e viceversa. Nel sindacato di oggi non si riconosce più, lo critica di aver dimenticato l’esperienza di cui lui fu protagonista. Rispetto alle lotte di quegli anni solleva alcune critiche, ma ritiene ci sia ancora molto da imparare.

Adesso secondo me alla Fiat di Pomigliano d’Arco e alla Maserati di Grugliasco, sono dell’opinione che, se quelli del sindacato mi dessero retta, bisognerebbe fare una cosa di questa natura qui (si riferisce alla contrattazione dei ritmi di lavoro). Perché le fabbriche adesso sono migliori delle fabbriche di cui ti ho raccontato io, i rischi di più evidenti non ci sono più. Ho avuto occasione di visitarle, sono tutti puliti… una cosa incredibile! Il problema qual è? Che c’è il sovraccarico mentale. Si fanno un culo come una capanna […] si strizza un asciugamano asciutto.  Adesso leggevo una cosa, un’inchiesta fatta da un mio amico sociologo sui lavoratori di Pomigliano. Sono tutti integrati. Adesso non essendoci più il sindacato… Dalla sua ricerca non viene fuori nessuna ribellione, neanche una ribellione nascosta [..]. Questi sono sempre impegnati, e l’impegno non passa solo nei muscoli – normalmente negli arti superiori – ma passa anche nel cervello. Capito?

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