Il contagio nei dormitori, le scelte necessarie per limitarlo e l’importanza di una “vita qualificata”.
All’inizio della pandemia, osservando il mondo dei servizi per persone senza dimora, ho sperato che questa fosse un’occasione. Per capire in che termini, è necessario fare una premessa sulla posizione che questo gruppo sociale occupa nella collettività. Le persone senza dimora vivono ai margini delle nostre città e comunità: sono le vittime più colpite dai meccanismi espulsivi del capitalismo avanzato. Sono estromessi dal mondo del lavoro e dalla possibilità di accedere all’abitare, in un momento storico in cui il mercato immobiliare delle città occupa un ruolo chiave nei meccanismi di accumulazione tramite espropriazione. La marginalità estrema in cui è relegato un numero crescente di persone non è, tuttavia, una “stortura”, un effetto perverso del capitalismo: ne è piuttosto un ingranaggio essenziale affinché la ricchezza e il potere si concentrino in misura crescente in un settore ridotto della società.
Gli eventi drammatici del secondo conflitto mondiale hanno fatto maturare in Hannah Arendt un’intuizione. Nella società emergente dalle macerie della guerra, Arendt ha individuato l’emergere di una doppia concezione di vita: la “vita qualificata”, con le sue dimensioni sociali e politiche, e la vita biologica, del corpo, che lei definisce la “vita stessa”. Arendt metteva in guardia dalla crescente prevalenza dell’importanza della vita biologica e dalla riduzione del concetto di vita alla sua sola espressione fisica. Diversi autori e autrici hanno ripreso ed elaborato questo pensiero: in antropologia si è parlato di “biolegittimità” come paradigma contemporaneo di regolazione dei rapporti sociali. Secondo Didier Fassin, la biolegittimità consiste nel riconoscimento della vita come bene supremo, in nome della quale qualsiasi azione può essere giustificata. La vita in questione è tuttavia la “vita stessa”, l’esistenza fisica/biologica, la cui difesa, come emerge in molte ricerche, si afferma a scapito della vita politica e sociale.
La posizione occupata prima della pandemia dalle persone senza dimora sembra corrispondere a questo paradigma di interpretazione. L’esclusione e la marginalità estrema che vivono nega loro la possibilità di realizzare una “vita qualificata”, di soddisfarne la dimensione sociale/politica. Spesso gli stessi servizi rivolti a questo gruppo sociale si fondano su una tutela e un riconoscimento unicamente della vita fisica/biologica: rispondono al bisogno di mangiare, dormire e lavarsi in quanto mere funzioni biologiche. Il diritto alla privacy e la possibilità di scegliere per sé (dal cibo da mangiare ai percorsi da realizzare all’interno dei servizi) sono estremamente limitati. I controlli sul comportamento dei beneficiari dei servizi sono spesso stringenti: devono imparare ad adattarsi, obbedire, non pretendere, dimostrarsi impegnati e meritevoli. Ricordo una discussione con un gruppo di persone accolte in un dormitorio rispetto a un progetto volto a distribuire beni materiali. Come ricercatori, chiedevamo loro come avrebbero voluto spendere quei soldi, se fossero stati liberi da ogni vincolo burocratico o di rendicontazione. Un uomo disse che avrebbe comprato un regalo per i figli, con cui non viveva ormai da molti anni. La sua richiesta contrastava con il progetto, pensato originariamente per rispondere a bisogni “essenziali”. Il desiderio di comprare un regalo parlava però di una diversa concezione di vita: ne rivendicava la dimensione sociale e relazionale come essenziale e non separabile dalla sua accezione biologica.
Il mondo dei servizi, fortunatamente, non è una realtà monolitica e compatta. È un campo di forze in cui si scontrano concezioni diverse di società, povertà, assistenza e diritti, continuamente negoziate tra gli attori che lo compongono: funzionarie e funzionari pubblici, operatrici e operatori sociali, utenti, ricercatrici e ricercatori. Tuttavia, l’approccio dominante diffuso nelle strutture, nelle politiche e nelle pratiche che riguardano i servizi per persone senza dimora si fonda ancora su una riduzione della vita di queste persone alla dimensione fisico/biologica. Questo approccio non è circoscrivibile al solo mondo del sociale: è strettamente connesso alle più ampie economie morali sulla povertà estrema che circolano nella nostra società, orientate a colpevolizzare gli homeless per la propria condizione e, di conseguenza, a limitare fortemente le risorse a loro riservate. I dormitori, in cui queste persone trascorrono anche diversi anni, sono contesti che non sono orientati al riconoscimento della persona nella sua complessità. Come abbiamo osservato in anni di ricerca, accettare l’ingresso nei dormitori spesso equivale a una morte sociale. Come ha ben sottolineato ancora Fassin nelle sue ricerche con i rifugiati in Francia e in Sudafrica, la morte sociale crea, tuttavia, le condizioni perché si realizzi anche la morte biologica: quella della “vita stessa” che all’epoca della biolegittimità rappresenta teoricamente il bene supremo per la società.
Le ricerche che hanno adottato il paradigma della biolegittimità per interrogare la realtà sociale hanno dimostrato come questa riduzione biologizzante abbia permesso ad alcuni gruppi sociali di accedere a diritti e risorse prima negati. Dalle vittime ucraine di Chernobyl ai malati di AIDS in Africa Occidentale, diverse ricerche antropologiche hanno raccontato come gruppi marginali abbiano conquistato un accesso alla cittadinanza in ragione della loro condizione biologica. Le antropologhe e gli antropologi coinvolti hanno parlato a questo proposito di “biocittadinanza”. La speranza che nutrivo all’inizio della pandemia si radicava in quest’idea. Irrimediabilmente esclusi dalla vita politica e sociale, considerati spesso solo rispetto alla vita fisico/biologica, immaginavo che le persone senza dimora (e una serie di altri gruppi in condizioni analoghe) tornassero improvvisamente a essere considerati parte della società, in ragione di questa inedita condizione epidemica. Dopo anni in cui la salute – ma anche il benessere e la “vita qualificata” – ci sono state raccontate come fatti individuali, all’improvviso ci troviamo in un momento nuovo, in cui scopriamo che la salute è un fatto essenzialmente collettivo. Il Covid-19 colpisce tutti, è profondamente interclassista e per “guarire” dobbiamo tutti prenderci cura della collettività, nessuno escluso. L’esclusione e la marginalizzazione imposta per anni alla popolazione homeless, pensavo, avrebbero rivelato la loro natura fallace: essi sarebbero stati finalmente riconosciuti come parte integrante del “corpo sociale”, proprio in ragione di una condivisa condizione biologica. Evitare di prendersi cura di loro avrebbe rappresentato un rischio per loro stessi, ma anche per la collettività. Speravo, in sostanza, nell’accesso a una forma di “biocittadinanza”.
A Torino, dove faccio ricerca, inizialmente ente pubblico e cooperative si sono impegnati nel trovare soluzioni creative per tutelare la salute di utenti e operatori sociali, adottando una serie di misure inedite, cambiando regolamenti, confrontandosi con assiduità. Poi, da pochi giorni, nonostante le misure prese, sono stati scoperti i primi casi positivi all’interno dei dormitori. Diverse persone sono finite in ospedale, tra cui un operatore. I dormitori colpiti dai contagi ci portano, come collettività, a un bivio. Le caratteristiche dei dormitori – spazi di convivenza forzata tra un alto numero di persone – li rendono in questo momento luoghi pericolosi, in cui è quasi possibile evitare i contagi una volta che il virus è “entrato” nelle strutture. La negazione del diritto ad avere uno spazio di privacy, che per anni ha minato la dimensione sociale e politica della vita di queste persone, oggi si traduce nell’impossibilità di garantire l’isolamento in una situazione di rischio di contagio e, di conseguenza, nella negazione del diritto alla salute. Le misure adottate fino a oggi dal settore sociale dedicato non sono più sufficienti: la salute delle persone senza dimora a Torino, come in altre città, deve diventare un problema “pubblico”, di tutti, per trovare risposte adeguate. Le città e le istituzioni dovranno decidere se mobilitare risorse straordinarie per poter garantire materialmente l’isolamento degli utenti che hanno frequentato i dormitori contagiati e che oggi ancora non sono malati o lasciare le strutture – e dunque le persone che li frequentano, operatori, operatrici e utenti – al loro destino, sancendone in maniera più netta l’esclusione dalla collettività. Come prima della pandemia si negava l’appartenenza delle persone senza dimora alla collettività sociale e politica, oggi, abbandonare i dormitori a se stessi significa smentire la partecipazione di queste persone al “corpo sociale”, inteso in senso biologico, nonché occultare il fatto che esporle al rischio di contagio costituisce un pericolo per la collettività.
È a questo punto, credo, che come società dovremo dimostrare se siamo una comunità democratica che riconosce a tutti il medesimo diritto alla salute o se l’esclusione di certi gruppi sociali si conferma e si rafforza, in maniera drammatica, anche sul piano della “vita stessa”. Questa seconda opzione comporterebbe, tuttavia, l’infrangersi di patti sociali, di equilibri tra istituzioni, organizzazioni e cittadini che da anni riproducono un equilibrio, seppur non privo di criticità. Equivarrebbe a dichiarare esplicitamente che le istituzioni non sono capaci – o non hanno intenzione – di proteggere e tutelare i cittadini in condizioni di maggior fragilità. Inoltre, il patto di collaborazione tra istituzioni pubbliche ed enti del terzo settore potrebbe infrangersi in maniera irreparabile nel momento in cui lo Stato rivelerà fino a che punto può spingersi la mancanza di tutela verso i lavoratori di questo ambito.
Sempre il mondo dell’homelessness fa sorgere oggi un’altra riflessione. Ci sono alcune persone senza dimora in carico alla città che attualmente si trovano in una condizione di relativa sicurezza per sé e per gli altri. Sono quelle che hanno avuto accesso ai progetti Housing First e al Reddito di Cittadinanza. Alla loro condizione di marginalità estrema, le istituzioni hanno risposto fornendo un alloggio, in virtù del diritto all’abitare, e l’accesso a un reddito, perché potessero scegliere per sé come costruire, faticosamente, una “vita piena”. Rispetto ai dormitori, i progetti Housing First sono ispirati a una concezione di vita che non è meramente schiacciata sul piano fisico/biologico. Riconoscono il diritto alla scelta, alla privacy, a un abitare sicuro, ad avere uno spazio personale in cui poter coltivare la socialità. I servizi ispirati a una concezione più complessa e articolata di “persona” oggi dimostrano di essere uno spazio di sicurezza individuale e collettiva efficace. Prendersi cura della dimensione politica e sociale, in questo caso, ha voluto dire tutelare anche la dimensione fisica/biologica. Non so come usciremo da questa pandemia. Continuo, in fondo, a nutrire la speranza che questo sia un momento in cui una logica di diritti, interdipendenza ed equità potrà prevalere all’interno di istituzioni e organizzazioni del sociale, costrette a una scelta di “svelamento” dalla drammaticità del virus. Continuo ad augurarmi che sia un’occasione per la ricomposizione non solo della collettività, ma anche della concezione di vita: un momento in cui prendere atto del fatto che le ingiustizie e le violenze strutturali sono un pericolo serio per l’integrità dell’intera comunità.