di Vincenzo Idone Cassone
La maestra di scuola non si informa quando interroga un allievo, né informa quando insegna una regola di grammatica o di calcolo. In-segna, dà ordini, comanda. Gli ordini del professore […] non derivano da significati originari, non sono la conseguenza di informazioni […] la macchina dell’insegnamento obbligatorio non comunica informazioni, ma impone al bambino coordinate semiotiche attraverso le basi duali della grammatica (maschile-femminile, singolare-plurale…)
G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani
Nell’Italia d’oggi l’invocazione del ritorno dei fatti è una richiesta che giunge da più parti e non può essere ignorata, ma piuttosto inquadrata all’interno cambiamenti che sono intercorsi negli ultimi quaranta anni: periodo in cui muta radicalmente la struttura mediatica dell’informazione e della diffusione dei contenuti. È forse necessario ripetere qualche considerazione sui linguaggi umani e soprattutto su quella che chiamiamo la Lingua.
In 20 novembre 1923. Postulati della linguistica (all’interno di Mille piani) i due autori francesi si pongono in una dimensione del linguaggio particolarmente cruda: «l’unità elementare del linguaggio – l’enunciato – è la parola d’ordine […] il linguaggio non è fatto nemmeno per essere creduto, ma per obbedire e far obbedire».
La parola d’ordine non è qui semplicemente l’esplicitazione di un comando (come l’imperativo), ma la trasmissione di un termine che non è negoziabile, discutibile: è un dato di fatto, un Oggetto, una Verità (obbliga a pensare: X esiste, X è vero, X è un fatto).
In diversi gradi e a seconda dei contesti e delle situazioni, ogni parola può divenire parola d’ordine: affermare una regola o un evento forza gli altri ad accettare le categorie implicite del discorso, le parole singole che lo compongono come se fossero innocue: vedere il mondo necessariamente sotto il punto di vista di chi quelle parole d’ordine le utilizza. Essere “neutri” e oggettivi non solo non è possibile, ma può nascondere risvolti pericolosi: frasi come “l’università deve valorizzare il merito” o “la democrazia italiana è in pericolo” (pronunciate in diversi contesti da esponenti dei due maggiori partiti italiani) non sono negoziabili. Non spingono a farsi domande: a cosa corrispondono il “merito” o “la democrazia”? Non sono messi a paragone: chi affermerebbe “sono contro la democrazia e per la svalorizzazione del merito”? Non contemplano risposta, ma programmano adesione: queste frasi diventano bandiere da sventolare, icone del potere: «Libertà» è il nuovo simbolo all’interno del nome dei partiti e delle associazioni, ha lo stesso valore di “tana libera tutti” o di “strega comanda colore: bianco!” Parola d’ordine.
In questi casi, quanto più vi è ripetizione (slogan o comando, termine o inflessione, affermazione o constatazione) tanto più l’enunciato diventa “naturale”, inietta silenziosamente le sue categorie e rende difficile il distacco da quella fusione di concetto-parola-cosa. L’accettazione di una verità è indistinguibile da un esercizio di poteri operato attraverso i linguaggi, lo è sempre stata: la Neolingua di Orwell (1984) non è un futuro distopico che ci è dato scampare, ma è il presupposto sempre presente della lingua, dell’uso del linguaggio in quanto contrassegno di potere.
La messa in crisi della nozione di verità non è un fatto recente, e non a caso in un periodo storico in cui si torna a parlare di “impegno” (da ambo i fronti) si torna ad una concezione forte del Reale: qualsiasi schieramento che lotti dentro reti di potere deve convincere che le proprie parole d’ordine sono quelle giuste, quelle che trovano corrispondenza col mondo, anche se sono vuote. Se pensiamo però, come i linguisti fanno da quasi un secolo, che il solo fatto di parlare in una lingua “obbliga” a un modo differente di “ritagliare” in pezzetti il mondo allora non ha più senso parlare di possibilità della parola di conoscere la Realtà, perché la lingua è fin dal principio qualcosa di diverso: atto di creazione della Realtà, intesa come continuo divenire linguistico di concetti, affermazioni, criteri di valore, presupposti e attese di significato: divenire in cui ogni enunciato (ma non tutti allo stesso modo) ridistribuisce la gerarchia dei poteri, ne ridisegna la mappa.
Pensiamo che la Verità, la Cultura o la Realtà non giustificano e non siano giustificate: sono anch’esse parole d’ordine. Pensare che entità immutabili da qualche parte ci facciano essere nel Giusto (altra Par.Ord.) vuol dire credere che la lingua non sia attraversata da galassie di poteri in contrapposizione, ritenendo alcuni poteri costitutivamente più forti di altri: è un modo di declinare ogni responsabilità sociale, ed è anche un modo di rifiutare di esercitare una attività critica e di analisi sul mondo attraverso il linguaggio. Non parliamo di Verità, ma tentiamo di analizzare e determinare i criteri per la veridicità, che sono costantemente rinegoziati e messi in gioco dallo scontro dei corpi all’interno della società. (Prima di Copernico era già stato affermato come il sole fosse al centro del mondo: ma la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità rimaneva la Bibbia; l’ascesa della rivoluzione scientifica determina che il criterio della coerenza matematica entri in lotta con quest’ultima, e che ciò rimetta in discussione il concetto di vero e falso).
Nel nostro mondo gli slogan pubblicitari («Be stupid») come gli articoli di giornale, la toponomastica (la “via Roma” dei fasci) come i nomi dei siti possono fare massa e grumo di potere, fare Marchio: ma sono sempre il risultato di complessi di potere analizzabili. Dove la parola d’ordine assomiglia più a un’icona da venerare, è sempre possibile assumere un atteggiamento eretico (e forse di empirismo eretico).
È quindi insieme strano ma comprensibile che gli stessi mezzi di comunicazione che combattono oggi la battaglia politico/culturale sembrino però condividere i medesimi presupposti linguistici: l’accettazione di una retorica delle parole-potere, il riutilizzo continuo dei Simboli al centro della viralità mediatica: l’impressione che oggi tutti gli articoli siano articoli di commento è forse dovuto al fatto che giornali (da ambo le parti, ma in misura diversa) oramai hanno una minima necessità di dimostrare: l’Italia che ha attraversato Mediaset e i Reality, l’Italia del Tv-Sogno americano, è un luogo in cui il criterio di veridicità è affidato al fascino e alla forza del racconto di sé, della propria storia. Il presidente operaio o il presidente perseguitato si oppongono al presidente cialtrone e al presidente mafioso.
Continuare a mettere Bunga Bunga in prima pagina è per Repubblica una scelta di campo, e obbliga chi legge a effettuare la stessa scelta: pro o contro. Migliaia di copie e servizi dopo Berlusconi possono invitare (durante una Convention) tutti al Bunga Bunga: ripetizione e bandiera, neutralizzazione e territorio franco: in entrambi i casi è ridotta a motivo fuori contesto, battuta su cui le riflessioni politiche, morali, economiche rimbalzano, sono ormai estranee. In questa situazione, tornare a Deleuze e Guattari ci ricorda che la Parola d’ordine ha in qualche modo due aspetti o risposte: la morte (la cristallizzazione del senso, il Simbolo) e la fuga.
«La parola d’ordine causa una morte diretta a chi riceve l’ordine, o una morte eventuale se non obbedisce, o una morte che egli stesso deve infliggere, portare altrove […] Verdetto. Ma la parola d’ordine è anche, inseparabilmente, qualcosa d’altro: […] la vita deve poter rispondere alla risposta di morte, non fuggendo, ma facendo che la fuga agisca e crei. Sotto le parole d’ordine vi sono parole lascia passare […] La stessa cosa, la stessa parola, ha probabilmente questa doppia natura: bisogna estrarre l’una dall’altra, trasformare le composizioni d’ordine in componenti di passaggio».
Lavoro culturale: percorso che, rispetto alla forza dei grandi sistemi (con le loro risposte già scritte) incalzi con continue domande, formuli risposte temporanee e parziali, aperte alla confutazione, progettuali, puntelli per attacchi che smascherino i concetti e ristabiliscano continuamente la pluralità del discorso.