La mia vita nell’arte

“Morte di un casanova”, di Leonard Cohen

La mia vita nell'arte

… mi arrampicai sul letto di Alexandra e piansi in linea generale per il destino degli esseri umani. Poi la seguii nel bagno. Sembrava diventare d’oro. Stava davanti a me enorme come il guardiano di un porto. Come avevo mai potuto pensare di dominarla? Con una mano di cromo e un’immensa sigaretta Gauloise mi consigliò di arrendermi e di venerarla, cosa che feci per dieci anni. Cominciò così l’osceno silenzio della mia carriera di Casanova.

“Let’s not talk of love or chains/ and things we can’t untie”, supplicava il cantautore canadese in Hey, that’s no way to say goodbye. Ma, per fortuna, a quell’esortazione lui stesso non ha mai tenuto fede. Morte di un casanova (titolo originale Death of a lady’s man, uscito la prima volta in inglese nel 1978 e ora per Minimum fax con traduzione a fronte di Giancarlo De Cataldo e Damiano Abeni) è una raccolta di scritti – versi, lettere, prose e parafrasi – su amore, catene, fede, sesso, e tante altre cose che non riusciamo a sciogliere.

Come recitano le alette di copertina, questo libro è un gioco di specchi. Quasi tutti i titoli si ripetono due volte di seguito: la prima volta c’è il testo o la poesia, la seconda un brano dal contenuto ora speculare, ora di parafrasi, ora di presa di distanza ironica e totale azzeramento. Alcuni brani-specchio recitano semplicemente: “Questa è opera della Misericordia”.

 

Preferisco il Cohen cantautore al Cohen scrittore: la sua voce ferma e grave, monotona, è un elemento imprescindibile della forza delle sue parole, che hanno qualcosa del suono dell’eternità. Il cantautore è più essenziale, evocativo, drammatico, non si perde in labirinti e idiosincrasie,  frequenti in questo libro. Ma forse l’errore sta proprio nel cercare tra questi scritti il Cohen che conosciamo. In realtà, lui stesso ce lo suggerisce più volte, tra queste pagine c’è soprattutto “l’altro” Cohen, quello che non è mai, o quasi, arrivato alle nostre orecchie.

Il lavoro andava ben al di là di questo libro. Adesso lo vedo. Mi vergogno di chiedervi dei soldi. Non che voi non abbiate pagato di più per ottenere ancora meno. È così. Continuate a farlo. Ma io ho bisogno di tenere le mie diverse vite separate. Altrimenti quando si uniranno ne verrò distrutto e finirò la mia vita nell’arte, cosa che un terrore non mi consentirà di fare.

Dietro il poeta c’è l’uomo, che ne prende le distanze e cerca di esorcizzarlo attraverso il bizzarro commentario che segue i brani. Eppure le differenze tra l’uno e l’altro non sono definite e non si riesce a tracciare una linea di demarcazione. Tutto il libro è intessuto da questo conflitto tra lui e il suo doppio, e allo stesso tempo dal tentativo di dipanarlo e risolverlo.

Però anche questo è Cohen: il Cohen che si lascia andare all’ira (“Morte a questo libro o fanculo a questo libro e fanculo a questo matrimonio. Fanculo alle ventisei lettere della mia vigliaccheria. Fanculo a te che hai rotto lo specchio e hai gettato dalla finestra le pinzette per le sopracciglia. Il tuo letto morto notte dopo notte e niente di caldo a parte chiacchiericci infantili”), il Cohen che cade nell’accidia e nel maschilismo più vigliacco (“Lo conosco il tuo camuffamento da giudea impacciata, da giudea inerme […]. Nemmeno un’occhiata ai miei genitali, inutile puttana”), il Cohen che segue gli insegnamenti del suo maestro buddista, e quello che pensa, ossessivamente, al sesso:

Eccolo che va/padrone di se stesso infine/oltre la spiaggia di sassi/oltre quelle a cui non ha mai rivolto la parola/quelle con cui non è andato a letto/ve lo ricordate forse/come un ammiratore di gatti/un ricettacolo di brama mostruosa/un elegiaco intenditore di isole/eccolo che va/con in testa/la fica solo la fica/cuore soldi attenzione talento arte/concentrati interamente sulla fica/ed è lì che sta andando/magnifico spettacolo/un uomo che sa dove sta andando.

Morte di un casanova è un piccolo gioiello per gli amanti di Cohen: per quelli che ne apprezzano l’aspetto bifronte, tra il lirico e l’erotico – che qui arriva spesso a sfiorare il genitale – e l’abilità di parlare del proprio rapporto con l’ebraismo, l’arte e le donne utilizzando le stesse parole, nella stessa canzone.

Quello che si coglie, rispetto al Cohen tristissimo e malinconico di Songs of love and hate o Songs from a room, è il suo aspetto idiosincratico, contraddittorio, esasperatamente egocentrico. Eppure ci si accorge che quello non sarebbe possibile senza questo. Il che non significa non ci siano grandi aperture tra queste pagine: il piacere puro arriva, a tratti, e commuove, come nella sua storia immaginaria e già rassegnata con la bellissima passante cinese, un’immagine che compare più volte (“… una celestiale ragazza cinese con madre e bebè che passa sotto questo balcone, capelli neri e io non sono niente per lei” – “L’evento mi ha preso completamente./Un piccione è passato in volo davanti alla finestra./La ragazza cinese ha sorriso./Le ho fatto le mie promesse./Non scoperemo mai./ Non parleremo mai./Non ci incontreremo mai). O in momenti in cui il vecchio Leonard Cohen è riconoscibilissimo (“Mi butterei in ginocchio al solo scopo di onorare l’immensa finzione del nostro comprenderci”). Ma non è per quello, credo, che bisognerebbe leggere questo libro, quanto per scoprire – giocare – con l’uomo Cohen, che oscilla tra desiderio, adorazione, tradimento, culto della bellezza e odio per quella stessa bellezza (“Nascondo sempre a me stesso la sua bellezza finché è troppo tardi per lodarla davanti a lei” – “Non dire a mia madre che sono diventato/l’appendice di una donna adulta/io sono fatto di lei io le sono inutile/io sono qualcosa di cavato fuori dalla sua bellezza/io sono la forma del suo profumo”), e poi dissimulazione, finzione e ancora desiderio, rabbia, e su tutto l’impossibilità di trovare un fulcro alla propria vita, di comunicare efficacemente la propria poesia:

È vero che sono un eroe del Sahara ma lei non mi ha visto sotto la sabbia e il fuoco, a controllare gli sfinteri della mia codardia. E lei non potrebbe sapere quanto sono belle queste parole. Nessuno potrebbe. Lei non sarebbe in grado di percepire la toccante immoralità della mia vita nell’arte. Nessuno lo sarebbe.

Cohen è schietto ed essenziale, non cerca facili lirismi o sentimentalismi a effetto. Uno degli ultimi brani del libro, How to speak poetry (Come recitare poesie), è un vero manifesto di questa poetica:

Prendi la parola farfalla. Per usare questa parola non è necessario costringere la voce a pesare meno di dieci grammi o equipaggiarla con alucce pulverulente. Non è necessario inventarsi un giorno assolato o un campo di giunchiglie. Non è necessario essere innamorati, o essere innamorati delle farfalle. La parola farfalla non è una farfalla vera. C’è la parola e c’è la farfalla. Se confondi queste due voci la gente ha diritto di ridere di te. […] Di’ quello che devi dire, trasmetti i dati, fatti da parte. Non puoi dire al pubblico tutto quello che sai dell’amore in ogni verso d’amore che pronunci. Fatti da parte e sapranno ciò che sai perché loro già lo sanno. Non hai niente da insegnargli. Non sei più bella di loro. Non sei più saggia. Non urlargli in faccia. Non volere per forza una penetrazione a secco. Non è sesso fatto bene, questo. Se mostri le pieghe dei tuoi genitali, poi devi essere all’altezza di ciò che prometti. E ricordati che la gente non è che voglia portarsi a letto un’acrobata. […] Evita gli svolazzi. Non avere paura di essere debole. Non vergognarti di essere stanca. Sei bella quando sei stanca. Sembra che tu sia in grado di andare avanti per sempre. Adesso vieni tra le mie braccia. Tu sei l’immagine della mia bellezza.

C’è poi un ultimo elemento: la prefazione di Vasco Brondi. I “fan” di Cohen hanno storto il naso (per usare un eufemismo) quando, la scorsa estate, la casa editrice ha annunciato la pubblicazione del libro e l’autore della sua prefazione. Sebbene versi come “sono stati asfaltati i prati e non i preti” o “invidiare le ciminiere perché hanno sempre da fumare” (per non parlare di “rifacciamo le tette ai nostri progetti scadenti”) siano quantomai lontani dalla poetica di Cohen, Brondi ha raccontato il suo Leonard Cohen, quello che lui ha vissuto e vive, che probabilmente lo ha ispirato, che lo ha commosso.

Qualche settimana fa sono stata al concerto di Cohen all’arena di Verona. Tra il pubblico c’era la gente più diversa, dalla signora sessantenne impomatata e rigida alla coppia di bruttissimi, pallidi e brufolosi nerd, dal gruppo di amici cinquantenni e caciaroni ai fricchettoni con le infradito sotto la pioggia. C’ero anche io, con mio padre che cantava anche quando non sapeva le parole, e mia madre che quando il quasi-ottantenne Leonard si toglieva il cappello si preoccupava dell’umidità che avrebbe potuto causargli un malanno. E, scusate il sentimentalismo, è stato bellissimo. Ecco, quello che volevo dire è proprio questo: ognuno ha diritto al suo Leonard Cohen.

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