La malinconia delle rovine e la tristezza delle macerie. Su “Bussola” di Mathias Énard

Esce anche in Italia “Bussola” (E/O), l’ultimo romanzo di Mathias Énard (premio Goncourt), nella traduzione di Yasmina Melaouah. Qui la nostra recensione. A Énard il lavoro culturale ha già dedicato uno speciale in due parti.

«Siamo due fumatori d’oppio ognuno dentro la sua nuvola».

Inizia così Bussola, l’ultimo romanzo di Mathias Énard. Premiato con il Goncourt, è appena uscito anche Italia, per E/O, nell’ottima traduzione di Yasmina Melaouah, voce italiana anche di Zona e delle altre opere dello scrittore francese.

Franz Ritter, il narratore, guarda la pioggia dalla finestra del suo appartamento viennese e nel vetro vede riflettersi anche se stesso: «L’esistenza è un riflesso doloroso, il sogno di un oppiomane». È un musicologo austriaco appassionato di Oriente, dove ha viaggiato molto. Si è fatta sera tardi e sta per concludersi una giornata in cui ha ricevuto da Sarah una lettera e dal suo dottore una grave diagnosi. Franz è malato, e ora lo sa per certo. Inizia il libro e, insieme, inizia la notte di veglia che il romanzo racconterà. Per inciso, si potrebbe pensare a un lungo elenco di romanzi costruiti su questo impianto, la nottata di un malato e i suoi pensieri, le sue memorie del sottosuolo: si potrebbe cominciare per esempio con Notturno cileno di Roberto Bolaño, autore a cui peraltro Énard dedica un riferimento, definendo la sua Sarah una «detective selvaggia».

I capitoli portano il nome delle ore della nottata, dalla sera fino ai primi cinguettii mattutini degli uccelli viennesi. La notte passa fra i ricordi dei suoi viaggi in Oriente e i ricordi di Sarah, che non sono separabili. Quello con Sarah è un rapporto in cui immaginazione amorosa e vitalità intellettuale si specchiano tutto il tempo. Franz sembra vedere in lei l’incarnazione della possibilità di esistenza di una «perseveranza di scavare instancabilmente nella tristezza del mondo per trarne la bellezza o la conoscenza». Nell’attorcigliarsi di pensieri e fumo, il musicologo viennese ripensa per esempio al primo incontro fra loro due, a Istanbul, e ai suoi viaggi verso Est, soprattutto quelli con lei.

Nel romanzo fanno la loro apparizione anche le distruzioni e uccisioni dell’Isis. L’idea delle rovine non esclude purtroppo la realtà delle macerie. Torna in mente il grandioso romanzo La nube purpurea di Matthew P. Shiel (1901), dove il narratore è l’unico sopravvissuto a una catastrofe planetaria che uccide tutti gli esseri umani tranne lui. A un certo punto delle sue peregrinazioni per il mondo disabitato, gli prende un raptus e dà fuoco a tutte le grandi città dell’epoca. Ma, quando arriva alle porte di Costantinopoli, si ferma e la risparmia: «Sono già sei settimane che sono qui, e non ho bruciato niente: perché la città sembra supplicarmi di non farlo, è così bella».

I rimandi fra i mondi culturali mediorientale e occidentale sono continui, ma mai sotto forma di freddi elenchi eruditi: sono il terreno su cui camminano Franz e le conoscenze che danno una forma ai suoi ricordi, prendendone a loro volta la forma. Attraversano le pagine di Bussola, in apparizioni più o meno effimere, musicisti, poeti, dotti, scrittori, viaggiatori, archeologi, figure mitiche. La fugacità delle loro apparizioni non ci disturba, perché nella nebbia e nel fumo d’oppio del romanzo siamo volentieri complici dell’inaffidabilità delle immagini che ci pare di scorgere. Énard gioca con le ambiguità dello sguardo occidentale sull’Oriente tenendole a bada senza rimuoverle mai dalla scena, perché anche quelle, che siano reali o fittizie, dannose o meno dannose, concorrono pur sempre a dare forma al nostro sguardo verso Est. Franz racconta le sue esperienze orientali a volte con fare disilluso e altre volte come fossero vere e proprie scoperte geografiche. Come scrisse Leonardo Olschki, studioso costretto all’esilio per sfuggire al nazismo, nell’affascinante Storia letteraria delle scoperte geografiche (1937), «le scoperte geografiche si verificano quando la coscienza umana si rende ragione dell’esperienza, fissandosi nella parola che la perpetua».

Lo scorrere dei tanti episodi storici, opere artistiche e personaggi di Bussola ricordano l’esperienza di lettura di Danubio di Claudio Magris, libro peraltro citato e discusso nel testo: di fronte a un tale fiume di fatti storici e artistici, una delle possibili “strategie” di lettura è farsi avviluppare da quella sorta di nebbia storica. Mentre Danubio andava gustato fra la nebbia che di mattina presto si alza da quel fiume, Bussola va letto idealmente persi in quella nube di fumo d’oppio evocata nell’incipit. Bussola ci permette, come succede a Sarah e altri personaggi, di «immergerci in territori onirici dove sfuggire a noi stessi».

Ma, più che a Danubio, Bussola ci riporta a Zona, capolavoro di Mathias Énard. I punti di contatto non mancano, a partire dalla struttura: un tempo limitato – in Zona un viaggio in treno da Milano a Roma, in Boussole una notte insonne di malattia – e pensieri e ricordi che si addensano in quelle ore, impastati dall’alterazione mentale dei protagonisti. Troppo sbrigativo e fuorviante pensare che Bussola, probabilmente allo stesso tempo il più lirico dei suoi romanzi, sia un Zona in versione orientale. Più il racconto della nottata di Franz Ritter avanza, più gli effetti della malattia, delle medicine e del fumo si fanno sentire, in pagine oniriche dove emerge la dimensione inconscia della proiezione orientalista, intrecciandosi sempre più stretta alla proiezione biografica del narratore. Sarah, il suo amore, appare talvolta insondabile come il senso della spinta verso un Est inarrivabile, verso quell’idea di Oriente che la dice più lunga sull’osservatore occidentale che sull’Oriente stesso, fuor d’ogni orientalismo esotizzante. Le sole rovine che esercitano in noi quel fascino paiono essere quelle che il tempo ci ha dato già così come le abbiamo trovate. Invece, assistere alla creazione innaturale di altre rovine diverse da quelle su cui poggiamo il nostro sguardo romantico ci è insopportabile: veneriamo il pennello di Caspar David Friedrich quando dipinge rovine o il pennino di Robert Wood e James Dawkins quando nel XVIII secolo disegnano le vestigia di Palmira, ma le immagini delle ruspe dell’Isis ci oltraggiano.

Sia Franz che Sarah, di cui leggiamo alcune lettere, nutrono il ricordo di una notte trascorsa insieme sotto il cielo delle rovine di Palmira. Nell’atmosfera di decadenza romantica a cui ci fanno pensare quelle rovine s’intromette la malinconia della coscienza della distruzione in corso. L’Isis è citato più volte, come se il progetto dietro Bussola non potesse più permettersi d’ignorarlo. È recente la notizia delle incursioni di droni a Palmira che università di Harvard e Oxford hanno preparato per scattare innumerevoli fotografie che permettano poi, nel caso la peggiore delle ipotesi diventasse realtà, di poter rintracciare e ricollocare le rovine. Si ha quasi l’impressione che Bussola sia uno di quei droni, il più discreto. Attraverso la sua capacità di esplorazione dei cunicoli dell’umanità, il romanzo ci costringe a prendere finalmente sul serio e fare i conti con un sentimento provato ultimamente: l’oltraggio, a volte vero e proprio sentimento di rivolta, di fronte alle immagini delle distruzioni nei musei e nelle rovine archeologiche perpetrate dall’Isis. Di fronte alle decapitazioni si è sdegnati, ma è di fronte alle distruzioni delle opere d’arte che è come se molti di noi si fossero sentiti pronti – esageriamo – a imbracciare il fucile. Un paradosso moralmente inquietante che Bussola aiuta a esplorare: «Non siamo esseri illuminati, purtroppo. Cogliamo a tratti la differenza, l’altro, ci scorgiamo a vicenda mentre ci affanniamo nelle nostre titubanze, nelle nostre difficoltà e nei nostri errori».

Ma in Bussola non c’è solo Palmira: Franz Ritter, Sarah e i loro compagni di viaggio incontrano le truppe di Assad, passano dalle parti di Homs, Damasco, Aleppo e altri luoghi spesso tristemente presenti nelle cronache di guerra di questi tempi. Quello che sta succedendo da quelle parti rende complesso il rapporto temporale con la narrazione di Énard, che, a pubblicare un libro così più o meno volontariamente attuale, è stato letterariamente e politicamente coraggioso. Si vorrebbe poter leggere di quei fatti di guerra in Bussola come di un brutto ricordo del passato, dello sbarco in Normandia o delle Guerre puniche, ma basta interrompere la lettura e aprire un sito d’informazione che tutto si complica di nuovo, sempre. Rimane però quello che Franz, alla fine della sua nottata, chiama il «tiepido sole della speranza».

Colti dalle prime pagine i temi che ci accompagneranno lungo Boussole, c’è chi potrebbe star sempre lì pronto a criticare questo e quest’altro stereotipo sull’Oriente brandendo la propria copia di Orientalismo di Edward Said: «La discussione si era fatta accesa; Sarah aveva pronunciato il Grande Nome, il lupo era apparso in mezzo al gregge, nel deserto gelido; Edward Said. Era come invocare il diavolo in un convento di carmelitane; Bilger, spaventato all’idea di essere associato a un qualsivoglia orientalismo, partì con un’autocritica imbarazzata». Ma Énard anticipa queste possibili obiezioni già nelle prime pagine del romanzo, quando racconta della noiosa discussione della tesi di dottorato in Studi Orientali di Sarah: «C’era qualcosa di forte e di innovatore nelle sue quattrocento pagine sulle immagini e le rappresentazioni dell’Oriente, non-luoghi, utopie, fantasie ideologiche in cui si erano persi molti di coloro che avevano voluto frequentarli: i corpi degli artisti, dei poeti e dei viaggiatori che avevano tentato di esplorarli erano stati pian piano spinti verso la distruzione». Ed eccoci allora un po’ più vaccinati ai rischi rispetto ai quali Said e gli altri ci hanno messo in guardia, con tutte le problematicità del caso. Non è solo questione di prendere le dovute precauzioni rispetto alla dimensione politica della letteratura, ma anche una raccomandazione che Énard e il suo narratore sembrano dare a loro stessi prima di avviarsi nel racconto di quella notte fra Vienna e Oriente: «I corpi degli artisti, poeti e viaggiatori che avevano tentato di esplorarli erano spinti passo a passo verso la distruzione; l’illusione erodeva l’anima nella solitudine; ciò che avevamo chiamato a lungo follia, malinconia e depressione era spesso il risultato di un attrito, di una perdita di sé nella creazione, al contatto con l’alterità».

Il libro non è solamente vigile sui lati oscuri dell’orientalismo: li problematizza anche, fino a esplicitare una dimensione di studio critico di quella tendenza. Bussola esprime infatti uno sguardo deciso su Said e gli altri studiosi postcoloniali più noti: per Franz, il narratore di Énard, la loro critica all’orientalismo diventa loro malgrado lo strumento più sottile a disposizione del progetto di dominazione coloniale, perché il compimento della dominazione stava proprio nel riconoscimento della fessura ontologica che i loro lettori avevano ammesso fra un Occidente dominatore e un Oriente dominato. Fra gli episodi storici raccontati da Énard c’è la domanda che venne rivolta allo scrittore Théophile Gautier, in partenza per Costantinopoli: «Come farete a parlare d’Oriente dopo che ci sarete andato?»

Bussola di Mathias Énard è, riprendendo alcune parole del narratore, «una boccata di oppio iraniano, una nuvola di ricordi, è una specie di oblio, per dimenticare la notte che avanza, la malattia che progredisce e la cecità che ci invade». Resta quel sole della speranza, che sarà sì tiepido, ma che è pur sempre acceso, e di questi tempi non è poco. Lo sa anche Énard, e la sua sobria ma commossa dedica alla fine di Bussola ne è un indizio piccolo ma pieno di bellezza: «Al Cercle des orientalistes mélancoliques; ai miei amici di Parigi, di Damasco e di Teheran. Ai Siriani».

 

Nota: questo articolo, in forma leggermente diversa, era già stato pubblicato il 28 settembre 2015, in occasione dell’uscita francese del romanzo. Le traduzioni dei passi citati sono state sostituite con quelle di Yasmina Melaouah.

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