Il secondo tempo di un’etnografia dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa: salute mentale, Opg e cultura carceraria, attorno a storia e architettura dei dispositivi di contenzione.
Tramite la partizione fossile delle giornate, l’istituzione si appropria degli internati per imporre rispetto delle gerarchie e asservimento al sistema di ruoli. In OPG si vive per fasi:
La giornata… alle otto c’arapevano ‘e celle, c’arapevano all’aria. […] Poi ci facevano mangiare a mezzogiorno, e poi all’una un’altra volta in cella. Nel pomeriggio ci facevano fa’ ‘a passeggiata […] alle otto chiurevano ‘e celle e di nuovo alle otto di mattina le riaprivano. Accussì passava ‘a jurnata (Int. 6).
Alle otto ti svegliano, riaprono le celle e ti fanno la terapia. La colazione, la terapia, il passeggio. […] Poi la mattina: chi fa la telefonata, chi va dal dottore, chi viene chiamato dal dottore, chi c’ha i colloqui […]. Poi il pranzo. […] E poi dopo pranzo si tornava in cella: chi c’aveva il fornellino camping a gas con la macchinetta e ti fai il caffè, e chi passa davanti alla cella o sta alla cella a fianco e gli dai il caffè (Int. 5).
Alla certezza negativa del quotidiano fa da contraltare un’incertezza di progetto nel lungo periodo. A tale proposito si recuperi dall’approccio fenomenologico l’heideggeriano Essere-nel-mondo come Progetto-di-mondo. Secondo Heidegger l’Esserci, fondazione dell’essere umano costruita sulla relazionalità del suffisso -ci, si estrinseca autenticamente solo nella progettualità. Su tale tratto dell’Esserci ha ragionato anche la psichiatria a indirizzo fenomenologico: il vissuto del malato di mente diverrebbe inautentico proprio per l’assenza, o per la frustrazione, della progettualità. L’assenza, gettando il soggetto “malato” nella frammentazione del vissuto temporale, nega lo sviluppo del sé in termini autentici. Il compito della relazione terapeutica dovrebbe allora insistere sulla dimensione temporale in termini di progettualità-di-mondo. Questo detto in raffazzonati termini metodologici.
In OPG, tale imperativo terapeutico è frustrato se è vero che lì si opera proprio tramite l’imposizione di un’incertezza di progetto. Chi è in OPG non può gestire da sé il ritorno nel tessuto comunitario: i tempi dell’internamento sono determinati non tanto dalla gravità del reato commesso, quanto da una sommatoria di elementi che va oltre. La detenzione è reiterata fin quando non intervengono elementi esterni su cui l’internato non ha alcuna discrezionalità. La vita in OPG è chiusura indeterminata. La pena non scade quando dovrebbe. La fuoriuscita, quando decisa, lo è dall’esterno.
Per aver rotto un telefono, per aver danneggiato un telefono alla stazione mi hanno fatto fare quattordici anni (Int. 7).
Io sto dentro all’OPG da oltre ventitré, ventiquattro anni. Mi dovevo fare solo cinque anni. E vedevano che mi muovevo, e mi mettevano sempre stretto. Ho fatto ventiquattro, venticinque anni. Per il motivo che avette ‘na lite in famiglia e ce dette ‘na curtellata a fratemo e una a sorema. Però nun so’ morti (Int. 6).
Dovevo farmi, secondo la condanna, mesi dieci della reclusione e mesi sei, e non meno, di misure di sicurezza. Che divennero mesi diciotto […] di reclusione presso il carcere di *** e quasi anni quattro negli OPG (Int. 4).
Là non è come il carcere. In carcere sta scritto il fine pena, tu quel giorno devi uscire. Invece, in OPG, una volta che sei entrato sta scritto: fine pena mai. O tieni gli affidamenti familiari, oppure niente. Quindi io sono stato pure fortunato. Perché ci stanno gente là dentro che ‘ste cose [i PTRI] non sono riusciti ad averle. Gente che si doveva fare cinque anni e si è fatta vent’anni, trent’anni (Int. 3).
È solo da fuori che subentrano le istanze di progetto e che è possibile porre su un bivio la vita degli internati grazie al miraggio della fuoriuscita. Senza misure che sottraggano dall’ambiente dell’OPG, le difficoltà sono insormontabili e la reiterazione della detenzione spesso causa un rifiuto del mondo esterno. Sono infatti numerosi coloro che si adeguano alla vita internata al punto da non essere più in grado di abbandonarla. Incertezza nella progressione finale, ritardo e imprecisione dei termini di detenzione e/o “rieducazione”:
Sai che cos’è che non va? I ritardi che fanno negli OPG. I ritardi che fanno quando devi uscire dall’OPG. Perché tu devi essere, come si dice, fidato, affidato, cioè devi andare in affidamento esternamente, no? E per questo ti fanno fare anni in più di OPG […]. Perché non c’è nessuno che ti prende. […] Quando scade la pena dovrebbero fare di tutto il possibile per mandarti via. Invece non succede questo. […] Per dirla proprio spicciola e breve, è come una fogna, che scendi dentro e poi non riesci a uscire più (Int. 2).
Una volta fuori, la vita nelle comunità di recupero o negli appartamenti residenziali è descritta con tinte apparentemente più vivaci. Ma vedremo che anche in questo ganglio si nasconde, rendendosi comunque palese, il dettato delle stesse logiche istituzionali che regolano la vita interna in OPG. Ed è su questo tema che, in ragione delle recenti formalizzazioni legislative che sanciscono la definitiva chiusura degli OPG, bisogna attualmente ragionare per evitare che la logica istituzionale sopravviva anche dopo il raggiungimento dello scopo. Nel passaggio dal regime d’internamento a quello “di recupero”, il concreto rischio è che certi provvedimenti non facciano altro che riprodurre sotto mentite spoglie le logiche della normalizzazione che di per sé strutturano il potere nello specifico caso delle sue varianti amministrative e psichiatriche. Una sostanziale indolenza imposta nella fase di reintroduzione in società, cioè nell’accoglienza in strutture di recupero come comunità e case famiglia, si nota soprattutto in chi è stato affidato a strutture esclusivamente residenziali.
Qui, dovrei usare cento parole, cento aggettivi… bene, benissimo. Stiamo in un ventre di vacca. Un ventre di vacca. Solo che a volte siamo un po’ apatici nel fare le cose (Int. 7).
Qua le giornate sono quasi sempre le stesse cose. Alle volte si esce e se va a piglia’ ‘o gelato, con gli operatori […] ogni tanto, tutti insieme. […] Queste giornate qua funzionano così. Te vai a fa’ ‘na camminata, vai ‘o bar a te piglia’ ‘o cafè, te vaje a compra’ ‘e sigarette… veniamo qua, aspetti che si fa mezzogiorno, che si mangia. Poi si fa ‘a controra un paio d’ore, due o tre ore si dorme. E dopo stai qua, o andiamo al bar. E accussì passa ‘o tiempo (Int. 6).
Uno schema temporale di partizione del quotidiano simile a quello dell’OPG, con la differenza che il sistema di divisioni gerarchiche modifica i vettori della sua funzione di controllo istituzionale. L’apatia descritta riproduce inoltre un’infantilizzazione dell’ospite simile a quella costitutiva del rapporto medico-paziente, con il relativo squilibrio nelle dotazioni di potere. In questi casi la “riabilitazione” si definisce come adesione passiva alle regole della casa o della struttura ospitante, nulla più: l’imperativo della normalizzazione resta invariato.
Gli ospiti di cooperative agricole, invece, parlano in altri termini della loro esperienza di passaggio. Si riferiscono non solo a dinamiche interne all’ambiente residenziale (lavorativo) ma toccano anche riferimenti esterni. Non vi è solo un mero rivolgimento alla piattaforma del recupero e dell’adesione alle regole della casa: si guarda a mosaici più ampi, generali, dei quali il piccolo aggregato comunitario di passaggio è un tassello. Il rispetto del ruolo e l’adeguamento imposto dal sistema posizionale cui sottostà il convivere secondo le trame del potere si riproducono tuttavia in altri modi. Il potere è dappertutto, anche quando ammansisce le “fiere” e frustra gli “agitati”. C’è comunque chi rivendica l’appartenenza del lavoro suo e della sua cooperativa al più ampio sistema economico e di scambi commerciali.
Abbiamo messo tutto grano che già abbiamo venduto, andiamo meglio col grano perché si vende prima. Mo’ stiamo mettendo il foraggio, quello per le bufale, e sicuramente si venderà perché qui di allevamenti ce ne sono tanti […]. Le viti sono tutte secche e non c’è niente da recuperare. Tagliamo l’erba che quest’anno è cresciuta e si farà lo stesso una piantagione di vigneto, però, al contrario di quello che c’era prima, […] era tutto vigneto anche vicino a noi, si faceva la Vecchia Romagna, si portava l’uva a Caserta, invece adesso si fa a Bologna mi sembra (Int. 2).
Mo’ questo mese qui mettiamo i pomodori di buona qualità […]. Non i San Marzano. I San Marzano no, non sono troppo boni. Perché l’anno scorso ci s’è trovati che sono usciti nel mese di luglio e agosto. Quando escono in questi mesi qui, i pomodori, chi te li compra? Le famiglie no. E i pomodori allora si spaccano, che non li cogli. Li lasci una settimana, due settimane, venti giorni… non se po’ vede’, no? Nessuno se li compra (Int. 1).
Qua c’è solo da lavorare. Lavorano tutti. Chi non vuole lavorare non ci viene, non ci può restare. Qua è proprio una cooperativa lavorativa. È tutto un reinserimento lavorativo, si passa tutta una fase lavorativa. Qua se non vuoi lavorare che ci stai a fare? Devi andare solo in una casa famiglia dove non ti fanno lavorare (Int. 3).
Un nuovo afflato d’ergoterapia, dunque?
Ma il potere lavora anche perché emerga, nella rappresentazione che gli internati hanno di sé e del proprio mondo, una tematizzazione che giustifichi il loro stato. Cosa emerge dalle biografie istituzionali? Quale donazione di senso? Naturalmente, un tema che viene fuori con forza è quello della colpa. Questo dato della malattia, quando associato con l’esperienza di chiusura della sofferenza e connesso con la responsabilità giuridica penale, genera una tematizzazione che si situa nell’immediato mondo della vita del soggetto. La colpa esperita nello stato patologico e nel conseguente atto criminoso che ha dato avvio amministrativo alla filiera d’esclusione istituzionale sta nell’immediatezza delle connessioni relazionali del soggetto o nella logica costruttivista del discorso psichiatrico che rende patogenetiche alcune dinamiche societarie. È questa la posizione di un intervistato che, senza far cenno alla sofferenza, definisce la sua esperienza mescolando l’arbitrio della giurisprudenza e le malpracties psichiatriche.
E non avere, soprattutto, da parte psichiatrica e da parte dell’amministrazione, una promiscuità tra malati di gravi condizioni […] e malati di una condizione mentale così e così e malati che magari sono in osservazione oppure persone sane di mente che non dovrebbero stare con queste persone qui. Io non so come è accaduto, probabilmente sono stato saldo di nervi, ho avuto sempre la fortuna di non ascoltare sempre troppo, quando serve, il mondo esterno. Altrimenti mi danneggiavo, penso (Int. 4).
Se questa testimonianza rende necessario il ricorso ai teorici della de-istituzionalizzazione e a Ivan Illich, cosa diversa sia detta per le altre, racconti meno “strutturali” e più centrati sull’immediato mondo della vita e l’ambiente familiare. Gli altri intervistati, infatti, quando c’è da definire un inizio della fase biografica discendente (malattia e internamento), si riferiscono a un evento avvenuto in “casa”, coniugando il tema dell’ambiente domestico con quello della colpa. Tutto può cominciare con la morte dei un genitore, per esempio:
Mia madre è morta a cinquantaquattro anni. M’ha sconvolto. Era bellissima mia madre […] sembrava Marilyn Monroe, una Madonna. […] Donna leader, donna manager, direttrice d’azienda, industriale, autodidatta in economia e commercio… La sua malattia la rifletteva su di me, la sua malattia. Io venivo curato. Terapia, terapia. Ma la colpa non era sua, io non le darò mai la colpa. […] Non le ho dato mai colpa. La colpa era degli altri (Int. 7).
Altri racconti si situano nell’ambiente familiare, descrivendo eventi che hanno dato avvio, tramite il crimine, alla filiera d’esclusione istituzionale:
Avette ‘na lite in famiglia e ce dette ‘na curtellata a fratemo e sorema. Però nun so’ morti. Fratemo me spaccaje ‘a capa […]. Ho sbagliato perché ho sbagliato. Ma m’hanno fatto sbaglia’ loro. Perché se loro non sbagliavano manco io facevo quello che ho fatto (Int. 6).
Quando morì mio padre, mio fratello e mio cognato mi hanno rubato dei soldi, [… una] sera ho travato mio cognato che mi ha detto: “I soldi tuoi me li sono presi io, e non ti do nemmeno una lira. Anzi, se non te ne vai, ti sparo pure!”. [… Così] presi il porto d’armi. [… Una] sera sono andato da lui, c’avevo pure io la pistola. Ho parlato un’altra volta dei soldi e lui ha continuato a minacciarmi con la pistola e così ho sparato un colpo solo, per difendermi. Purtroppo, un colpo solo, e mio cognato è morto (Int. 3).
C’ho avuto i traumi adolescenziali, poi il collegio, poi l’ubicazione abusiva di mio padre e mia madre di un posto nel quale poter sopravvivere dal freddo e dalle altre cose. Senza luce, senza telefono, senza gas e senza le altre cose. Mia madre sempre senza lavoro, […] poi ho litigato con lei. […] Da lì passiamo alla mia malattia mentale che c’ho da quando c’avevo otto anni. E via dicendo lo scorrimento del quartiere che dà l’habitat al ragazzo e lo dà forte. […] E poi c’ho avuto gli X-files strani, cose inspiegabili, impossibili che succedono nella vita, […] non c’avevo nessuno che mi seguiva. Non ero nella psichiatria, capisci? Non ero timbrato come malato di mente. Ho avuto una rissa e poi da lì sono stato timbrato come malato psichiatrico, no? E mi ha cambiato la mia vita. […] Poi sono tornato a casa perché mia madre ha preso la casa. […] Io non volevo neanche rientrare. […] Quindi sono stato condannato per maltrattamenti in famiglia, capisci? Cioè i traumi passati, capisci? Voglio dire: tutto quello che ho passato nel precedente, e io solo sto condannato per maltrattamenti in famiglia! E tutto quello che mi hanno fatto nel passato? Quella vita brutale d’inferno? Chi me li paga quei danni psicologici e fisici? Chi me li paga a me? Non lo sai che ho passato! (Int. 5).
Quest’ultimo racconto descrive la figura tipico-ideale del protagonista di una carriera esemplare d’esclusione. Assomma diversi elementi riconducibili alla dimensione ambientale (famiglia e quartiere), a quella clinico-psicopatologica (malattia, allucinazioni e X-files) e istituzionale (etichettamento). Nel racconto ci sono anche un periodo di vita da homeless lungo i binari di una stazione e diversi TSO. Una biografia importante poiché approfondisce ciò che negli studi sulle narrazioni di malattia viene definito, a partire da Bury, frattura biografica: la malattia cronica segna un passaggio cruciale nel percorso biografico di chi la esperisce, definendo uno stile di vita e comportamentale incentrato su dinamiche di aggiustamento rispetto all’esperienza di malattia. Bury, tuttavia, parlava di malati di artrosi[1], altri hanno utilizzato lo stesso schema per i malati di cancro[2], altri ancora per i dializzati[3].
Questo concetto può essere adeguato alla malattia mentale? Cardano[4] sottolinea che essa possiede uno statuto del tutto particolare e irriducibile; a differenza delle malattie definite croniche, ha una particolarità: non può essere dichiarata inguaribile, dunque non può essere adeguata alla definizione di Bury, pur trattenendo tutto il portato semantico della frattura. Nei nostri casi, inoltre, come il lungo frammento sopra riportato testimonia, non avviene una sola frattura: ve ne sono diverse che si sovrappongono, amplificano e alleano. Si potrebbe allora parlare di frammentazione biografica o biografie frammentate. La tematizzazione degli eventi, infatti, porta i nostri soggetti a definire le diverse fasi di vita con stacchi netti, salti biografici, inconciliabili crepacci. La malattia mentale, nel suo intrecciarsi in un percorso d’esclusione, si diluisce, acquisendo sostanzialità fluida per poi solidificarsi in fratture compatte.
La carriera d’esclusione è così una corda in cui diversi filamenti s’intrecciano tra loro. In tale quadro, la tematizzazione della malattia avviene tramite lo spostamento dell’origine della malattia su un alter trasformatosi in generico alius («la colpa era degli altri», dice un intervistato). Il grado di astrazione di quest’alterità negativa si incarna, scorrendo il narrato biografico, nel mondo della vita più immediato del soggetto, nella famiglia, e si sovrappone all’esperienza d’internamento estraniando e tematizzando al di fori del sé il sentimento della colpa. Accostando quanto avviene sia nella malattia mentale che nelle carriere d’esclusione, è possibile riferirsi alle esperienze degli intervistati con la cosiddetta esperienza di stato d’assedio [Bedrohterlebnis], un Erlebnis schizofrenico caratterizzato «da una sorta di arresto, di sospensione, di attesa spersonalizzata»[5]. Tale stato, trovando corrispondenza tra le fattispecie morbose e le dinamiche di esclusione istituzionale, amplifica entrambi i versanti generalizzando l’alterità negativa a partire dall’ambiente prossimo (di cui la famiglia è solo il primo componente) fino a raggiungere ampie astrazioni sociali grazie al simulacro della colpa, tematizzazione principale. La detenzione indeterminata in OPG completa la sceneggiatura della tragedia.
La questione della frattura biografica si può così riformulare proponendo quanto sostenuto da Cardano con il recupero il concetto di catena delle avversità di Pearlin e Schieman: un evento logorante rende più suscettibili sia a eventi della medesima natura […] sia ad altri eventi negativi. Inverando con ciò l’adagio popolare per il quale «piove sempre sul bagnato». [… Per questo motivo,] in ragione delle risorse di cui dispongono, le persone affrontano lo stress che accompagna questi eventi con esiti diversi, più felici – ceteris paribus – per coloro che dispongono di maggior potere, meno per gli altri[6].
Come è stato per le motivazioni che hanno influito sulla reiterazione dell’internamento in OPG, anche nel decorso della malattia e nello scorrere della sofferenza, nonché nella carriera d’esclusione dei soggetti intervistati, lo squilibrio nelle relazioni di potere amplifica e fissa le ragioni sintomatologiche e patologiche nel vissuto sociale e nel percorso biografico, ponendo i soggetti, fin quando non possono usufruire di misure decise dall’esterno, in una biografia assediata, frammentata e tematizzata dalla colpa generalizzata, che talvolta sopravvive invitta anche dopo l’OPG.
Tuttavia, c’è da dire che anche queste ultime note, scritte dietro il riparo di confortanti mura domestiche e di un lessico sociologico altrettanto confortevole, dimostrano in sé la sopravvivenza di vettori di potere che provengono dalla stessa scaturigine di quelli più “classici” di cui prima si è discusso. Che siano dunque prese come tali.
Note
[1] Bury M., Chronic Illness as Biographical Disruption, in «Sociology of Health and Illness», Vol. 4, n° 2, 1982.
[2] Marzano M. e Romano V., «Io voglio essere come prima…» Cronicità e normalità nei racconti dei malati di cancro, in «Rassegna Italiana di Sociologia», n. 1, 2007.
[3] Eugeni E., Vivere da malato: sorveglianza e resistenza, in «Rassegna italiana di sociologia», n° 1, 2009.
[4] Cardano M., «E poi cominciai a sentire le voci…», in «Rassegna italiana di sociologia», n° 1, 2007.
[5] Piro S., Trattato della ricerca diadromico-trasformazionale, La città del sole, Napoli, 2005, p. 361.
[6] Cardano M., Disuguaglianze sociali di salute, in «Polis» n° 1, 2008, pp. 139-140.