Sul convegno Ri-conoscere le mafie. Esperienze e prospettive a confronto.
Al convegno (Bologna, febbraio 2014) una trentina di relatrici e relatori hanno parlato di mobilità dei gruppi mafiosi, dei rapporti tra mafia e politica, dalla rappresentazione culturale delle mafie, della violenza mafiosa.
Una parte degli interventi è stata recentemente pubblicata dall’editore il Mulino, altri saggi presentati a Bologna sono stati raccolti nell’ultimo numero della rivista Polis. A curare questi lavori è stato Marco Santoro, sociologo dell’Università di Bologna. Di seguito alcuni estratti delle sue introduzioni ai due volumi.
“Sono circa quattrocentocinquanta i libri sulla mafia pubblicati in Italia dagli inizi del nuovo millennio a oggi: quattrocentocinquanta libri in quindici anni, una media di trenta volumi all’anno, con un’impennata nel 2007 e un picco di sessanta nel 2010. […] dal libro di confessioni all’inchiesta giornalistica, dal saggio antropologico alla monografia giuridica, dal pamphlet politico all’analisi economica. Considerando che il quindicennio in questione comprende uno dei periodi più difficili per il settore editoriale (e non solo quello), una presenza così forte risulta ancora più sorprendente […]. Paradossale sorte per un fenomeno che si vorrebbe occulto e che della segretezza fa una regola di sopravvivenza […].
Se poi dal piano del mercato editoriale passiamo a quello del significato sociale di questi dati, possiamo dire che la mafia è uno dei grandi temi di cui si alimenta, non solo nel nostro paese ma nel nostro paese più che in altri, quella che Jürgen Habermas ha denominato «sfera pubblica» e Jeffrey Alexander chiama «sfera civile» […]. Se è infatti vero che la mafia […] sembra costituire della sfera pubblica e civile l’antitesi perfetta, la riflessione sulla mafia, la denuncia della mafia, la mobilitazione contro la mafia ne sembrerebbero rappresentare viceversa alcuni dei suoi momenti più forti, vitali e nobili. La lettura (e ancora prima la scrittura) di libri sulla mafia non è certo l’unico modo né il più evidente per partecipare alla vita pubblica e civica, ma è comunque un modo – che tra l’altro sostiene e spesso accompagna altri modi anche più visibili e collettivi, come la discussione pubblica, la lezione, la conferenza, la manifestazione, il festival. Si può anzi supporre che i libri sulla mafia pubblicati in così gran copia dall’editoria nazionale tengano viva la percezione che il fenomeno non solo esiste, ma persiste e non va sottovalutato. Al contempo, non può trascurarsi l’effetto paradossalmente deresponsabilizzante che proprio queste operazioni di scrittura e lettura possono produrre: come se bastasse scrivere di mafia e leggere sulla mafia per compiere il proprio impegno civile di militanza antimafia, per sentirsi apposto con la coscienza, per percepirsi come partecipi di quella «cultura della legalità» che negli ultimi anni è stata innalzata allo status di antidoto all’illegalità mafiosa, per riconoscersi come cittadini a pieno titolo di uno Stato che si presenta come antitetico – nei suoi principi, nei suoi valori, nelle sue procedure formali – a quella mafia con cui tuttavia esso sembra non potersi permettere di non relazionarsi, quasi avesse stretto con essa un patto (scellerato sin che si vuole, ma comunque effettivo ed efficace, e soprattutto persistente) sin dalla sua fondazione (p. 306-7).[1]
“Vorrei […] avanzare una spiegazione del dato più macroscopico, cioè la proliferazione della bibliografia sulla mafia cui abbiamo assistito negli ultimi quarant’anni e dalla quale non può prescindere qualunque ragionamento su quella stessa letteratura […]: è l’effetto di turbamento che la «mafia» – o meglio ciò che con questo nome si presta ad essere etichettato in virtù di presunte analogie o connessioni storiche con l’originaria «mafia siciliana», al di là dei termini con cui localmente potrebbe denotarsi (yakuza, camorra, ’ndrangheta etc.) – in quanto oggetto di preoccupazione politico-civile e insieme puzzle intellettuale ha prodotto in un secolo e mezzo sulla identità e sulla coscienza sociale degli italiani e ben presto non solo degli italiani, da un lato, e sulla produzione della conoscenza del mondo sociale, dall’altro. Questo effetto è cresciuto esponenzialmente negli ultimi decenni anche in virtù dei meccanismi segnalati, ed è a mio avviso destinato a crescere in coincidenza con la crescita della crisi dei modelli politici, economici e culturali con cui si è storicamente identificata la «modernità» (europea, occidentale, capitalista, statuale): quella stessa modernità alle cui categorie costitutive la fenomenologia mafiosa sfugge con una pervicacia tale da rendere ormai non più credibili tesi come quelle del ritardo culturale o del residuo. La mafia, le mafie, sono tra le più luminose testimonianze delle tante «promesse non mantenute» della modernità, ovvero della impossibilità di definire un unico e universale modello di sviluppo storico di cui l’Occidente «bianco», o meglio alcune parti dell’Occidente (quelle a dominanza weberiamente protestante e preferibilmente «settentrionali») sarebbero portatori per eccellenza. Per questo loro rappresentare in forma esemplare lo scarto – o meglio il sistema di scarti perché il quadro è complesso e non si presta a riduzioni lineari e monodimensionali – tra il modello astratto e la contingenza storica e locale, tra l’ideale normativo e la realtà effettuale, le mafie sono e presumibilmente resteranno ancora a lungo parte integrante dell’orizzonte concettuale e cognitivo oltre che emozionale e affettivo del XXI secolo. Si tratta […] di un successo eccezionale e imprevedibile per un fenomeno originariamente circoscritto ad alcune province di un’isola del Mediterraneo (la Sicilia) e a una metropoli di antico regime, quale Napoli ancora era nella metà dell’800” (p. 27).[2]
“Con la loro collocazione mediana tra Nord e Sud del mondo, le terre che hanno prodotto originariamente quella che chiamiamo «mafia» acquistano un valore epistemologico cruciale in questo ripensamento dei fondamenti della teoria sociale, e della modernità medesima, in termini più globali e meno provinciali. Ma per misurare questo effetto, e stabilire quali conseguenze l’identificazione di un complesso fenomenologico multiforme e dai confini mobili come «mafia» ha avuto, sta avendo e avrà sulla coscienza sociale e sulla consapevolezza anche sociologica, occorrerebbero indagini ad hoc di sociologia della conoscenza e delle idee: un terreno su cui gli studiosi della mafia si sono mossi sinora in modo molto impressionistico, quasi dimenticandosi del fatto che questa è una branca legittima della loro disciplina, legittima e per nulla secondaria” (p. 28).
“[…] chiunque si appresti a un simile compito non potrà fare a meno di tematizzare […] quello che Bourdieu […] ha chiamato il «pensiero di Stato», il sistema di categorie attraverso cui pensiamo lo Stato pensando noi stessi in quanto parti dello Stato e che potrebbe ampliarsi sino a comprendere quello che potremmo invece chiamare il «pensiero della società civile».
È questo doppio pensiero, parzialmente sovrapposto ma a volte in reciproca tensione, che sta dietro, al fondo, ai fianchi di qualunque discorso sulla mafia, anche di quello che si vuole e si dice scientifico e «oggettivo», dai tempi degli studi pionieristici di Franchetti, Alongi e Mosca, tutti coinvolti in prima persona nella macchina dello Stato, tutti impegnati nella costruzione della nuova società politica e civile nazionale (colonie incluse), tutti portatori e sostenitori di un progetto politico-sociale, di una specifica visione del bene civile e pubblico, naturalmente pensata e venduta come universale nonostante i fortissimi pregiudizi di classe, di genere e di «razza» che la sostenevano” (p. 29).
“[Eppure] non ci sono buone ragioni per assumere in termini analitici la corrispondenza, o addirittura equivalenza, tra stato e politica ovvero tra stato e «pubblico». Questa distinzione è ciò che istituisce lo Stato con il suo pensiero (di stato) ma è ben lontana dal catturare ed esaurire il sistema di relazioni che intercorrono nella pratica tra gli agenti che costituiscono il campo politico e attraverso cui si distribuiscono poteri e sovranità. Il campo della politica è sempre stato più complesso e articolato di quanto il modello giuridico e ideologico dello Stato – in particolare dello Stato liberale e costituzionale ottocentesco – non riconosca, e la mafia costituisce […] una sfida a quel modello, non solo in virtù della sua pretesa di condividere l’uso o la minaccia d’uso della violenza ma anche, e forse ancor più, per la sua compartecipazione alla gestione dell’ordine pubblico e per le sue molte collusioni e convergenze con gli apparati pubblici e pezzi di Stato, più o meno deviati. Il concetto di «stato» fatto proprio dagli studi sulla mafia e che fonda le idee di mafia con cui si conduce la ricerca si segnala invero per una ipersemplificazione che non fa i conti con la vasta letteratura accumulata in teoria politica e in filosofia – ma anche in parte della sociologia e della ricerca storica – su quella che Foucault ha chiamata la «microfisica del potere» e che rimanda alla messa in discussione del modello classico, giuridico, dello Stato come detentore della sovranità e monopolista del «politico» (p. 30).
“La letteratura sulla mafia, la letteratura sociologica non meno di altre letterature, è da sempre fortemente connotata in termini normativi, anche più di quanto i suoi autori siano disposti ad ammettere. L’orizzonte epistemologico in cui ci si muove è tipicamente definito dall’accoglimento acritico dell’immagine dello stato (di diritto) come regno della morale universale e del bene pubblico/interesse generale: una immagine che proprio lo studio socio-antropologico dello stato (ma anche la storiografia dello Stato) hanno da tempo svelato nel suo fondamento mitico […]. L’analista farebbe meglio a cercare di studiare la mafia per quello che è, nella sua costituzione interna (come direbbe Clifford Geertz «dal punto di vista dei nativi»), senza surrettiziamente proiettare su di essa ideali eticamente condivisibili ma non per questo necessariamente produttivi dal punto di vista analitico e cognitivo. Paradossalmente, chi più si è spinto nella direzione di uno sguardo «avalutativo» sulla mafia – il che non vuol dire amorale e tanto meno immorale – è forse non uno studioso di professione ma un magistrato, di cui vorrei qui ricordare almeno questo passaggio:
Gli uomini d’onore non sono né diabolici né schizofrenici. Non ucciderebbero padre e madre per qualche grammo di eroina. Sono uomini come noi. La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia[3].
Come noi: razionali come noi, ma anche capaci di emozioni, di sentimenti, come noi. Mossi da interessi e da valori o ideali, come noi. Il che non vuol dire uguali a noi – e questo non solo perché, come osservava anche Geertz, la natura umana si dà sempre al plurale, ma per la semplice ragione che loro sono «mafiosi», e noi no. C’è una linea di confine che per quanto confusa e indistinta non può e non deve essere elusa. E questo perché è nella natura stessa del fenomeno tracciare confini di ciò che è «nostro» (ovvero «loro») e ciò che – ancora? – non lo è. I mafiosi sanno benissimo dove finisce la mafia e inizia lo Stato – più di quanto non lo sappiano molti rappresentanti di quest’ultimo. Ma cosa significa essere mafiosi? A quali modelli di uomo (e di donna, ovvero di umanità) fanno riferimento i «mafiosi»? Come organizzano la loro esperienza? Come interpretano il loro mondo, che è poi anche (ma solo in parte) il nostro mondo? E come circolano questi modelli nello spazio? Attraverso quali canali e reti? Come si trasformano al confronto con altri modelli? E soprattutto: quanto sono complementari, quanto sono integrabili questi modelli con altri storicamente esistenti e circolanti nello spazio, più o meno radicati, più o meno «resistenti»? Ecco alcuni degli interrogativi che varrebbe la pena considerare facendo ricerca sulla mafia, al singolare come al plurale” (pp. 31-2).
Note
[1] Da M. Santoro, «Introduzione», in Polis, n. 3, dicembre 2015, pp. 305-316.
[2] Da ora gli estratti provengono da M. Santoro, «Introduzione», in Id., Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, Bologna, il Mulino, pp. 7-33.
[3] vedi G. Falcone, Cose di cosa nostra, con M. Padovani, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 82-3.