La costruzione della mafia come configurazione simbolica del male
La mafia delle origini nell’immaginario politico-letterario degli uomini del tempo. Francesco Benigno rievoca l’immagine della setta tenebrosa e malefica per ricordarci che ogni discorso sui criminali è nell’Ottocento un discorso sul popolo e sul suo potenziale eversivo.
Queste brevi note si muovono nel solco della riflessione inaugurata dal sociologo Jeffrey C. Alexander, e che potremmo chiamare, con riferimento al titolo dell’edizione italiana di un suo libro, la costruzione del male.[1] Con questa espressione, forse un po’ arcana, ci si intende qui riferire ai codici che organizzano l’intelligibilità della vita collettiva e che sono continuamente riprodotti e modificati nelle pratiche dell’interazione sociale. Secondo Alexander questi codici hanno una struttura binaria, dispiegandosi tra sacro e profano, bene e male, amico e nemico, libertà e repressione. Si tratta di processi culturali di produzione di significato che rendono l’individuo non solo capace di orientarsi in quello che potremmo chiamare il «paesaggio culturale», ma che lo abilitano all’azione.
Le configurazioni simboliche tipizzate possiedono un inconfondibile colore locale che rende possibile la loro presa identitaria, e quindi la loro stessa esistenza e riproduzione; sono per così dire «imbevuti» di un’atmosfera spazio-temporale unica, che conferisce loro un «marchio di fabbrica», o un imprinting. E le tracce di questo radicamento si ritrovano anche quando, come sorta di navicelle spaziali culturali, esse sono odiernamente proiettate nell’immaginario collettivo globalizzato.
Veniamo dunque alla configurazione cui voglio qui accennare: la rappresentazione della cosiddetta mafia in un tempo definito, quello delle origini, vale a dire il ventennio 1860-1880.[2] Prima di tutto però occorre accennare al retroterra necessario di questa figura, vale a dire al tipo, simbolicamente connotato, della setta malefica e tenebrosa. È interessante come, in tempi recenti, vi sia stato un ritorno di attenzione (che potremmo qualificare di postmoderno) per essa: un filone che da Dan Brown a Umberto Eco[3] ha riportato all’attenzione il tema risalente della società segreta misteriosa e arcana, malvagia e sfuggente; e ciò dopo un periodo di relativo appannamento, (e pur con la luminosa eccezione del film Rosemary’s baby di Roman Polansky del 1968 – tratto dal romanzo di poco precedente – 1967 – di Ira Levin).[4] La figura della società segreta o della setta congiurata ha però costituito un tratto decisivo della cultura europea del Settecento e poi dell’Ottocento, essendo un tratto stilizzato che rende conto delle maniere con cui si è strutturata sia la nuova tecnologia del potere (la massoneria) sia la politica dell’opposizione all’assolutismo (l’universo settario cospirativo). Il Novecento ha per larga parte ereditato questa tradizione, in modi che non si possono riassumere qui neppure per accenno, ma è certo che quando ci si riferisce all’idea di setta, e anche all’idea di setta criminale, non si può non pensare a questa tradizione e al rutilante universo di immagini e simboli che essa ha trascinato e trascina con sé.
Tra le sette che popolano l’immaginario collettivo italiano (e poi, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, mondiale) la mafia è una delle più inquietanti e temibili: essa è infatti generalmente descritta come un’organizzazione potente, segreta e soprattutto pervasiva (si pensi all’immagine, poi anche televisiva, della «piovra»). Non è possibile in questa sede trattare delle varie teorie sulla natura della mafia e sull’evoluzione dell’atteggiamento della storiografia a riguardo, soprattutto a seguito della scoperta dell’esistenza dell’organizzazione denominata Cosa nostra da parte di Giovanni Falcone.[5] Il famoso interrogatorio di Tommaso Buscetta, trascritto da Falcone a mano nel luglio 1984, contiene quella descrizione di «Cosa nostra» divenuta poi di senso comune: una società segreta composta da «uomini d’onore» organizzati in «famiglie», che si dividono il territorio, e dotata di un’istituzione di coordinamento, la famosa «cupola» che si riunisce periodicamente per dirimere i conflitti. Al contempo Buscetta, in uno dei primi interrogatori, dismette il concetto tradizionale di mafia, come inadatto a cogliere la realtà vera delle cose, definendo il concetto tradizionale di mafia, con voluto distacco, come letteratura.[6]
La mafia delle origini come letteratura, dunque, secondo Buscetta. E in effetti, se ritorniamo a quel secondo Ottocento che vede le origini del fenomeno mafioso non si può non notare che, nella delineazione della setta segreta, misteriosa e terribile, di cui la mafia sarebbe incarnazione, il XIX secolo presenta un repertorio impressionante. Esso spazia dalla pubblicistica più direttamente politica, che si rivolge all’universo massonico e para-massonico, a quella più teorica, che riflette sui processi di politicizzazione indotti dalla rivoluzione francese (da De Maistre a Barruel) alla letteratura dei Misteri (da Sue a Balzac), dalle sue propaggini tarde (dal Paul Feval degli Habits noirs a Ponson du Terrail) alla nascita di un vero e proprio genere letterario (da Pierre Zaccone a Charles Williams Heckethorn) costituito dalla storia delle società segrete nell’evoluzione dell’umanità. Repertori settari che iniziano col mondo classico e attraverso miriadi di organizzazioni esoteriche come i Templari e la setta degli Assassini, passano ai Thugs e alle moderne sette politiche, dai Fenians ai Carbonari.
In breve, nel parlare di mafia delle origini dobbiamo tener presente che gli uomini dell’Ottocento vivevano immersi in un immaginario letterario o meglio politico-letterario che rappresentava quello che potremmo definire il loro orizzonte di comprensione: vale a dire quell’insieme di schemi di preconcetti e di nozioni che – come ci ha insegnato Walter Lippmann – permettono di riconoscere e quindi di «vedere» le cose, di dare senso alla realtà. Non si tratta naturalmente solo di un’esperienza libresca ma di un vai e vieni, una dialettica tra esperienza e nozioni ricevute, tra quello che oggi chiameremmo fiction e non-fiction in cui l’immaginario plasma e orienta la realtà, si confonde e si mischia con le pratiche giudiziarie e con quelle poliziesche, e ne è continuamente modificato.[7]
Ora se di questo orizzonte immaginario la setta malefica è una componente importante, e anzi decisiva, altrettanto lo è la delineazione dei membri delle «classi pericolose» come popolo. Vale a dire come un mondo sociale «altro» declinato, secondo l’impostazione romantica prevalente, come autonomo e cioè caratterizzato da stili di vita, regole di comportamento, tradizioni culturali e perfino una lingua (l’argot) sue proprie. In altre parole, la delineazione romantica degli strati criminali come popolo serve a definire un «altro da noi» sociale che è necessario per separare le classes labourieuses dalle classes dangereuses.[8] Mentre non deve sfuggire che ogni discorso sui criminali è nell’Ottocento un discorso sul popolo e sul suo potenziale eversivo. E che dunque anche il discorso sulla mafia delle origini è, in fondo, un discorso sul popolo siciliano e sulla sua terribilità sovversiva.
La mia proposta è dunque quella di reinserire lo studio della criminalità organizzata ottocentesca nel mondo che le è proprio: quello della politica ottocentesca, una politica sviluppatasi per decenni in forma eminentemente settaria; e quello della letteratura popolare dell’epoca, e in particolare della cosiddetta letteratura dei Misteri, che squaderna agli occhi del bon bourgeois le accattivanti brutture e le eccitanti intemperanze dei bassifondi popolari. Una visione di questo tipo, va da sé, punta a contestare l’idea che si possa costruire una tipizzazione astorica del mafioso, più o meno sempre uguale a sé stesso a dispetto del tempo.
Di fronte alle parole dell’allora ministro dell’interno Nicotera, che in parlamento invitava a considerare mafiosi, camorristi e malfattori come internazionalisti, e dunque alla continua confusione del politico e del criminale, gli analisti di oggi, storici e scienziati sociali, possono assumere due atteggiamenti distinti. Il primo, tradizionale, è quello di rifiutare tali affermazioni e considerarle l’effetto di processi di banale criminalizzazione, un portato di breve momento della retorica politica. In questa visione, la conoscenza del crimine (siamo qui alle soglie dell’imponente scientifizzazione del sapere criminologico prodotto a partire dall’apparizione de L’uomo delinquente di Lombroso) va distinta dalla sua utilizzazione politica, che è successiva e non ne intacca la tensione euristica, lo sviluppo dei processi conoscitivi, concepiti come distaccati dalle prassi giudiziarie e poliziesche.
Il secondo atteggiamento analitico è quello che ho cercato qui di presentare: esso consiste nel non farsi intimorire dalla confusione dei linguaggi, dalla mescolanza del discorso politico, di quello letterario e di quello criminale, ma invece di penetrare e indagare questa mescolanza; alla ricerca dei nessi, a volte non ovvi, che legano le trasformazioni discorsive alla congiuntura politica e ai processi (qui appena indicati più che analizzati) di individuazione, repressione, tipizzazione, folklorizzazione: quelli che connettono cioè l’immaginario, essenzialmente letterario, dell’epoca alle pratiche giudiziarie, poliziesche e in futuro sempre più medico-legali e che nell’insieme configurano l’utilizzazione del crimine nella sfera pubblica. Processi che, per la loro valenza performativa, non vanno scambiati per mere descrizioni dell’universo marginale e delle sue devianze ma analizzati come potenti vettori di costruzione delle identità collettive e dunque di parti non trascurabili della realtà sociale.
Note
[1] J. C. Alexander, La costruzione del male: dall’Olocausto all’11 settembre, Il Mulino, Bologna 2006; ma v. anche J.C Alexander, B.Giesen, J.l. Mast, Social Performance, Symbolic Action, Cultural Pragmatics and Ritual, CUP, Cambridge e New York 2006.
[2] Si tratta della tematica sviluppata nel mio recente volume La mala setta. Alle origini di mafia e camorra,1859-1878, Einaudi, Torino 2015.
[3] Mi riferisco sia a Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano 1988, sia al più recente Il cimitero di Praga, Bompiani, Milano 2010.
[4] I. Levin, Nastro rosso a New York, Garzanti, Milano 1969 (ed or. 1967).
[5] La bibliografia sul tema è assai vasta: rimando per essa al mio già citato La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878.
[6] Della deposizione di Buscetta esistono varie trascrizioni pubblicate: cfr. ad esempio P. Arlacchi (a cura di), Addio cosa Nostra: i segreti della mafia nella confessione di Tommaso Buscetta, Rizzoli, Milano 1995.
[7] Cfr. su questo la riflessione avviata con Trasformazioni discorsive e identità sociali: il caso dei lazzari, in «Storica», XI, 2005, n.31, pp. 7-44; Il ritorno dei Thugs: ancora su trasformazioni discorsive e identità sociali, in «Storica» XVII, 2011, n.51, pp. 97-120.
[8] L.Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose: Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Roma-Bari 1976 (ed. or. 1958).