Guida ai topoi della fiction all’italiana.
Tempo fa, passeggiando per le bancarelle di Porta Portese, fui colpito da un tavolaccio su cui erano sistemate cartacce d’antiquariato. Mappe geografiche ottocentesche, cartoline degli anni Cinquanta, pacchi di corrispondenze perse da chissà quale postino alcuni decenni addietro. Mi decisi a comprarne uno al costo di 2 euro, sperando di trovarvi chissà quale lettera di valore antropologico inestimabile. Arrivato a casa, dopo i primi tre, quattro fogli di noiosissimi scambi tra zie, nipoti, figlie e mariti, mi ero arreso e avevo ributtato tutto in un ripiano dell’armadio. Dopotutto, l’investimento era stato misero.
Pochi giorni fa, in uno di questi noiosissimi pomeriggi domenicali di serrata pandemica, assediato dal silenzio e arrivato alla conclusione di aver visto tutto ciò che di interessante potessero offrirmi Netflix, Amazon Prime e Now Tv, un impulso secco mi ha spinto ad aprire quell’armadio e a riprendere in mano la cartella di vecchie missive. Dopo quaranta minuti di vane letture, l’occhio è stato colpito da un vecchio fax ingiallito. Datato 23 marzo 1991, era indirizzato da un oscuro sceneggiatore – di cui ho ricostruito il curriculum e l’abilità a traghettarsi tra prima e seconda repubblica mantenendo intatte le relazioni politiche giuste – a un capostruttura delegato a coordinare le produzioni di fiction targate Rai. Non farò qui i nomi per paura di ritorsioni, anche perché quello che conta alla fin fine è il contenuto di quel fax. Lo sceneggiatore esordiva assicurando al capostruttura di aver lavorato giorno e notte per settimane a quel documento, sperando che il risultato fosse adeguato alla sua richiesta. A queste poche parole, seguite da ossequiosi saluti, si accompagnava il documento vero e proprio: l’elenco dei punti cardine della fiction italiana, elaborati da lui in base a un sondaggio su un panel calibrato di telespettatori, con l’obiettivo di ottenere il massimo risultato di audience, con il minimo sforzo produttivo. Leggendo quel vademecum ho sentito un brivido risalirmi la spina dorsale.
Lì dentro c’era l’archetipo della fiction Rai e Mediaset, c’erano i topoi dei prodotti che ancora oggi vengono trasmessi in prima serata nelle reti ammiraglie della nostra tv generalista. Io avevo tra le mani il documento da cui era scaturita la programmazione quasi sovietica della produzione italiana negli ultimi trent’anni. Ho pensato a lungo se fosse il caso di tenerlo per me o renderlo pubblico. Ma come ha scritto McCandless, la felicità è reale solo se condivisa. Dunque, ecco a seguire, fedelmente riportata, la guida ai topoi della fiction italiana, così come me la sono trovata tra le mani.
Il cast misto
Il cast della fiction italiana (di seguito F.i.) deve ruotare attorno a una, due, massimo tre figure di primo piano, attori di fama riconosciuta, e capacità attoriali apprezzabili. È concesso l’utilizzo di una star internazionale, ma in questi casi visto l’onere extra per il budget, deve essere un mito di gioventù delle pensionate, disposto a partecipare alla produzione per pure questioni economiche, con totale disinteresse per la qualità artistica del progetto. Il resto del cast va prelevato dalla enorme sacca di riservisti costituiti da attori televisivi senza talento, amanti di produttori/capi struttura, attori caduti in disgrazia ma riconvertiti al nuovo partito di maggioranza, nipoti con velleità attoriali dei suddetti produttori e capi struttura. La sensazione di straniamento del grande attore americano circondato da cani è da considerarsi prova dell’ottimo lavoro svolto ai casting.
Personaggi funzionali
Gli sceneggiatori fanno economia delle proprie energie, dunque nel costruire i personaggi, spigolature, sfumature, idiosincrasie, dettagli volti a renderli verosimili, sono considerati inutili virtuosismi. A meno che non siano funzionali all’intreccio. Una delle regole d’oro della F.i. è che qualsiasi azione è funzionale alla storia, così come i personaggi devono essere facilmente inquadrabili dal pubblico. Se uno dei protagonisti è identificato nel soggetto come “quello ossessionato dalla pulizia”, dovrà richiamare in ogni scena questo suo aspetto, anche a sproposito, e soprattutto come se non avesse altri lati psicologici. Se un personaggio dopo un incontro fortuito con il protagonista smette di sorridere subito dopo averlo salutato (cosa del tutto normale nella vita reale), vuol dire che sta tramando qualcosa, e nelle scene successive lo scopriremo. Nella F.i. nessuno racconta di una passione per le spade giapponesi, senza che entro fine puntata non ne abbia infilzata almeno una nella pancia di qualcuno.
La spalla all’italiana
Il protagonista della serie può variare all’interno di un range di caratteristiche molto ampio. Molta meno libertà di scrittura si ha nel definire la spalla. L’italiano vuole un personaggio buffo, fedele, possibilmente sgrammaticato, ma di gran cuore, che rappresenti l’immarcescibile saggezza popolare. Con lui, non un cuor di leone, ma alla fine una brava persona, lo spettatore si identificherà in caso di scelte etiche troppo alte da parte del protagonista, salvo poi poter tornare a ridere della spalla bonacciona già dalla scena successiva.
Gli snodi tagliati con l’accetta
Gli snodi narrativi devono essere improvvisi e risolutivi. Il colpo di scena vince sulla veridicità dell’avvenimento. L’importante è rispettare il timing del climax e dell’anticlimax come da manuale. Il fatto che lo spettatore rimanga basito a chiedersi: “ma che cazzo è successo? Come faceva il commissario a sapere questa cosa, da dove ha intuito che il colpevole non può essere che lui, allora perché non se n’è accorto prima, eccetera”, è del tutto irrilevante. Ricordiamoci che gli italiani a cena parlano, vanno in bagno, insomma prestano un’attenzione parziale alla fiction, dunque di fronte a svolte inspiegabili, tenderanno a dare la colpa a se stessi.
Evocare non descrivere
Nella F.i, l’importante è evocare, mai restituire la veridicità di una situazione: gli sforzi inutili in fase di scrittura vanno evitati. Pertanto, se un personaggio va al bancone del bar, chiederà “una birra artigianale”, una qualunque, oppure se lo spasimante invita la protagonista a un concerto, le dirà “un gruppo jazz molto promettente”. Perché inventarsi un nome, quando quello che conta è che il tizio sia al bar, o che i due usciranno per un concerto?
Non traumatizzare lo spettatore
Quando possibile, evitare traumi eccessivi allo spettatore. Siamo pur sempre il paese della concordia, della mano che lava l’altra, di don Camillo e Peppone. I personaggi simpatici che finiscono in coma, vanno salvati. Se qualcuno commette un gesto efferato, va prima adeguatamente dipinto come un depravato senza luce. È possibile cambiare la natura del personaggio nel corso delle puntate, per dare una parvenza di modernità al tutto. In questo caso, il personaggio buono che diventa cattivo sarà comunque dipinto come buonissimo fino alla penultima scena prima del gesto deprecabile. Uno sguardo folle, o una insensata perdita di pazienza, dovrà annunciare allo spettatore che il buon vecchio Beppo ha perso la lucidità e che da lì in avanti possiamo aspettarci qualsiasi cosa da lui.
Chi tocca la politica muore
La politica, quella reale, va evitata come la kriptonite per superman. Del resto, può più una telefonata di un senatore al direttore di rete che il talento cristallino di un’intera troupe. Dunque, fosse anche una fiction iperrealistica che racconta i legami tra politica e mafia ai giorni d’oggi, i nomi dei partiti devono essere travisati con grotteschi riferimenti da fumetto, tipo: “il partito sociale democratico” vs “il partito dei conservatori italiani”. I fascisti che sventolano bandiere nere e danno fuoco ai campi Rom vanno raccontati come comitati di quartiere esasperati (al limite manovrati da un cinico e ambiguo professore), mentre i comunisti vanno sostituiti dai fricchettoni, onesti, pieni di buone intenzioni, ma ingenui, fuori dal mondo, e fisicamente impreparati alla violenza.
La scenografia favolosa
La scenografia risponde a un unico imperativo: il gusto estetico di un designer affetto da horror vacui e ossessionato dal buon gusto. Se il dialogo tra due protagonisti si svolge al ristorante, oltre ai piatti vedremo sul tavolo solo i due calici. In una fiction italiana, non si troverà mai una bottiglia d’acqua di plastica sul tavolo, troppo brutta, troppo cheap, anche se siamo dentro una osteria da quattro soldi. Al contrario, i due che confabulano in casa, sorseggiando un caffè, lo faranno circondati da improbabili elementi decorativi, tipo un mazzo di fiori poggiato sul tavolo, una fioriera sul piano della cucina. Regola aurea: nessuno nelle F.i, vive in case con pareti bianche, come nella realtà capita alla maggioranza degli italiani. Le pareti bianche sparano troppo la luce, sbattono la faccia degli attori. Preferire improbabili carte da parati anni settanta o nuance di arancione da ostello della gioventù.
L’eterna mezza stagione e i microclimi individuali
Nelle fiction italiane, il cambiamento climatico è avvenuto da un pezzo. Si vive in un’unica mezza stagione spalmata durante tutto l’anno, in cui però, se il gusto del reparto costumi lo richiede, marito e moglie possono salutarsi per andare a lavoro uno in maniche corte e l’altra col cappotto invernale, come se ognuno vivesse costantemente immerso in un proprio microclima individuale. Il sole è l’elemento predominante, altri fenomeni atmosferici, come la pioggia o la neve, si mostrano solo se funzionali alla scena o allo stato d’animo del personaggio.
Lo spiegone improbabile
Lo spettatore italiano ha la maturità di ragionamento di un bambino di 10 anni. Qualsiasi non detto che andrebbe sciolto con una deduzione non adatta a uno studente della quinta elementare, va eliminato e sostituito con una spiegazione dettagliata dei passaggi di raccordo. Il cosiddetto spiegone va elargito senza parsimonia, preferibilmente in scene in cui nella vita normale nessuno si sognerebbe di riassumere come a un bambino questioni del resto facilmente decifrabili: a letto, prima, dopo o persino durante l’atto sessuale; in auto raggiungendo il luogo in cui si trova il colpevole; a casa, preparando il pranzo.