Il Movimento Pastori Sardi e la giustizia sociale
In breve, ma prima di tutto, le quote latte: con il regolamento comunitario 856/1984, l’Unione Europea istituiva un regime di quote, su base nazionale, allo scopo di mantenere controllato il prezzo di alcuni prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento per garantire un certo reddito ai produttori. Ossia un limite alla produzione, nel nostro caso del latte, che riusciva a tenere abbastanza alto il prezzo dello stesso. Il produttore che avesse “splafonato”, ossia ecceduto nella produzione di latte, avrebbe dovuto pagare ingenti multe per aver infranto tale regolamento.
In Germania tutto bene, in Francia tutto bene, così come in Olanda e in altri stati; tali paesi infatti, con le quote europee, soddisfavano pienamente il loro fabbisogno annuale, anzi, pur rimanendo entro il limite fissato, il latte eccedeva e si poteva rivendere o fare altri prodotti, quali burro, latte in polvere e derivati. In Italia invece, vengono presi per buoni i dati ISTAT relativi al 1983 – in verità, come poi si è scoperto dalle conseguenze del mercato, clamorosamente sballati – e viene pattuita una quota limite di circa 8 mila tonnellate l’anno. Peccato che il fabbisogno italiano fosse praticamente il doppio, quasi 16 mila tonnellate. Perché un paese tra i maggiori produttori e consumatori di latte si rivela importatore dello stesso? Il governo Craxi aveva firmato altri accordi? I dati ISTAT erano stati falsificati? Da un anno all’altro gli italiani hanno deciso di consumare tutti insieme il doppio del latte?
Le conseguenze di questa manovra sono state tante, perché gli allevatori singoli così come le cooperative ed i consorzi di tutta Italia, ma soprattutto in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna (regioni a forte potenzialità produttiva) hanno deciso di produrre comunque di più perché il latte serviva davvero, a nord e a sud, ritrovandosi così in debito di svariati miliardi di lire con l’Europa. Quando sono fioccate le prime multe, a pagare ci ha pensato lo stato con delle sanatorie, intanto i vari ministri succedutisi hanno tentato di innalzare la quota aumentandola – inutilmente – di qualche punto percentuale. Iniziano negli anni novanta le prime manifestazioni delle COBAS e delle cooperative in strada con i trattori, mentre molti altri piccoli medi e grandi imprenditori rimangono nell’ombra a farsi due conti in tasca, cominciando puntualmente ad evadere perché a coprire il tutto c’erano le sanatorie. Come? Dichiarando di avere più capi – ISTAT ne conta 1.800.000, l’Anagrafe Bovina 1.300.000, il Ministero della Sanità 1.600.000, che strana confusione – prendendo le sovvenzioni europee per produrre il latte, non spendendo i soldi per produrlo veramente ma solo per confezionarlo, riciclando formaggi marci e rimettendoli in commercio (TRAVEL e MEGAL di Cremona, MIXPO di Novara), importando illegalmente latte in polvere – manovra assai più economica della produzione di latte fresco – mescolato con acqua e marcandolo come prodotto DOC (al proposito si legga il rapporto di FAREAMBIENTE sulle frodi commerciali per il biennio 2008-2009). Se il rimedio si trova all’estero, ed è anche molto conveniente economicamente, il prezzo del latte scende vertiginosamente, a discapito di tutti gli allevatori. I ministri più recenti Zaia, Galan e Romano si sono dimostrati indignati per il comportamento dell’Europa, la Lega Nord ha ripetuto forte e chiaro che a questo punto è meglio evadere che morire di fame. Intanto i trattori in strada si sono moltiplicati, ma c’è chi manifesta e c’è chi evade, ed il prezzo del latte scende ulteriormente. Oggi il produttore di latte vaccino incassa dai 20 ai 30 centesimi al litro,e quello di ovicaprino, che è più costoso e meno prodotto, circa 60-70 centesimi. A questi prezzi l’allevatore è alla fame perché per mantenere i capi e gli ambienti di produzione – mangime, manutenzione delle stalle e dei box, costi aziendali, trasporti vari e prezzo del lavoro – il prezzo del latte vaccino dovrebbe salire di almeno 20 centesimi a litro, per fare in modo che l’azienda finisca quanto meno in pari. Idem per il latte ovicaprino, che con la sua diversità garantisce altri prodotti ed altri costi. Negli ultimi dieci anni hanno chiuso circa 500 mila aziende agricole a causa della grande crisi del settore agricolo (www.newsfood.com) e entro il 2015 altre 400 mila rischiano la stessa fine. Ma c’è anche da dire che il latte in polvere tedesco e francese costa 16-18 centesimi per litro di latte. Chi lo compra? Parmalat per esempio, ma anche Granarolo, Nestlé Italia e altre grosse multinazionali, che marchiano DOP il latte importato subito dopo che passa il confine. Nelle confezioni di latte che compriamo non viene scritta la provenienza, ma la pubblicità della Lola lascia intendere ben altro, facendoci pagare il prodotto come se fosse di qualità. Purtroppo le analisi alla furosina – elemento assolutamente non nocivo ma che si rileva nella lavorazione termica del latte e quindi anche nella produzione di latte in polvere – rivelano delle percentuali molto al di sopra del limite consentito dalla legge – 8,6 mg per ogni 100 g di proteine contro i 300mg rilevati nelle marche incriminate –. Se la furosina si riscontra in certi limiti durante la pastorizzazione, processo normale per costituire un certo prodotto caseario, superati questi, gli esperti deducono la forte presenza di latte in polvere ricostituito. Tale presenza è illegale. E la Lola ringrazia. Così come la Grande Crisi, il maligno demiurgo, che si assume la colpa di tutto.
All’interno delle grandi proteste degli allevatori di tutta Italia, un gruppo in particolare, nato negli anni novanta a seguito di una manifestazione a Cagliari, inizia con il darsi un nome ambizioso – “Movimento Pastori Sardi” – un sottoinsieme di categoria che agisce soprattutto a livello regionale, ma anche –e con grande meraviglia per la determinazione- in ambito nazionale e internazionale. Apprezzabile perché i “Pastori Sardi” – individuali o in cooperativa – sono stati per anni produttori di eccellenza che con il passare del tempo si sono rassegnati a destinare il 75% del loro latte alla produzione di pecorino romano, che era indispensabile allo stato italiano per soddisfare la domanda dei mercati del Nord America. Ma anche in questa occasione il sistema ha rivelato delle falle importanti, perché le eccedenze di pecorino romano nel 2011 sono di circa 100 mila quintali a fronte dei 60 mila del 2010 e dei 40 mila del 2009. Nasce quindi una camera di compensazione, ideata dal Ministro Galan e dell’assessore regionale all’agricoltura Prato, per rimpinzare le mense scolastiche del pecorino romano in eccesso. Accade anche in Sardegna e i “Pastori Sardi”, che oltre la crisi del settore agricolo sono costretti a produrre il latte per un formaggio che non è il loro, non ci stanno. In poco meno di un anno si inseriscono nei circuiti mediatici a forza di manifestazioni, blocchi di traffico, proteste anche violente. Le amicizie con altri comitati di tutta Italia – da “Gettiamo le Basi” al “Movimento Commercianti e Artigiani Liberi” – sono con alcuni di questi delle unioni consolidate che fanno ben sperare. Che cosa? Un ottimo lavoro culturale, dato che a differenza della Lega i “Pastori Sardi” vogliono tutto, per dirla con Nanni Balestrini, e i loro obiettivi non si fermano alla lotta alle quote latte per la propria categoria, ma si sbilanciano su tutti i fronti: il “Movimento Pastori Sardi” vota 4 sì ai quesiti referendari, si uniscono al siciliano “Movimento dei Forconi”, chiedono l’istituzione a tasso agevolato nelle zone rurali delle energie rinnovabili, chiedono lo smantellamento delle basi di Quirra – le bestie e i pastori muoiono di cancro per le esercitazioni all’uranio impoverito dei militari italiani e stranieri –, stringono la mano ai vari GAS piuttosto che alle grandi catene, e molto altro (www.movimentopastorisardi.org).
Come si cercherà di spiegare meglio nei prossimi interventi, i Pastori sono un movimento che non ha tanto bisogno di essere analizzato in quanto fenomeno sociale, perché si presentano da soli; pur non inserendosi in contesti politici definiti o riunendosi sotto bandiere conosciute, svolgono un lavoro di militanza dal basso che può essere preso come esempio. Non hanno gerarchie – esiste un sub leader, Felice Floris, che fino ad ora ha attuato nella sua veste quasi mondana in maniera ineccepibile –, territorialmente la loro presenza è sempre massiccia ed efficace – le delegazioni, sempre diverse, si muovono a turno tra le varie iniziative a seconda delle possibilità – ed il loro raggio d’azione è molto ampio. Non si possono definire un movimento identitario e nemmeno danno l’idea di voler apparire come tali. Solo una bella realtà.