Bernie Krause alla Fondation Cartier di Parigi.
Le Grand Ochestre des Animaux è il titolo dell’ultima mostra proposta dalla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi. Inaugurata lo scorso 2 luglio e fruibile fino all’8 gennaio 2017, la mostra si ispira all’opera di Bernie Krause, musicista e naturalista, che da più di cinquant’anni registra in tutto il mondo i paesaggi sonori naturali delle zone selvagge e incontaminate del pianeta.
Dopo essere stato session man di studio per importanti musicisti e gruppi musicali (tra cui Doors, George Harrison, Brian Eno, David Byrne, Stevie Wonder, ecc.) ed esser diventato figura di riferimento della musica elettronica nella Hollywood degli anni Sessanta componendo insieme al collega Paul Beaver gli effetti sonori e le musiche di celebri film (Rosemary’s baby, Apocalypse now, Mission: impossible, ecc.), Bernie Krause decide di lasciare tutto e iscriversi all’università, compiendo un dottorato in arti creative con specialità in bioacustica.
Si dedica così alla registrazione dei paesaggi sonori naturali e un giorno, analizzando le proprie registrazioni attraverso gli spettrogrammi – una tecnica di visualizzazione del suono che permette di vedere su schermo la distribuzione dei segnali sonori all’interno del campo delle frequenze – trova come ogni specie animale sembra ritagliarsi un proprio e specifico canale di frequenza su cui vocalizzare. Lungi dall’essere retto dal caso, il paesaggio sonoro animale sembra invece seguire un principio di distribuzione frequenziale che permette alle differenti specie di ritagliarsi uno spazio acustico all’interno del mondo sonoro assicurandosi così la felice comunicazione tra i propri simili, senza che il proprio segnale sia disturbato o disturbi quello delle altre specie (ipotesi delle nicchie acustiche).
Registrando per ventiquattrore una foresta del Kenya e traducendo il suono complessivo nella sua rappresentazione grafica attraverso lo spettrogramma, Krause si rese conto come quest’ultimo assomigliasse a una partitura orchestrale: gli elefanti vocalizzavano nella parte di frequenze più basse, le iene e alcuni uccelli un poco più in alto, gli insetti occupavano nicchie di frequenze medie e i pipistrelli si facevano sentire nelle frequenze più alte. Ognuno marcava il proprio territorio acustico e lo spettrogramma mostrava l’esistenza di strutture musicali nel paesaggio sonoro naturale: ogni specie occupava una larghezza di banda preferita per fondersi o creare un contrasto, allo stesso modo in cui ad esempio i violini o le trombe si ritagliano un proprio territorio acustico nell’arrangiamento orchestrale.
Da questa scoperta nasce l’idea della Grande orchestra degli animali, divulgata da Bernie Krause prima attraverso una prima pubblicazione in inglese, poi da una composizione musicale per orchestra e paesaggi sonori naturali in collaborazione con il compositore Richard Blackford e ora, infine, l’odierna mostra parigina Le grand orchestre des animaux alla Fondazione Cartier pour l’art contemporain.
La mostra è concepita come una doppia orchestra incrociata, tra la grande orchestra polifonica delle voci animali e quella visiva delle nostre multiple rappresentazioni dell’animalità. Al piano terra, nelle gallerie trasparenti dell’edificio progettato da Jean Nouvel, una scenografia di linee curve e archi concentrici, ideata dagli architetti Gabriela Carrillo e Mauricio Rocha (Messico), riproduce l’organizzazione spaziale di un’orchestra sinfonica mettendo in scena la “grande orchestra” delle immagini. Si alternano una serie di fotografie, dipinti, video e installazioni, con opere di: Pierre Bodo (Congo), Cornell Lab of Ornithology (USA), Cai Guo-Qiang (Cina), JP Mika (Congo), Manabu Miyazaki (Giappone), Moke (Congo), Hiroshi Sugimoto (Giappone), Cyprien Tokoudagba (Benin), Agnès Varda (Francia), Adriana Varejão (Brasile).
Al piano interrato, nella sala piccola, l’installazione Plancton, aux origines du vivant di Shiro Takatani con musiche di Ryuichi Sakamoto presenta su nove schermi appoggiati sul pavimento la bellezza delle forme di vita del plancton, riprese in macrofotografia da Christian Sardet. Nella sala grande, troviamo invece l’installazione principale della mostra, Le grand orchestre des animaux, che propone l’ascolto di una serie di paesaggi sonori registrati da Bernie Krause, accompagnato da un dispositivo di traduzione visiva ideato dal collettivo inglese United Visual Artists (UVA). L’intera stanza è semibuia, illuminata solo dalla luce colorata di tre grandi schermi che rivestono le tre pareti principali, lungo le quali corre una vasca elegante e poco profonda con dell’acqua calma.
Al centro della stanza, due file di sedute invitano i visitatori a fermarsi per ascoltare le registrazioni delle differenti orchestre animali e guardarne i rispettivi spettrogrammi proiettati sugli schermi. Ogni registrazione è anticipata da un momento di silenzio in cui nella parete centrale compare la descrizione del luogo, dell’ora, del clima, l’intento e le caratteristiche della registrazione. Con l’inizio della sonorizzazione, un flusso visivo si mette in moto dallo schermo di sinistra verso quello di destra passando per quello centrale. Lo schermo di sinistra traduce visivamente in tempo reale le differenti frequenze dei diversi suoni animali contenuti nella registrazione e il loro cambiamento nel tempo, variazione che viene fissata sullo schermo centrale dando vita a un’immagine fissa, lo spettrogramma vero e proprio. Il meccanismo è simile a quello di un sismogramma che traduce le vibrazioni del suolo in linee sulla carta, solo che qui le vibrazioni sonore sono tradotte in linee luminose su uno schermo. Con il passare del tempo lo spettrogramma scorre dalla parete centrale a quella di destra per poi scomparire lasciando spazio alla visione di nuovi suoni nella parete centrale. Mentre si ascolta, guardare la parete centrale permette di cogliere la posizione spaziale di ogni suono rispetto agli altri, se basso, medio o acuto e con quale intensità e variazione nel tempo. Con l’ingresso di nuove voci di animali, compaiono sullo schermo piccole scritte che indicano il nome della specie e l’altezza delle frequenze in hertz (l’unità di misura della frequenza sonora). La buona diffusione del suono, la grandezza degli schermi e il ruolo del buio creano nel complesso un effetto immersivo di audiovisione del suono.
Nel complesso la mostra è molto ricca, forse anche troppo: anche se chiamate a incarnare uno stesso contenuto semantico (la grande orchestra degli animali) le forme espressive presentate sono troppo discordanti per stili (realismo, iperrealismo, surrealismo, naïf, ecc.), generi testuali (pittura, disegno, fotografia, installazione, ecc.) e regimi discorsivi culturali differenti (le scelte rappresentazionali dei pittori congolesi sono molto distanti ad esempio da quelle degli artisti giapponesi, ecc.). L’idea dell’orchestra di rappresentazioni visive in dialogo con i suoni della grande orchestra animale di Bernie Krause, anche se accattivante, non risulta armonica ma dissonante. Un’altra stonatura è data dal fatto che seppur il titolo della mostra è La grande orchestra degli animali, l’installazione di Bernie Krause ne rappresenta solo una minima parte: è vero che è possibile approfondire il discorso di Krause sia attraverso un ottimo catalogo sia online attraverso un sito dedicato in cui è possibile riascoltare una parte dei paesaggi sonori naturali dell’installazione, ma sarebbe stato più coerente ed elegante ampliare la mostra, sviluppando le diverse implicazioni del lavoro di Krause anziché demandarle ad altri supporti esterni a essa.
Le grand orchestre des animaux rimane comunque interessante da visitare perché si inserisce nell’odierno e più generale dibattito sulla rappresentazione dell’animalità e della natura, dibattito nutrito dalla progressiva diffusione delle tesi di autori quali ad esempio Philippe Descola (multinaturalismo), Bruno Latour (politiche della natura) e Vinciane Despret (relazione interdefinita tra sguardo umano e comportamento animale). La posizione di Berni Krause, che contrappone all’interno del paesaggio sonoro la musica animale alla cacofonia umana, porta nuovi spunti di riflessione sul poter concepire differenti culture animali e allo stesso tempo differenti concezioni della natura in seno agli uomini. Ascoltando le vocalizzazioni animali organizzate e strutturate, in via di silenziosa estinzione a causa del rumore umano, non possiamo non chiederci come ridefinire il nostro ruolo rispetto agli altri esseri viventi.
La mostra ha il pregio inoltre di portare l’attenzione del pubblico su una dimensione spesso trascurata come quella sonora e sulle problematiche del paesaggio sonoro e dell’ecologia acustica: problematizzare i fenomeni sonori può infatti portare a prospettive nuove e diverse sia sui problemi perenni che su quelli attuali, come il dibattito ecologico, la creazione d’identità, la relazione uomo-animali, ecc. In terzo luogo, se da una parte il centro del discorso è la dimensione sonora, dall’altra risulta evidente l’impossibilità di svincolarsi totalmente dalla dimensione visiva: la scoperta di Bernie Krause dell’organizzazione “a orchestra” delle vocalizzazioni animali è stata resa possibile dalla loro visualizzazione sullo spettrogramma (come infatti anche la partitura musicale inventata dagli uomini è un supporto visivo per i suoni realizzati dall’orchestra); e la mostra ripropone al pubblico questa stretta relazione attraverso l’installazione appunto audiovisiva. Sarebbe stato diverso ascoltare gli stessi paesaggi sonori naturali al buio, senza guardare la loro traduzione visiva? Cosa avremmo guadagnato e cosa perso?
Ulteriore spunto di riflessione è la nostra relazione con la tecnologia, senza la quale l’installazione di Krause non sarebbe stata possibile come pure il suo lavoro e quello di molti altri artisti e scienziati. Appare sempre più evidente che se vogliamo fare davvero i conti con la nostra identità di essere umani, gli animali non sono l’unico termine di paragone: dall’altro lato della rete vi sono gli apparati tecnologici, spesso molto naturalizzati e dunque poco messi in discussione. Tra umani, animali e macchine, come coniugare natura e cultura, suono naturale e tecnologia di riproduzione del suono? Alla fine la cosa che più colpisce, forse, almeno nei quadri degli artisti congolesi, non è tanto il fatto che gli animali siano antropomorfi o che siano vestiti o che suonino, cantino e danzino, ma soprattutto il fatto che per cantare abbiano bisogno di microfoni e altoparlanti.
[Emiliano Battistini, semiologo e musicista, è dottorando in Studi Culturali Europei presso l’Università di Palermo, dove si interessa di Semiotica, Sound Studies e Soudscape Studies].