«Che cosa avreste fatto se vi foste trovati all’interno di quella immensa macchina amministrativa?». Con questa domanda Gad Lerner introduce il dibattito che segue lo spettacolo di Marco Paolini Ausmerzen, andato in onda il 26 gennaio dall’ex-ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano in occasione della Giornata della memoria. Si rivolge, Lerner, ai pochi e selezionati spettatori presenti e implicitamente ai molto più numerosi telespettatori – che per fortuna non possono intervenire con un sms da casa – creando un tensione paradossale benché naturale. Come si può rispondere ad una domanda del genere? Qualcuno di voi avrebbe eseguito gli ordini di Hitler e sterminato migliaia (milioni?) di persone “anormali”, a questo quesito si chiede di fornire una soluzione. Non ci può essere risposta, a prima vista; eppure qualche coraggioso si fa avanti: “Ho la presunzione di dire che non lo avrei fatto”. Una possibilità allora esiste, evidentemente, ma forse non è in questa direzione che va cercata. Dopo un paio di interventi, invece, inaspettata arriva: “Non si può sapere se l’avremmo fatto o meno, ma di sicuro abbiamo bisogno di strumenti culturali forti per far sì che quanto è successo non si ripeta”. È da qui dunque che bisogna partire.
Ausmerzen parla della pianificazione dello sterminio degli “anormali” visti come un peso per la società in termini di costi e di salute della popolazione. L’insistenza di Paolini su questi aspetti dell’eugenetica nazista denota una riflessione che esula dai discorsi di rito ai quali siamo abituati in queste circostanze; bio-politica, sistemi disciplinari, dispositivi di controllo, tutto questo bagaglio concettuale entra in gioco nel monologo dell’attore veneto, a partire dall’ambiente scelto (già protagonista di alcuni passi di Dies Irae di Giuseppe Genna) per la messa in scena. Mettere a fuoco le strategie soggiacenti e astrarre l’evento dalla sue coordinate spazio-temporali consente così di prendere coscienza delle dinamiche di creazione e propagazione dell’“orrore” nazista, scovando le matrici culturali e scientifiche che hanno presieduto e permesso lo sterminio degli anni ’30 e ’40. Come già Foucault nei Corsi al Collège de France degli anni ’70, Paolini risale alla seconda metà dell’800 per evidenziare il plesso di teorie scientifiche e esigenze economiche che hanno supportato il “darwinismo sociale” e la messa in moto di una macchina statale che ri-orienta i propri compiti e le proprie funzioni.
Siamo lontani dunque dalla retorica che sempre più spesso affligge queste ricorrenze, dove il sacrosanto dolore dei testimoni, dei reduci e dei loro parenti viene amplificato e incanalato fino all’apice patemico dell’imperativo finale “Per non dimenticare”. Esortativo e monito al tempo stesso, quello che si perde in questa negazione è proprio il versante attivo, la memoria, in grado di ricomprendere passato e presente sotto un unico movimento. Non basta conoscere i fatti, tramandarli ai posteri, erigere monumenti e cristallizzare il passato sotto l’egida immutabile dell’indicibile e dell’inspiegabile. Occorre scavare e comprendere, soppesare l’eredità e estrarla dalla teca in cui è stata rinchiusa; in altri termini, de-sacralizzare l’evento. Solo così il “non dimenticare” diventa “ricordare”, azione costante che si rigenera continuamente e consente di individuare spie e indici di un possibile ritorno di quello che fu. Non a caso il lavoro di Paolini si prefigge di istituire una fitta rete di rimandi con l’attualità, dall’allusione immediata alla connessione meditata, affrontando lo sterminio nazista da una prospettiva non certo consueta e non riducibile esclusivamente agli anni della guerra, come se lo stato eccezionale – ben più che d’eccezione – confinasse quella tragedia sul baratro tra follia e necessità. Dietro il monolite intoccabile – l’atroce genocidio del popolo ebraico – si celano infatti i sintomi mai estinti della messa al bando della devianza rispetto alla norma, tratti continuamente ri-determinati dai diversi sistemi culturali.
La risposta da cui siamo partiti, che è sempre anche e soprattutto una domanda, diventa così il punto d’arrivo. La necessità di un tale lavoro con e sugli strumenti interpretativi e cognitivi in atto in una società diventa palese nei momenti di crisi, intesi come situazioni liminali che costringono ad un ripensamento dell’auto-rappresentazione della società stessa. Se certe opere e certi autori operano in profondità, ovvero ci danno la possibilità di concentrarci su determinati aspetti, di incrementare la nostra comprensione del mondo, di migliorare i nostri strumenti teorici e analitici, a volte è invece necessario ritrovare la strada, lavorare cioè con quelle figure che nel quotidiano perseguono una rinnovata consapevolezza delle pratiche culturali, battendo con costanza una direzione, magari con obbiettivi più modesti. Binocolo e bussola, insomma, come utensili preposti all’esplorazione delle intricate lande del mondo: entrambi necessari, assolvono però con tutta evidenza funzioni diverse. Gli strumenti culturali di cui sentiamo oggi la necessità servono dunque a orientarsi e a vedere lontano. Ma se il cammino si fa improvvisamente incerto e insicuro, conviene come prima cosa fissare i punti cardinali e proseguire con circospezione, facendo attenzione ad ogni passo.
Questo fa dunque Paolini: traccia un sentiero. Mostra che un monologo in televisione è possibile anche senza interruzioni pubblicitarie, liste e posture assertorie; si immerge nelle falde del passato e riemerge nel presente, facendo vedere come le distanze non siano così abissali come poteva sembrare. Dimostra, infine, come il suo lavoro culturale sia quanto mai necessario, vivo e diffuso.