La fuga in Europa di Stephen Smith

Nel libro Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio continente, Stephen Smith profetizza un’imminente migrazione di massa di giovani africani in Europa. Ma i presupposti e i metodi delle sue argomentazioni lasciano spazio a perplessità.

Fuga in Europa Stephen Smith

All’inizio di Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio continente (Einaudi, traduzione di Piero Arlorio), Stephen Smith mette subito in chiaro la sua tesi: «la gioventù africana si precipiterà nel vecchio continente perché è nell’ordine delle cose». È un’asserzione forte che chiede di prendere molto sul serio il libro.

Smith assicura che in Fuga in Europa il suo intento sia quello di «fornire elementi d’informazione che costituiscano una base fattuale sulla quale ognuno potrà innalzare la propria tribuna politica» (p. X). Il fine è tanto ambizioso quanto importante: «Cercherò di determinare la capienza del serbatoio migratorio costituito dall’Africa e, nella misura del possibile, di prevedere la portata e le tempistiche dei flussi migratori in direzione dell’Europa». Smith assicura poi che i dati siano «frutto di una ricerca accurata e citati onestamente».

Ma i primi dubbi arrivano presto. Spuntano per esempio quando, per spiegare cosa s’intende per «ordine delle cose» nella frase citata poc’anzi, Smith chiama in causa due esempi storico-demografici usati a fini comparativi e come prova della validità della tesi annunciata: l’emigrazione di massa degli europei poveri verso le Americhe nell’Ottocento e quella dei messicani verso gli Stati Uniti dagli anni Settanta. Si tratta di accostamenti che, arbitrariamente scelti e sistemati per dimostrare la tesi sostenuta, non tengono conto delle più elementari norme metodologiche di comparabilità, contestualizzazione storica e sociale, calcolo delle proiezioni di sviluppo economico, e così via.

Emerge che la tesi economica di fondo del libro corrisponde a una congettura secondo cui lo sviluppo dell’Africa può avvenire solamente a scapito dell’Europa. E questo senza neanche addentrarsi nel rapporto fra immigrazione ed effetti positivi sul welfare di un paese, documentato da più studi, fra cui quello dell’OCDE. La visione di Smith dei flussi migratori è strumentalmente naïve, in termini di tendenze, forme di prevedibilità e imprevedibilità, incroci di fattori che li sottintendono e così via. A questo proposito, vale la pena ricordare che i tassi di emigrazione delle popolazioni africane sono oggi comparabili alla media mondiale (poco più del 3%), e che gli immigrati di origine africana presenti oggi in Europa costituiscono attorno al 2% della popolazione. Quella che Smith presenta come un’esplosione – «bomba demografica», «marea migratoria», «dune umane» –  è invece una persistente stagnazione della transizione demografica che ben poco ha a che vedere con le rapidissime mutazioni di altri contesti geografici.

La documentazione a cui fa riferimento Smith è scarsa e datata, ma questo non impedisce all’autore di lamentare il poco interesse da parte della comunità scientifica rispetto alle questioni di cui tratta: «La geografia umana dell’Africa non ha ricevuto l’attenzione dovuta: al di là dell’ovvia presa d’atto d’esplosione demografica nel continente vicino all’Europa, non ha sollecitato la curiosità dei ricercatori né, ancor meno, ne ha ispirato le ricerche». Eppure basterebbe aprire qualsiasi rivista scientifica di questo ambito di studi per rendersi conto che c’è tutt’altro che penuria di fonti ed elaborazioni scientificamente rigorose. Difficile, a questo punto, trattenersi dal pensare che il problema, per Smith, non sia che questi studi non esistono, ma piuttosto che esistono, e che, per il loro rigore e la competenza dei loro autori e autrici, siano difficilmente impiegabili al servizio dei suoi propositi. Dopo aver messo in evidenza la debolezza metodologica e la disonestà intellettuale del libro, François Heran (Collège de France) constatava amareggiato: «La demografia è come la musica: attira molti dilettanti, ma ben pochi sanno leggere lo spartito».

Fuga in Europa Stephen Smith

Fuga in Europa ha provocato sia interesse nei media e in vari circoli politici, sia lo sbigottimento di molti studiosi. Lo stesso Heran ha voluto dedicare più articoli (questo e questo) che, più che ordinaria partecipazione a un dibattito, appaiono un vero e proprio debunking, viste le caratteristiche del caso Smith. E con lui altri studiosi, di più discipline, inclusi gli antropologi (africanisti e non), visto che Smith si lancia con disinvoltura anche in numerose affermazioni come quella secondo cui in Africa «a determinare status e relativo prestigio sociale di ciascun individuo erano l’iniziazione e altri riti di passaggio» (p. 37), come se l’Africa fosse un unico e omogeneo blocco sociale, culturale ed economico.

Del resto, già in una delle sue opere precedenti, Négrologie. Pourquoi l’Afrique meurt (2002), Smith scriveva con disinvoltura che l’Africa è «il paradiso della crudeltà» (p. 119), che lì le persone «si mangiano fra loro» (p. 24), che gli africani rifiutano di «entrare nella modernità se non come passeggeri clandestini o da consumatori che vivono come parassiti del resto del mondo» (p. 230), e altre amenità del genere. Si tratta di quella stessa Africa che Smith definisce «isola-continente di Peter Pan», come recita il titolo del secondo capitolo. Ma un conto è la legittima constatazione demografica di un continente «giovane», e un conto è prendere strumentalmente troppo sul serio l’accostamento con Peter Pan, con un giudizio morale non certo implicito: «Peter Pan non è nulla, perché se fosse qualcosa rientrerebbe nello spazio temporale, mentre vive in un eterno presente. È perennemente in divenire senza mai essere. Come la giovane Africa».

Smith s’interessa anche ai programmi messi in atto dagli stati occidentali per quelli africani: «I paesi del Nord sovvenzionano i paesi del Sud sotto forma di aiuto allo sviluppo, affinché i deprivati possano migliorare le loro condizioni di vita e, sottinteso, restino a casa loro. In questo modo, i paesi ricchi si danno la zappa sui piedi. Infatti, almeno in un primo momento, premiano la migrazione aiutando alcuni paesi a raggiungere un certo livello di prosperità, grazie al quale i loro abitanti dispongono dei mezzi economici per partire e insediarsi all’estero» (p. 86). Che non siano gli abitanti delle regioni del mondo più povere a emigrare, perché anche migrare richiede risorse, è un dato noto; ma una cosa è discuterlo e dimostrarlo (e sostenere idee politiche conseguenti e legittime), e un’altra cosa è distorcerlo e piegarlo a un ragionamento di natura ideologica come quello in questione.

In ogni caso, a leggere queste righe sulle politiche di sviluppo, ci si preoccupa per la continuità fra simili logiche e la tendenza al discredito delle organizzazioni non governative, a partire da quelle che soccorrono i migranti in mare, in particolare nel Mediterraneo. E la discussione di questo argomento arriva puntuale: «Nonostante il rischio [di morte in mare] sia, per fortuna, limitato, ci si chiede perché non smetta di aumentare nonostante gli occhi del mondo siano puntati sul Mediterraneo e i soccorsi dovrebbero essere sempre più efficienti. La risposta è che le organizzazioni umanitarie rasentano la perfezione!» (p. 107).

Del resto, in questo ambito di studi, le questioni metodologiche non sono mai scindibili da quelle etiche e morali, cosa che a Smith deve risultare poco (o forse molto) chiara quando azzarda paragoni del genere: «Nel 2015, il rischio di morire nel Mediterraneo (0,37%) era inferiore al rischio, in Francia, di rimanere vittima di un accidente cerebrovascolare (Avc, 0,45%)» (p. 106). Oppure: «Occorre arrendersi all’evidenza: per arrivare in Europa, i migranti africani corrono un rischio calcolato simile ai rischi che corrono abitualmente nella vita che cercano di lasciarsi alle spalle» (p. 108). E anche: «4.576 sono annegati o dispersi, l’1,2%, ovvero hanno corso un rischio doppio di quello di morire dopo un intervento chirurgico in un paese industrializzato, e ugualmente doppio del rischio di morire in seguito a un’anestesia totale nel sud del Sarah» (p. 107). Se i paragoni con le migrazioni messicane e dell’Ottocento apparivano metodologicamente insostenibili, qui gli accostamenti si fanno anche umilianti.

Fuga in Europa Stephen Smith

Fuga in Europa annuncia fin dal titolo il suo messaggio. Ma verso la fine del libro – quando ormai l’ansia del lettore e le considerazioni strategiche del politico sono state ben solleticate – quell’assertività e ineluttabilità vengono meno: «Tuttavia, il matrimonio forzato tra giovane Africa e vecchio continente non è ancora una fatalità; resta margine per le scelte politiche di africani ed europei in un’ideale di concertazione» (p. 145). Prima di proporre cinque possibili scenari, Smith smentisce dunque il suo stesso presupposto di fatalità della sconveniente unione di Europa e Africa. Si tratta, scrive Smith troppo tardi, di uno scenario ipotetico che potrebbe verificarsi solo a due condizioni: che l’Africa esca dalla situazione di povertà in trent’anni e che le diaspore che Smith prevede arbitrariamente si verifichino realmente.

Il risultato è che, attraverso molteplici forme di sensazionalismo, Fuga in Europa offre comodamente un presunto fondamento scientifico a ideologie che, sotto il paravento di una demografia da bar (come l’ha definita Heran), finiscono per depoliticizzare delle scelte in linea con i programmi politici più o meno esplicitamente xenofobi. Il tutto in un libro in cui si leggono molte frasi di questo tenore: «d’ora in avanti, i buoni auspici provenienti dall’Africa saranno dei funesti presagi per l’Europa».

Eppure, le scienze sociali non hanno il compito né di allarmare né di rassicurare, ma di prendere la misura delle cose, di chiarirne le proporzioni, i fattori, le ipotesi, le forme di articolazione, la natura degli elementi in campo, e così via. Lamentare la tossicità di un contributo come quello di Fuga in Europa non significa rifiutare di sentirsi dire cose diverse da quelle più vicine alle nostre sensibilità e visioni politiche o ai nostri desideri, né significa voler ignorare chi «finalmente dice le cose come stanno», come si sente troppo spesso dire: significa invece pretendere da tutte le voci e da tutte le posizioni uno stesso rigore morale, scientifico e politico.

Fuga in Europa Stephen Smith

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