La Diaz, Franco Fedeli e la polizia democratica. Storia di un fallimento (3)

[Qui la prima, la seconda, la quarta e la quinta parte]

Tracce di testo: verità giudiziaria e possibilità storica

Oggi la Corte di Cassazione si esprimerà definitivamente (salvo rinvii ulteriori) su quanto avvenuto undici anni fa alla scuola Diaz. La responsabilità penale in Italia è individuale: ciò significa che per il nostro ordinamento si può condannare una persona per la sua condotta criminosa se si prova il suo coinvolgimento specifico oltre “ogni ragionevole dubbio”. È un principio di garanzia molto importante ma ci dice anche che a volte la verità giudiziaria, la fonte, l’archivio contenuto fra le pagine delle sentenze è solo una parte di verità [1].

Tutti i problemi che la Diaz ha sollevato per quanto riguarda i rapporti fra polizia e cittadini fra polizia e società democratica, fra uso della violenza legittima e diritto al dissenso, tutti questi problemi resteranno in piedi qualunque sia l’esito della sentenza.

Solo un lavoro culturale di lungo periodo soprattutto all’interno ma anche all’esterno della polizia che marchi esplicitamente la distanza con l’idea repressiva, gerarchica, corporativa della gestione dell’ordine pubblico e della difesa a oltranza del proprio operato può invertire la dinamica del silenzio e del segreto. Alla luce di questi punti cercherò di analizzare alcuni testi o frammenti (interviste articoli, libri, sentenze), diversi fra loro, ma accomunati da alcuni rimandi impliciti ed espliciti non tanto ai fatti della Diaz ma alle premesse storiche che possono aver contribuito a causarne la condizione di possibilità.

Angela Burlando, poliziotta genovese e sindacalista, a brevissima distanza dal G8 ebbe a dire coraggiosamente:

La struttura polizia ha funzionato a protezione di se stessa. Cioè: io polizia proteggo il mio nome. Io invece credo che quando si sbaglia si debba avere il coraggio di dire ho sbagliato.

mentre

persone che quantomeno a livello di procedure amministrative avrebbero dovuto essere punite, sono state di fatto promosse anche se la cosa non è apparsa, non è diventata pubblica.

Nel corso dell’intervista l’ex questore Burlando, nella sua disamina coraggiosa dei problemi relativi alle forza dell’ordine, ci dà qualche implicito suggerimento sottotraccia di non facile interpretazione. Sostiene infatti che “[la notte della Diaz] indipendentemente dalla volontà di colpire lì, molte cose sono successe perché sono saltati i nervi a persone che lavoravano da ore sotto il caldo, tra i gas”. Queste parole sembrerebbero accreditare la tesi della violenza emotiva che per quanto ingiustificabile si spiega a partire dal contesto di stress fisco e psicologico a cui erano sottoposti gli agenti delle giornate genovesi. Ma subito dopo, con una sorta di cambio di marcia, afferma:

Alla Diaz c’era solo la polizia; anzi, io dico “quella polizia” e il problema anche etico è di quella polizia […] so per certo, anche se non sono riuscita a sapere i nomi, che c’è stata gente che non è entrata alla Diaz. Magari poi qualcuno ha finito con il firmare dei verbali trovandosi nei guai. Ma non era entrata dentro la scuola. La Diaz è una pagina oscura.

Ho inizialmente trovato sorprendente questa apparente contraddizione interpretativa: come è possibile che le cose siano successe “perché sono saltati i nervi”, dunque all’improvviso, e allo stesso tempo “c’è stata gente che non è nemmeno entrata alla Diaz”, sapendo evidentemente cosa sarebbe successo o quantomeno cosa sarebbe potuto succedere? Perché, mi sono chiesto, alcuni non sono entrati alla Diaz? In realtà non credo che le parole di questa donna impegnata nel sindacato di polizia siano contradditorie nel senso classico (una tesi falsifica l’altra). Credo invece che lette in controluce possano fare emergere alcune contraddizioni culturali in seno alla polizia: possano aprire dei conflitti vivi in cui i nervi che saltano [2], le procedure sbagliate, l’idea repressiva di ordine pubblico, il senso di impunità, l’addestramento militare e gerarchico, l’ambiente e la cultura verticale e chiusa alle critiche della società siano tutti elementi che concorrono a produrre gli effetti devastanti che abbiamo “visto” alla Diaz.

Parlando dei fatti [3] avvenuti alla cittadella della polizia, alla Fiera del Mare, testimoniati da molti cittadini, Burlando continua:

Molti agenti che cantavano “Faccetta nera” sono venuti fuori da questa polizia da un governo che era anche quello precedente e di altri precedenti. Come abbiamo fatto a far nascere da questa polizia moderna e garantista delle persone che si comportano in modo così sbagliato? Perchè queste persone non vengono punite? È difficile accertare queste responsabilità perché il “fenomeno” di “Faccetta nera” era enorme. [4]

Questa testimonianza che viene dall’interno della polizia è doppiamente preziosa ma anche molto inquietante. Perché se nel nuovo millennio all’interno della polizia “il fenomeno di Faccetta nera [è] enorme” e a dirlo è una poliziotta, allora emerge chiara la dimensione del problema.

Un problema culturale come quello di un profondo autoritarismo dalle vaghe cornici fascisteggianti non può essere risolto da una sentenza giudiziaria, né indagato in maniera esaustiva dai materiali d’indagine. Alcune tracce però possono rimanervi incollate come in una ragnatela. Spulciando le carte istruttorie, gli interrogatori dei testimoni, alcuni dettagli possono fornirci indicazioni che vanno oltre l’accertamento delle responsabilità penali individuali ma ci parlano di un clima, di un ambiente, di un modo di procedere. È quello il luogo dell’indagine sociale, il punto intermedio fra narrazione dei fatti e accertamento giudiziario da cui lo storico della cultura, il regista, l’osservatore della realtà, lo studioso, può seguire una pista.

Leggiamo ad esempio alcune osservazioni del Procuratore Generale svolte durante il processo d’appello:

Contrariamente a qualsiasi norma e disposizione – non di legge ma – di regolamento ed anche buon senso, zaini, borse, non solo furono raggruppati, ma –insensatamente – furono del tutto svuotati a formare una catasta, sì che poi non sarebbe stato possibile attribuire a nessuno tali eventuali “armi”. Soprattutto, nessuno avrebbe potuto in alcun modo dimostrare la propria innocenza, non solo perché a nessuno sarebbe stato possibile attribuire la specifica condotta di reperimento e trasporto delle armi all’interno della scuola, ma anche perché, nell’affermare falsamente che le armi “erano a disposizione di tutti”, tutti sarebbero stati corresponsabili.

Così il PG descrive le modalità con cui la polizia giudiziaria “raccoglieva le prove” la notte della Diaz. E prosegue più avanti:

La premeditazione di tutti emerge anche dal loro stesso abbigliamento, posto che tutti indossavano i caschi o i foulards d’ordinanza per nascondere il volto. E se i caschi potrebbero essere stati indossati per motivi di sicurezza personale, tanto non può dirsi nemmeno astrattamente per i foulards. Ed infatti, proprio il nascondimento dei volti ha impedito il riconoscimento e la condanna di tutti i responsabili materiali delle violenze.

E il giudice d’appello accogliendo i rilievi del PG prosegue:

Ad ulteriore conferma il P.G. ricorda che nessuno dei colleghi della polizia ha voluto concorrere a identificare, neppure a posteriori, il poliziotto dalle caratteristiche assai peculiari (acconciatura dei capelli a “coda di cavallo”) che è stato ripreso mentre infieriva su una persona ferma, inerme ed arresa; ricorda anche che nessuno dei colleghi della polizia ha voluto concorrere a identificare, neppure a posteriori, il poliziotto che ha firmato con la sigla i verbali di arresto di cui all’imputazione.

Non sappiamo se il poliziotto con l’acconciatura dei capelli a coda di cavallo sarà mai riconosciuto. Non sappiamo se queste osservazioni avranno un loro corrispettivo penale nella sentenza di oggi, o se saranno considerate inutili ai fini dell’accertamento delle responsabilità individuali. Di certo questi aspetti denotano un certo tipo di approccio che il movimento per la riforma della polizia avrebbe voluto cancellare o quantomeno combattere.

ll movimento

La polizia aveva un movimento. Dalla metà degli anni sessanta, fino al 1981 anno della riforma, i poliziotti “movimentisti” avevano alle calcagna i loro colleghi e i carabinieri che li seguivano e facevano rapporto sulle loro attività sovversive. Erano sotto controllo continuo. Si riunivano di nascosto e scrivevano documenti da passare clandestinamente ai colleghi e allargare così il movimento. In alcune di queste carte si parlava di come la guardia semplice, il grado allora più basso, fosse impiegata spesso, al di fuori di ogni regolamento, in lavori di manutenzione della casa di un superiore: rifare il tetto, lo steccato, imbiancare i muri, fare da cameriere; in altre si parlava della deontologia del poliziotto [5]; in altre ancora si apriva un dibattito sul problema della libertà di espressione in polizia. Scriveva il commissario Ennio di Francesco “Bisognava fare qualcosa per uscire da quell’equivoco dalle profonde radici storiche: i poliziotti non potevano né dovevano essere utilizzati come guardiani armati contro altri cittadini. Il ruolo assegnato loro dalla Costituzione era quello di garantire la sicurezza di tutti i cittadini, non quello di essere utilizzati per tamponare con la forza conflitti sociali non affrontati politicamente” [6]. Un altro aspetto centrale di questi anni si ritrova nel tentativo del movimento di dotarsi oltre che di strutture organizzative, di strumenti culturali e giuridici in modo che “più l’apporto del personale di P.S. sarà qualificato e puntuale nei consigli, nelle proposte in modo da poter influenzare positivamente le decisioni delle camere, tanto più esso avrà la possibilità di essere accolto e di contribuire a realizzare una riforma seria e soddisfacente” . Per questo il giornale di Fedeli – “Nuova Polizia e riforma dello Stato”, dichiaratamente organo del movimento, e gli stessi coordinamenti dei poliziotti nelle manifestazioni pubbliche e nei convegni, si gioveranno della presenza di una serie di figure della cultura, della politica, della magistratura e del mondo giuridico che ne accompagneranno i passi in quelli che riteniamo siano gli anni di massimo sviluppo e di crescita dell’elaborazione politica, professionale e culturale del movimento. Giuseppe De Lutiis (storico), Franco Ferrarotti (sociologo), Luciana Castellina (Giornalista) Battimeli, Barone, Berardi, Neppi Modona (magistrati), Gino Giugni (Giurista), Stefano Rodotà (Giurista), Luciano Violante (magistrato), Giuliano Amato (giurista). Nomi che oggi riconosciamo e che, anche se un po’ meno noti, negli anni settanta non era infrequente trovare sul giornale di Fedeli a discutere con i poliziotti sui rapporti fra il mestiere di tutore dell’ordine e i suoi possibili significati politici. Il progetto del movimento dei poliziotti non era dunque un progetto a breve termine: un aumento di stipendio, o meno ore di lavoro. Non era un progetto corporativo ma culturale e di lungo periodo. È questo respiro culturale e di lavoro costante sui territori ha portato dopo asprissime lotte, resistenze politiche e dei dirigenti di polizia nell’aprile del 1981 alla riforma della polizia e alla legalizzazione del sindacato. Qualcosa però inizia ad andare storto già appena dopo l’approvazione della riforma. Già dalla metà degli anni ottanta questo progetto cominciò a subire i colpi degli avversari interni ed esterni. Il sindacato unitario SIULP – che raccoglieva più della metà dei poliziotti in servizio e che con molti militanti era stato l’artefice principale delle spinte di rinnovamento – accentuò molto quello che era stato un errore originario: la centralizzazione della dirigenza. I capi del sindacato stavano a Roma, i convegni si facevano a Roma, le grandi manifestazioni si facevano a Roma. Questo impediva al movimento periferico, delle altre regioni d’Italia, di contribuire a stabilizzare una pratica di polizia laica, repubblicana, democratica che non era più quella della prima metà del secolo. Le esigenze differenziate dei territori invece di trovare un coordinamento attivo a Roma, subivano una standardizzazione degli interventi dall’alto verso il basso, dal centro alla periferia con ricette e soluzioni unilaterali. Inizia così uno sfilacciamento e una burocratizzazione del movimento che produce una polizia molto diversa da regione a regione che accoglie molto diversamente le spinte al rinnovamento. In breve i sindacati si moltiplicano, si frammentano cedono a nuove lusinghe corporative e a dispetto della volontà unitaria dichiarata in meno di vent’anni passano da tre a più di venti [8].

Oggetto del prossimo intervento sarà il tentativo di comprendere almeno in parte questa frammentazione dentro il sindacalismo di polizia per rendere conto anche dei tanti poliziotti che si impegnano nel dibattito pubblico e che oggi s’interrogano sulla loro formazione, sull’addestramento, sulla disciplina e sulla libertà d’opinione formale e reale all’interno della Polizia di Stato.

Note

 


[1] Bisogna individuare dunque nome e cognome di chi ha commesso lo specifico reato; non basta sapere che si trovava nel posto in cui sicuramente sono stati commessi reati e anche gravi (la scuola Diaz) ma bisogna provare la responsabilità diretta o indiretta ma personale. Per questo motivo, non essendo stati denunciati dai propri superiori o parigrado, unici testimoni sul posto, tutti gli agenti che hanno materialmente commesso gli abusi non sono stati individuati. I magistrati hanno dunque scelto di procedere con la individuazione dei dirigenti e comandanti responsabili delle squadre che hanno fatto irruzione alla Diaz.In questo quadro ed in questa conformazione della forza, predisposta da coloro che avevano funzioni di coordinamento e comando, consegue per il P.G. l’attribuzione anche ai dirigenti di tutti i reati, e con più grave responsabilità, a titolo di concorso morale e materiale, anche per violazione dell’obbligo giuridico di impedire il fatto reato ai sensi dell’art. 55 c.p.p., per l’eventuale assistenza passiva al crimine da parte di superiori gerarchici che rende ininfluente, in questo quadro, l’accertamento degli esatti movimenti compiuti da ciascuno (dalla sentenza d’appello del 18-05-2010, p.198).

[2] Resta importante la testimonianza raccolta da Zinola in Ripensare la polizia, Fratelli Frilli Editore, 2002, in cui il poliziotto e sindacalista Alessandro Pilotto racconta: “Va comunque notato che così bardato con 10-15 Kg tra tuta, stivali, casco, armamento individuale, sfollagente, maschera antigas addosso, l’agente di o.p. non è in grado di attuare azioni veloci come l’inseguimento dei facinorosi [si parla dei black blok in piazza]; la maschera antigas e la mancata traspirazione epidermica, dovuta ai materiali sintetici delle divise provocano forti difficoltà respiratorie […] il gas sulla pelle brucia, l’ortocloro penetra le divise, si mischia al sudore nei punti più delicati del corpo, l’inguine, il collo, le pieghe della pelle; sembra che a contatto con l’acqua (il sudore) liberi acido cloridrico”. (pp. 124-125)

[3] Testimoni attendibili e non di parte raccontano di canti notturni e di “sirenate” dei poliziotti con le auto di servizio al ritmo di “Faccetta nera”.

[4] Le parole di Angela Burlando sono tratte da un intervista raccolta da Zinola, 2002, cit.

[5] Cfr. ad esempio Lehner G., Deontologia del poliziotto, in “Nuova Polizia e Riforma dello Stato”, anno III, N. 3, Marzo 1978, p.17. Nello stesso numero si veda anche Democrazia e paura, il dibattito ospitato dalla rivista fra Stefano Rodotà e Luciana Castellina a pp. 6-9.

[6] E. Di Francesco, Un commissario, con prefazione di Norberto Bobbio,Marietti,1990.

[8] E. Di Francesco, Un commissario, cit., p. 110.

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