La Diaz, Franco Fedeli e la polizia democratica. Storia di un fallimento (2)

[Qui la prima, la terza, la quarta e la quinta parte]

1- la Diaz come universale e il grande vecchio

Si dice che al film di Vicari manchi il racconto dei mandanti politici, responsabili dell’operazione Diaz. Ammesso che si creda possibile una strategia del potere così lineare e gerarchicamente ordinata (Fini nella sala operativa che ordina o persuade De Gennaro ad alzare il livello repressivo; De Gennaro inoltra ai responsabili dell’ordine pubblico a Genova questa direttiva; questi comunicano ai propri comandanti di reparto di lasciare le briglie sciolte ai rispettivi agenti; gli agenti eseguono con brutalità e si prendono anche qualche soddisfazione) [1], un’indicazione di responsabilità che eccede il contesto genovese e proviene direttamente da Roma, dal palazzo, è presente nella pellicola di Vicari. È il vecchio. Arriva in aereo da Roma ed esautora o sembra esautorare tutti. Tornerò più avanti su questo punto ma prima è forse utile provare a indicare una delle direzioni possibili verso cui il film si muove.

Per quanto riguarda le responsabilità politiche dell’accaduto o la decontestualizzazione rispetto alle ragioni e alle lotte del movimento (francamente presentato in maniera riduttiva, esponendone la litigiosità interna e i problemi organizzativi, più che le proposte politiche) alcune critiche sono pertinenti e forniscono uno stimolo ulteriore alla ricerca di informazioni utili ad inquadrare quei giorni. Il film si priva di uno sguardo d’inchiesta da cinema politico – sulla scia di Rosi (Le mani sulla città, 1963) o Damiani (Io ho paura, 1977) – o di una rappresentazione mitologica e concretissima insieme come in Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970), scegliendo di concentrare tutta la sua attenzione più sui risultati che sulle cause di quel complesso di responsabilità che coinvolge esponenti della politica e della dirigenza della polizia. Questi attori sociali e politici però non coincidono necessariamente con il potere, con i poteri: di questi è necessario dare conto in maniera complessa. Come cercherò di mostrare, più che nelle sale operative di comando o nelle piazze durante le manifestazioni, trovo che l’esercizio dei poteri si possa rintracciare in altri luoghi, più quotidiani, come nella vita di commissariato o nelle scuole di polizia, nelle carceri, nelle strade delle città. La Diaz è un luogo intermedio in cui la violenza dei poteri, di certi poteri, si è riversata sicura dell’immunità, ma non è il luogo di costituzione di quella violenza e di quella immunità.

Il film sembra puntare, scegliendo di non citare i nomi dei poliziotti coinvolti a vario titolo nelle inchieste, su una sorta di universalizzazione della storia affinché non si scambi la condotta dei singoli (pur importantissima ai fini giudiziari e di responsabilità penale civile e politica) e l’individuazione dei colpevoli con (tutta) la verità e la giustizia.

Diaz come universale della violenza di stato non ha dunque come obiettivo l’inchiesta in senso stretto [2], ma è quasi un apologo nero sulle nostre democrazie e sui loro apparati. Si può dunque criticare la scelta di Vicari di non aver citato i nomi dei condannati ma riguardando le scene in cui viene organizzato il blitz emerge il posizionamento del regista: una giovane poliziotta che non comprende la provocazione della polizia davanti alla Diaz viene zittita con una prescrizione verbale che è una sintesi esaustiva di un modello di polizia: “Lo conosci il grado della collega? Non fai domande, ci dai del lei e ti mangi il panino e stai zitta” [3]. E lei non può che magiare il panino. Per fare ancor qualche esempio, si pensi alla scena della fabbricazione artefatta delle prove. L’articolo di legge su cui si basa la perquisizione alla Diaz fa parte del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Si parla di un Regio Decreto approvato in età fascista [4] (art. 41 R.D. 18 giugno1931 n. 773 TULPS) che consente alla polizia giudiziaria di perquisire un luogo pubblico o privato in presenza di armi da guerra. Vicari mostra che le armi da guerra (le due bottiglie Molotov) furono portate dentro la scuola dall’esterno da alcuni operatori di polizia. Ancora un’indizio, una traccia di premeditazione e di responsabilità dei dirigenti.

Un’altra scena in cui a mio parere emerge chiaramente la posta in gioco del film è l’avanzata nella notte delle camionette della polizia ripresa dall’alto. Sembrano centinaia, attraversano le strade di Genova con inesorabile lentezza e si dirigono verso il luogo dell’irruzione. La distanza da cui lo spettatore guarda questa carovana luminosa che si muove senza rumore sembra riecheggiare quella fra il mondo del diritto e quello del non diritto. Infatti, nelle scene precedenti, si nota una proliferazione di codici, leggi, ordinamenti e regole pronunciate nella sala della questura di Genova da quasi tutti i dirigenti. È il mondo del diritto scritto, enunciato, formale. C’erano state alcune avvisaglie di questo movimento: nella mensa approntata per i poliziotti la notte dell’irruzione, un comandante chiede ad un suo superiore come si possa fare una perquisiszione se non si hanno le foto segnaletiche “De questi anarco….black block”. La risposta sbrigativa “Ma quali foto…”, costituisce una prima incrinatura di quel mondo del diritto da cui ci si sta per allontanare. Inoltre, tutte le scene a Bolzaneto escludono qualsiasi esplosione spontanea e contingente della violenza ma anzi denunciano una premeditazione e una volontarietà della messa in opera di pratiche di tortura. Infine, il comandante che mette fine al massacro urlando “Basta, basta!”, fila via da Bolzaneto dopo aver sentito le urla degli arrestati e, sebbene sconvolto, va a fare colazione. Siamo ben lontani da una visione “equilibrista” come sostenuto da Agnoletto o deresponsabilizzante nei confronti della polizia. La colpa però, sembra dirci Vicari, va ben oltre coloro che quella violenza l’hanno decisa ed esercitata alla Diaz e che dovrebbero comunque essere puniti (una didascalia al temine del film segnala che nessun poliziotto indagato e condannato in appello è stato sospeso dal servizio). “Diaz” è innanzitutto il racconto di una violenza perpetrata ai danni di 93 innocenti ma è anche una metafora dei casi CucchiAldrovandiBianzino; è una metafora dei fatti della uno bianca. È una spia, una traccia di un problema storico, strutturale e concreto e che trova il suo luogo nella polizia di stato.

Tornando all’accenno iniziale sulle responsabilità politiche credo sia importante sottolineare la presenza nel film del personaggio che abbiamo chiamato il vecchio [5]. Le teorie complottiste della nostra storia italiana, evocano spesso la figura del “grande vecchio” ma non è in questo senso che si presenta il personaggio del film di Vicari. Molti hanno riconosciuto l’ex prefetto Arnaldo La Barbera, che fu effettivamente mandato a Genova da De Gennaro ma che, non essendo ufficiale di polizia giudiziaria, non avrebbe potuto trovarsi alla Diaz. Di fatto, sembra che spetti a lui la decisione ultima sulle modalità dell’irruzione. A parte la sovrapposizione possibile fra il personaggio del film e La Barbera, ciò che conta a mio parere è la figura che evoca: è l’uomo inviato da Roma che arriva in aereo e decide, al sopra tutti, il da farsi. È così stabilito un collegamento, pur vago, ma non invisibile, fra le responsabilità contingenti e una strategia repressiva che viene dall’alto. Semmai sono le effettive modalità di distribuzione del potere e di articolazione delle responsabilità che non vengono prese in esame, indagate. Il vecchio arriva e offre un ventaglio interpretativo possibile sul suo ruolo e sulla sua identità: potrebbe essere La Barbera ma contemporaneamente De Gennaro, Scajola, il Palazzo. Anche se non perfettamente riuscita, la scelta di non fare nomi espliciti forse consente all’opera di Vicari di muoversi dentro e fuori la contingenza, il fatto in sé; di aprire spazi di analisi possibili sulle molteplici traiettorie di azione del potere, dei poteri.

2- la polizia democratica

Franco Fedeli era un partigiano. Dopo la resistenza si mise a fare il giornalista. Fu anche il direttore, durante gli anni sessanta, di una rivista che si chiamava Ordine Pubblico; era una delle riviste che si occupavano dell’allora corpo delle guardie di pubblica sicurezza, cioè della polizia nel periodo in cui aveva un ordinamento militare. Fedeli trasformò quella rivista da bollettino di una corporazione a luogo di elaborazione di alti contenuti politici, la cui riflessione partiva dalla polizia ma in realtà parlava del grado di democrazia reale del nostro paese. Migliaia di poliziotti durante la seconda metà degli anni sessanta e durante tutti gli anni settanta iniziarono prima ad inviare lettere al giornale di Fedeli per raccontare i modi in cui venivano tiranneggiati dai superiori, poi ad intervenire più decisamente nel dibattito sul significato della “repressione”, sul ruolo della polizia in un paese democratico, sul lavoro del poliziotto all’interno della cornice costituzionale in mezzo agli altri lavoratori. Se si leggono i comunicati dei poliziotti di quel periodo si nota che, pur partendo da posizioni in parte corporative e di difesa della categoria da vessazioni di ogni genere, si arriva anche ad analisi e rivendicazioni che vanno oltre le mura della caserma e che si allargano alla società e alla città.

Ancora una volta il codice penale militare è servito a mettere in atto quell’azione persecutoria che quotidianamente pende sulla testa di tutti i dipendenti della pubblica sicurezza. Continuano a spremerci come limoni, a pretendere sempre di più come se i nostri fisici non avessero limiti di resistenza. È ora di finirla, la Costituzione italiana consente a tutti i cittadini di associazione sindacale e il sindacato è l’unico strumento che garantisce ai lavoratori un equo trattamento morale e materiale, noi pretendiamo l’immediata formazione del sindacato di polizia [6].

Diceva così un comunicato firmato da cinquecento agenti di polizia stradale dopo la incriminazione di due di loro che si erano rifiutati di entrare in servizio dopo quindici ore di lavoro. Se si pensa poi alla formazione e si legge cosa scriveva un allievo sempre alla rivista di Fedeli, si capisce che non c’era solo una rivendicazione corporativa da parte degli agenti ma anche una riflessione e un’analisi sul ruolo del proprio lavoro

[…] Alla scuola sottufficiali la concezione dell’aula è stata completamente dimenticata. Si pensa esclusivamente al servizio di ordine pubblico e molto, moltissimo alla disciplina, alla rigorosità su cui è imperniata la vita di caserma. Una vita questa sacrificante, opprimente snervante dura su tutti i campi, e che l’allievo sottufficiale viene costretto a condurre per guadagnare il grado di vicebrigadiere che in teoria ha acquistato un anno prima con il superamento delle prove orali e scritte. Gli estenuanti servizi espletati sono delle più varie qualità […]. Disastrosi i turni dei servizi i quali richiedono una grande saldezza di nervi, specialmente quando capita di alzarsi di notte quando capita di andare in città in servizio di ordine pubblico. Ci sono allievi sottufficiali ormai fatti uomini, uomini come carattere, uomini con una famiglia e forse dei figli a carico, che possono essere richiamati , puniti per banali motivi, a causa di un comandante che vede la disciplina come unico mezzo per guidare una scuola sottufficiali di p.s., mentre non comprende sotto il profilo umano e morale la situazione, le difficoltà in cui vengono a trovarsi questi uomini i quali vogliono guadagnarsi il grado per avere un domani migliore, con una migliore situazione economica, giuridica e sociale. Io ragazzo di ventidue anni queste cose le capisco, le comprendo e le posso sopportare, ma non posso rimarcare che con questa prassi si ottiene solo una formazione di sottufficiale sotto il profilo militare e non sotto quello professionale [7].

Ancora, per sentire la voce di un altro poliziotto durante un’assemblea

Per noi [dice un vicebrigadiere] Fosse Ardeatine, fratelli Cervi, Marzabotto non si sono verificati…per noi non c’è stata la Liberazione! Alcuni esempi? Facile: benché la costituzione dica che non ci sono divieti per polizia magistratura ed esercito ad appartenere ad un sindacato… mentre vieta l’iscrizione ai partiti…per noi questo non è vero.. si dice che la libertà personale è inviolabile… per noi è violabile! Basti pensare alle ispezioni e alle informazioni raccolte su di noi dai CC e persino sui nostri parenti più lontani.

Oppure, dalla stessa assemblea

Ma voi lo sapete cosa c’è scritto sulla bacheca… sui fogli dei turni di servizio? … Andateli a guardare c’è scritto 8-fine oppure c’è scritto 15-fine cioè noi sappiamo quando iniziamo ma non sappiamo quando finiamo [8].

Ecco che ci si presenta un quadro in cui un movimento di poliziotti democratici mette in discussione alcune parole d’ordine ed alcune pratiche presenti all’interno di un corpo militare. Quel fuoco divampò per tutti gli anni settanta fino a contribuire ad una riforma (invero molto parziale ma importantissima) in senso civile della polizia di stato. Siamo nel 1981: la polizia italiana è repubblicana, democratica, smilitarizzata e (dunque) civile; inoltre può organizzarsi attraverso i sindacati. Dal 1981 al 2001, l’anno della Diaz, sono passanti vent’anni in cui, non solo per quelle 93 persone innocenti, si è consumato un fallimento. Bisogna raccontare, o almeno provarci, cosa sia accaduto in questi vent’anni alla componente più avanzata della polizia di stato.

Note

 


[1] Secondo Vicari, quest’ultimo elemento è comunque presente. In un dialogo fra due comandanti di reparto che polemizzano sulla mancata carica del giorno prima, uno dei due dice “Ma che t’è preso ieri? Perché nun hai caricato? I ragazzi so incazzati…era l’ultima occasione pe’ pareggià il conto co’ quelle merde”.

[2] Un’inchiesta in senso classico è condotta da Lorenzo Guadagnucci e Vittorio Agnoletto in L’eclisse della democrazia,Feltrinelli, 2011. Invece, un lavoro che cerca di entrare più nel profondo di alcune dinamiche di lungo periodo è il già citato lavoro di ZinolaRipensare la polizia e anche Salvatore Palidda, Polizia postmoderna.etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, 2000.

[3] Gigi Notari sindacalista e poliziotto molto impegnato nelle lotte sulla trasparenza e la democrazia in polizia lamenta da tempo una priorità verso la gerarchia, verso una chiusura ottusa nei rapporti fra gradi di polizia, Cfr. Zinola, cit., p. 116-117.

[4] Sebbene emendati, i testi di legge riguardanti l’ordine pubblico risentono ancora di un approccio autoritario come segnalato sin dalle prime riunioni segrete dei poliziotti democratici.

[5] La figura del vecchio è analizzata, tra gli altri, da Wu ming 1 nel saggio Memorandum 1993-2008: narrativa, sguardo obliquo, ritorno al futuro.

[6] Ordine Pubblico, Settembre 1974, p. 9.

[7] Ordine Pubblico, Aprile 1974, p. 8-9.

[8] Ordine Pubblico,4 Luglio-Agosto 1974, p.3

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