La cura della fragilità: il sentiero da intraprendere per creare il futuro

Pubblichiamo la recensione di Andrea Ferraretto, giornalista e scrittore, al volume “Non più e non ancora. Le aree fragili tra conservazione ambientale, cambiamento sociale e sviluppo turistico”, recentemente pubblicato da Rita Salvatore ed Emilio Chiodo (con prefazione di Giorgio Osti) per Franco Angeli.

fragilità aree interne

 

L’immagine di una cerva, con accanto il suo cerbiatto, che cammina con calma lungo la strada di pietra di Civitella Alfedena, descrive, con l’emozione giusta, l’idea alla base di un lavoro di ricerca sulle aree fragili condotto da Rita Salvatore ed Emilio Chiodo. Un libro che affronta la complessità di sistemi territoriali che, in modo fin troppo sintetico, siamo abituati a chiamare “aree interne”.

Non più e non ancora (Franco Angeli, 2018) è un percorso lungo i sentieri che delineano le opportunità e i limiti delle politiche di sviluppo che, da tempo, si attendono in queste aree, fragili ma, al tempo stesso, avvolte nella bellezza della natura e del silenzio.

Aree marginali ai modelli di sviluppo del passato, dove le montagne e le condizioni di difficoltà imposte da un territorio impervio, hanno determinato abbandono e senso del vuoto. Nel lavoro raccolto in questo libro ricorrono, spesso, due termini: comunità e sviluppo, descritti, analizzati, contestualizzati in un quadro di riferimento che richiama le esperienze e gli studi condotti, a livello internazionale, nel campo della promozione di modelli che possono essere, realmente, un’opportunità per creare il futuro.  Una comunità capace di custodire e curare il capitale naturale, adottando pratiche di gestione che tutelino l’integrità degli equilibri e il loro costante rinnovamento, in grado di permettere uno sviluppo basato sulla capacità di amministrare con buon senso, senza consumare e perdere capitale. Attraversando i paragrafi del libro vengono alla mente le immagini dell’Allegoria del Buon Governo, di Ambrogio Lorenzetti, dipinte a Siena nel Trecento ma così attuali e capaci di descrivere il ruolo del sistema sociale per conservare l’ambiente e fondare la prosperità. Il tiranno, raffigurato nel Cattivo Governo, privo di lungimiranza e di senso di comunità lascia, dietro di sé, un ambiente depredato, reso arido e brullo, senza più né speranza né futuro.

La fragilità intesa come valore se coniugata con l’idea stessa di manutenzione, costante e concreta, del bene comune, del capitale naturale e del capitale sociale: dalla fragilità alla bellezza, in una direzione che prenda spunto dalla capacità di avere visione, mettendo, al centro, i tempi della natura, il ritmo che è alla base del funzionamento dei sistemi naturali. Una fragilità che è essenza stessa degli ecosistemi, dove la manomissione delle relazioni che legano ambiente e uso delle risorse naturali è alla base della prosecuzione, in un’ottica di sistema circolare, dei cicli che regolano la disponibilità di servizi ecosistemici.

Il titolo è, al tempo stesso, un programma di lavoro: aree non più marginali, aree non ancora integrate nei processi di sviluppo. Un’Italia che resta legata all’incertezza, a un cambiamento che, troppo spesso, è a fasi alterne, tra riforme annunciate e tagli degli investimenti, dove scompaiono le province ma restano i problemi di manutenzione delle strade e l’esigenza di far funzionare i servizi locali. Con i parchi che, a distanza di 25 anni dall’approvazione della Legge-quadro n. 394, non possono continuare a restare nel limbo, con poche risorse, con piani inattuati e personale ridotto all’essenziale.

Eppure non si sta discutendo di porzioni piccole e lontane, facili da dimenticare: qui si ragiona sulla condizione attuale e sulle prospettive di circa il 60% del territorio nazionale, dove vive il 23% della popolazione, in 4.000 Comuni. Boschi e montagne ma, soprattutto, borghi dove è necessario agire con la prospettiva del medio-lungo periodo, per innestare capacità e opportunità, investendo risorse, curando il patrimonio, creando competenze e professionalità.

Occorre uno sforzo culturale per comprendere che quelle montagne, quei borghi, quei sistemi naturali, sono il vero investimento nel futuro, per continuare ad avere la disponibilità di servizi ecosistemici e porre le basi per la gestione intelligente del capitale naturale. Una capacità di lettura dei paesaggi rurali che non sia solo estetica ma in grado di comprendere le funzioni svolte e il ruolo del mantenimento dei sistemi tradizionali. Un compito che non è solo di contesto locale ma riferito alla responsabilità, molto più ampia, di proseguire nella direzione tracciata dalle Nazioni Unite con l’Agenda 2030 e i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs).

Emerge, con chiarezza, che il cambiamento di passo necessario non è quello dei progetti isolati, in molti casi dettati dall’emergenza, ma una cura costante, cambiando la prospettiva di come affrontare le politiche dedicate allo sviluppo rurale, alla conservazione della natura, alla promozione del turismo. La “messa in sicurezza” non è solo quella evocata durante lo svolgersi di calamità, quando mettere in campo tutta la “macchina” dell’intervento straordinario ed episodico, quanto, piuttosto, un approccio continuo, capace di programmare e pianificare gli strumenti di adattamento e di resilienza. Non solo investimenti infrastrutturali “pesanti”, ma anche azioni volte a rafforzare le infrastrutture sociali, promuovendo formazione e innovazione, apportando competenze, capacità e intelligenze, dove la sfida è quella di governare il cambiamento, la transizione verso il futuro, ciò che, non ancora, deve prendere corpo.

Rita Salvatore ed Emilio Chiodo riportano le riflessioni a un caso concreto, quello del Parco nazionale d’Abruzzo, del Lazio e Molise, dove il borgo di Civitella Alfedena continua a svolgere il ruolo di laboratorio di sperimentazione di un modello innovativo di coinvolgimento della comunità locale e di sviluppo imprenditoriale legato al turismo. Un luogo importante per lo sviluppo delle esperienze legate al turismo nelle aree naturali protette che, oggi, è di fronte a un mercato complesso, con la necessità di rafforzare il sistema locale, cogliendo le domande che provengono da una molteplicità di clienti, difficilmente assimilabili in un’unica categoria. Civitella che creò la propria immagine investendo sul Lupo e sul restauro delle case di pietra, percorrendo la traccia disegnata da un parco nazionale che, alla fine degli anni ’60, intendeva proporre il turismo in un borgo dell’Appennino centrale dove ascoltare l’ululato e respirare l’aria che conservava le storie di briganti e lupari.

Il turismo di esperienza, che non conta più quanti turisti bensì quanti visitatori scelgano una destinazione, chiedendo, sempre di più, la possibilità di vivere i luoghi trovando un’offerta diversificata, dove il parco è l’occasione per identificare una costellazione di modi per fruire dell’ambiente naturale ed entrare in contatto con le identità locali. Borghi, cammini, percorsi tematici, possono essere il fulcro di una strategia di turismo lento e mobilità dolce: il passo che cambia è quello del visitatore ma, soprattutto, di chi opera nel settore del turismo, con la capacità di comprendere che la bassa velocità può essere un incentivo a migliorare la qualità dell’offerta, puntando sull’identità propria dei luoghi. Luoghi che hanno nomi propri e caratteri inconfondibili: Garfagnana, Carnia, Lunigiana, Marsica, Sannio, Marmilla, Montefeltro, Cilento, Collio, Langhe, Sabina, sono alcuni di quei territori che riconosciamo proprio in base al paesaggio.

L’esperienza della Transiberiana d’Italia, la linea ferroviaria tra Sulmona e Isernia, diventata un caso del turismo ferroviario europeo, deve far riflettere: destinata a essere chiusa e abbandonata è tornata, grazie alla passione dell’associazione Le Rotaie, a essere un elemento importante per la promozione del territorio. Ogni anno sono più di 15.000 i viaggiatori che scelgono di percorrere quella linea che porta nel cuore della Maiella: ciò che ieri sembrava essere un ramo secco, oggi, è un’opportunità, su cui innestare progetti e competenze per lo sviluppo dell’area, con il treno che accompagna i visitatori alla scoperta delle bellezze del luogo, reinventando il turismo e l’offerta di fruizione, sostenibile e innovativa.

Non più e non ancora è un libro da leggere con attenzione proprio perché permette di ricostruire il rapporto che lega l’idea di sviluppo locale alla cura del territorio: permette di leggere il cambiamento in atto, con il fattore “fragilità” che impone un cambio di visione e una prospettiva che non può fermarsi all’immediato bensì alla transizione. Si respira la passione civile degli autori, con lo sforzo di visione che va ben oltre i perimetri amministrativi dei parchi e tende a mettere in evidenza il valore della fragilità, intesa come patrimonio collettivo che è necessario tutelare e non dimenticare. Un libro che è lo stimolo per continuare nella direzione indicata dalla Strategia nazionale per le Aree Interne, rafforzando la visione complessiva che riguarda parti consistenti del nostro paese, dove è necessario apportare investimenti, materiali e immateriali ma, soprattutto capacità di cambiamento e innovazione.

La cerva di Civitella Alfedena è il simbolo di questo sforzo di visione, in un’Italia che vive l’incertezza di un mondo che cambia, tra la siccità e l’abbandono delle aree interne, con la paura delle migrazioni che non possono essere considerate una questione relegata solo alle zone costiere, ai margini di questo territorio. Un’Italia che ha il terrore dei lupi e degli orsi, visti come un incubo da estirpare. L’Italia più piccola e fragile, dove lo spopolamento e l’invecchiamento sono dinamiche da comprendere e affrontare, con politiche innovative, dove l’agricoltura, spesso eroica, è un elemento che è importante sostenere, proprio perché svolge la funzione di mantenimento degli equilibri naturali. Non è un caso se possiamo riscontrare coincidenze, per esempio, tra la Direttiva Natura 2000 e le politiche di sviluppo rurale: il ruolo affidato alle aree semi-naturali è uno dei fulcri di quelle scelte di pianificazione territoriale che prendono forma attraverso sistemi complessi, come può essere individuato nelle reti ecologiche e nelle green infrastructures.

La cura della fragilità è la chiave di lettura di queste aree, dove abbandono e marginalità rappresentano un costo sociale che non possiamo permetterci. Il costo della dimenticanza è un danno collettivo, con la perdita di un elemento fondamentale per continuare a garantire futuro all’Italia intera: la distanza tra le montagne, i boschi e le aree urbane non è quella che può giustificare l’assenza di una strategia capace di assicurare tutela e manutenzione per queste aree. Occorre comprendere questa necessità di innovazione e di attenzione, perdendo di vista l’idea che marginale sia sinonimo di debole e di superfluo. La protezione di questi borghi è il presupposto per continuare ad avere l’opportunità di ammirare paesaggi vivi, paesaggi che sono il segnale di un’Italia che tutela la biodiversità e vuol bene al proprio futuro, un’Italia che sogna una rivoluzione fondata sulla bellezza e sul silenzio.

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