Su “La cultura del falso. Inganni, illusioni e fake news”, curato da Andrea Rabbito per Meltemi (2020).
Ho impiegato il massimo scrupolo nel mantenermi il più possibile aderente al senso complessivo dei discorsi effettivamente declamati. Ho ritenuto mio dovere descrivere le azioni compiute in questa guerra non sulla base di elementi d’informazione ricevuti dal primo che incontrassi per via; né come paresse a me, con un’approssimazione arbitraria, ma analizzando con infinita cura e precisione, naturalmente nei confini del possibile, ogni particolare dei fatti cui avessi di persona assistito, o che altri mi avessero riportato.
Tucidide Storie I 22, 1-2
Questo passo di Tucidide, uno dei più antichi padri della storia, pone un problema di una qualche rilevanza che trascende quello di come fare storia – cioè storiografia – e concerne una discussione di carattere comunicativo: ovvero come si trasmette un‘informazione. La risposta degli informatori antichi è chiara e sta nella repressione del falso: è il faticoso ma celebre metodo dell’autopsia, che riporta con esattezza e precisione la visione diretta del fatto ed effettua un vaglio estremamente scrupoloso delle altre fonti a propria disposizione.
La questione si fa diversa nell’arte, in cui, a ben vedere, la riproduzione di ciò che la natura crea, rende il falso, cioè la riproducibilità ingannevole, come connaturato all’opera stessa. Si pensi all’inganno tratto da Parrasio a Zeusi mediante la creazione dell’immagine di una tenda resa in maniera così realistica da spingere l’artista a chiedere che venisse spostata. Si pensi, soprattutto, sul versante della speculazione filosofica antica sull’arte, all’estetica platonica, affrontata nel dettaglio nel II-III e X libro della Repubblica. Nel dialogo risalta come pittori, scultori e poeti non producano oggetti d’utilità pratica, ma soprattutto (e qui torniamo al punto) come l’opera d’arte per Platone rimanga mimesis mimeseos, copia della copia, distante tre volte da ciò che veramente è e permane, cioè le imperiture ed eterne idee iperuraniche.
Come già ai primordia della cultura occidentale, così anche oggi la questione del falso corre su due binari paralleli. Essa riguarda sia la trasmissione dell‘informazione sia la veicolazione di contenuti a carattere artistico ed è esattamente questo il doppio focus intorno a cui ruota La cultura del falso. Inganni, illusioni e fake news (Meltemi 2020), nato da un progetto scientifico ed editoriale che ha visto coinvolti una trentina di studiosi, su iniziativa di Andrea Rabbito, docente di Cinema, fotografia e televisione all’Università degli Studi di Enna “Kore”.
Lo studio offre un ricco spettro interdisciplinare e una profonda indagine sia sincronica che diacronica riguardo alla complessa questione del falso. Nello specifico, il volume si offre come punto d’incontro di diverse discipline (principalmente estetica, culture visuali e mediologia in dialogo con filosofia del linguaggio, studi sul cinema, teatro e letteratura) che si confrontano per fare emergere le varie declinazioni della cultura del falso, le quali descrivono una loro più generale appartenenza a due diverse costellazioni che fra loro interagiscono: da un lato, quella della comunicazione, dall’altro, quella dell’arte.
In primo luogo, possiamo vedere, infatti, come alcuni studi del volume offrano una panoramica, ed anche una vera e propria definizione, di nuovi termini e fenomeni devianti e deliranti connessi all’era della digitalizzazione tecnologica e dell’iperrelativismo postmodernista, cioè ciò che è fake news, post-verità, hoax, bullshit, deepfake, raccontando le differenze tra tutti questi fenomeni. Un vademecum teorico, quindi, per orientarsi nei meandri della veicolazione dell’informazione nella cultura contemporanea e, soprattutto, delle sue storture con un apprezzabile intento etico-scientifico. Ma ancor più interessante è il fatto che, attraverso i diversi saggi dedicati al problema del fake informativo in vari contesti mass-mediali, si comprende come esso sia (lo dice Ruggero Eugeni in riferimento al grande fenomeno, a colpi di e-mail hackerate, post facebook e velati hashtag, del Pizzagate avvenuto durante la campagna elettorale Clinton-Trump nel 2016) “un ecosistema narrativo multi e intermediale dotato di storytelling abbastanza elastici da consentirne una gestione (pratica, cognitiva ed emotiva) condivisa”. Cioè, in termini più pragmatici, un modo in cui l’utente personalizza non solo l’informazione di cui fruisce, ma anche la stessa realtà in cui vive: indi una “customized reality” e cioè “una realtà personalizzata sul modello di molti principi della Rete”. De facto, e con anni luce di distanza da quanto abbiamo letto pocanzi in Tucidide, tra notizie veridiche e bufale, quindi, è evidente come ciascuno si costruisca una dimensione personalizzata della realtà in un frammisto di informazioni che sono sì di diverso statuto onto-gnoseologico ma che contribuiscono tutte a creare per ogni idea o opinione un contraltare argomentativo ad hoc.
Il secondo itinerario che il volume propone si concentra sull’analisi del rapporto tra falso e produzione d’arte nelle sue varie forme (pittura, fotografia e immagini tecniche, teatro, cinema, danza). La questione, qui, non è soltanto che l’opera d’arte nasce come fictio, cioè riproduzione, e quindi possiede una falsità insita e innata, ma che il fascino del falso produce (anche) nelle forme contemporanee d’arte un doppio movimento. Da un lato, come emerge dai vari contributi, nella creazione artistica ha luogo un paradossale tentativo di svincolarsi dalla fictio. È quanto avviene, ad esempio, come mette in luce il saggio di Marco De Marinis, nel metateatro di Pirandello o nello straniamento epicizzante di Brecht. Entrambi disvelano (ma con metodi di base diversi) e tingono di rosso le tecniche drammaturgiche, attoriali e registiche, enfatizzandole. Oppure come accade nella post-modern dance di Yvonne Rainer, in cui i movimenti ordinari eseguiti dal corpo sono inseriti in un contesto ballettistico che fa emergere come, heideggerianamente, “l’ordinario non è tale, è extraquotidiano, arcano”. Nella direzione opposta, invece, si situa il tentativo di forme d’arte o para-arte che tendono a riformulare l’opera accentuandone il quantum di falsità, come nel caso, analizzato da Enrico Carocci, dello stracondiviso fake trailer di Shining di Stanley Kubrick realizzato nel 2005 da Robert Ryang che, a fini chiaramente ludici, fa di un classico del cinema horror una struggente micro-commedia sentimentale.
In questo doppio movimento, cioè dal falso al disvelamento della falsità e dal falso alla caricatura del falso, il fruitore dell’opera d’arte vive, fintantoché dura la performance o la visione artistica, di queste illusioni. Queste illusioni si pongono alla base anche della fruizione di quelle immagini tecniche che intendono offrire documentazione oggettiva nell’ambito della comunicazione (ovvero documentari, reportage, video amatoriali su YouTube, telegiornali, ecc.) e che da illusioni estetiche possono virare in quelli che Rabbito definisce “inganni estatici”, che intensificano ed amplificano la fruizione e la credenza verso ciò che propongono i prodotti d’informazione e in definitiva anche i prodotti d’arte.
Il falso e tutte le sue declinazioni investono e intridono di sé sia veicolazione e assimilazione del messaggio informativo sia trasmissione e fruizione del messaggio artistico. La cultura del falso. Inganni, illusioni e fake news, trattandoli giustamente come due facce della stessa medaglia, fornisce un’ampia disamina di entrambi i fenomeni e si pone come uno strumento informativo essenziale – a tutti i livelli – per comprendere, saper distinguere e dominare fenomeni in pieno sviluppo nel mondo contemporaneo e che hanno a che fare con il nostro modo di personalizzare la nostra realtà, ma anche di fruire di un prodotto artistico e distinguere in esso il peso del quid falsi che lo accompagna.