Appunti sul seminario tenuto al Teatro Valle Occupato . Ripendiamoci il Valle (7)
Il 27 e 28 ottobre scorsi al Teatro Valle di Roma si è tenuto il seminario dal titolo “la costituzione del comune”, pensato dalla rete di docenti, attivisti, ricercatori che dal 2004 si è nominata Uninomade[1] e costruito in relazione al lavoro dei Comunardi, i quali hanno aperto, alimentato e concluso le sessioni di discussione delle due giornate. L’idea del seminario è tutta contenuta nel nome che si è dato: costituzione del comune.
Il primo termine indica da un lato, le costituzioni con la “c” maiuscola, i testi costituzionali come quello italiano, francese, americano più volte citato nel corso della discussione, nella loro problematicità e obsolescenza e dall’altro, la formalità del diritto costituito, la giuridicità come fatto compiuto, legale, dunque, inalienabile. Il secondo, comune, in relazione al primo, esprime invece l’orizzonte costituente, la materialità e espressività della prassi politica, il diritto vivo. La costituzione come “compromesso tra un testo e un contesto” che storicamente riflette gli interessi dell’èlite che esercita il potere costituente (Mattei), il comune come forma delle lotte (Hardt), della cooperazione sociale (Amendola) e del suo libero accesso alla gestione delle risorse materiali e immateriali.
L’intento di quanti hanno lavorato all’elaborazione del seminario, anche e soprattutto nei materiali preparatori circolati sul sito omonimo nelle settimane precedenti, era chiaro: porre il tema della costituzione, della sua disarticolazione, critica o dislocazione a partire dal dato di fatto delle lotte che hanno attraversato l’Europa, dalla Spagna alla Grecia, il Nordamerica (Occupy), il Nordafrica, (la cosiddetta primavera araba), dell’analisi della continuità e discontinuità delle stesse, delle rivendicazioni e dei principi che le muovono. Non da ultima, la necessità di discutere di queste cose muovendo dalla presa d’atto della crisi della sovranità nazionale e della ineludibilità di un “orizzonte costituente europeo”. In sintesi, a mio avviso, c’era un accordo implicito e comune sul tema del dissesto del paradigma democratico, di questi tempi appiattito su parlamentarismo (che è cosa diversa da rappresentanza, nella sua accezione generale) e diritto nazionale sovrano, per citare due evidenze puramente storiche fattesi, infine, evidenze ontologiche[2].
Nella prima giornata i temi del diritto/diritti, comune/beni comuni hanno avuto la meglio: dall’introduzione ai lavori di Amendola, agli interventi di Ugo Mattei, Toni Negri, Paolo Napoli, Maria Rosaria Marella, cui è seguita infine una discussione libera e aperta a tutti i partecipanti, ma solo nel tardo pomeriggio, per consentire a chi volesse di prendere prima parte alla manifestazione No Monti day. Nella seconda è stato il racconto-analisi dei movimenti (dal 15M a Occupy per esempio) di Hardt, Guareschi, Rahola, Cedillo al tentativo di dare forma all’irrinunciabile, l’inalienabile del comune, come quasi provocatoriamente titolava la sessione di discussione.
Mi è difficile restituire nella loro interezza le questioni emerse durante i lavori, se non altro per la densità di ciascun intervento che aprirebbe spazi autonomi di riflessione. Pensiamo ad esempio al tema della comparazione tra fasi “costituenti” della storia americana e italiana sollevato da Mattei o al rapporto tra capitale fisso e forza lavoro e modalità di incorporazione della seconda nel primo discussi da Toni Negri. Non ultimi per importanza, l’analisi dei concetti di disponibilità/servizio pubblico/uso di Paolo Napoli e il confronto tra il “diritto di avere diritti” arendtiano e il diritto hobbesiano, operato da Michael Hardt.
Credo al contrario sia più utile o semplicemente possibile individuare tre aspetti che ritengo decisivi al fine di tinteggiare un quadro di riferimento. Si tratta, come evidente, di una lettura che è la mia, opinabile di certo, grossolana e a tratti semplicistica ma funzionale all’arricchimento di una discussione e pratica già comuni al lavoro culturale. I tre aspetti che intendo brevemente discutere riguardano:
1. la relazione tra comune e beni comuni;
2. l’esigenza di una giuridicità “altra”;
3. la dimensione postnazionale.
Anche se vi accenno separatamente e per rendere più agevole il discorso, penso che siano intimamente legati e costituiscano, semmai, il nucleo centrale delle sessioni del seminario che riassumerei come segue: il tentativo di connettere la teoria/prassi dei beni comuni con la teoria/prassi del comune alla luce della domanda su una giuridicità altra, postnazionale e trasformativa.
1. Mi è parso di cogliere, ma a partire da due posizioni dichiaratamente diverse, l’esigenza di fare il punto su comune/beni comuni e non per mero capriccio teorico, per stare dentro le pratiche politiche, semmai, comprenderle e prendervi parte. Questo tentativo e per altro al teatro Valle ˗ in cui un’esperienza di comune ha prodotto un testo giuridico che parla la lingua dei beni comuni ˗ mi è parso l'{interessante} dell’intero seminario che di certo è stato un appuntamento, cui dovranno seguire altri, ma ha messo a fuoco questioni tutte da discutere. Delle due posizioni, una è quella per così dire “giuridica” ed esibita, con le differenze che qui non analizziamo, da Ugo Mattei, Paolo Napoli, Maria Rosaria Marella. Tale posizione privilegia l’uso al plurale, beni comuni, mette in conto l’utilizzo della giuridicità (per Marella un “diritto dei beni comuni” è non solo possibile, ma favorito dalla globalizzazione)[3], si richiama all’atto fondativo della Commissione Rodotà che nel 2007 rivedeva il Codice Civile circa gli “usi civici” e poneva le prime definizioni di beni comuni (materiali, immateriali) connettendoli ai diritti fondamentali della persona umana. L’altra predilige l’uso al singolare, muove dalle lotte e dai movimenti declinati al comune (Hardt e Cedillo) e sottolinea con più forza i limiti del costituzionalismo, suggerendo di ridurne l’autonomia, privilegiando i momenti costituenti (Negri) o di depotenziare dall’alto le costituzioni (Costanza)[4]. Entrambe fanno leva – specie quando Mattei sostiene di non avere in mente una tassonomia dei beni comuni, quanto una pratica di gestione di essi attraverso una relazione non proprietaria e dal basso o Paolo Napoli rispolvera il vecchio concetto di “amministarazione” – sulla priorità di guardare alle istanze dei movimenti che ambo le parti definiscono comune. La priorità dei soggetti, del come (più che il che cosa) della cooperazione, delle pratiche legali ( lo strumento referendario nel caso dell’acqua bene comune) o illegali (le occupazioni di spazi pubblici restituiti al comune). È l’ egemonia delle lotte sulla forma diritto a richiedere una trasformazione del senso e dei significati di costituzione.
2. L’idea di processo costituzionale unitario è tramontata (Amendola), ma i movimenti esprimono l’urgenza di una giuridicità altra: ci dicono insomma che occorre una trasformazione radicale del diritto, un diritto al comune (Hardt), ad esempio, un diritto attivo e non passivo o conservativo perché espressione di un potere solo destituente. Il diritto di resistenza al potere sovrano non può bastarci, insomma. Come Cedillo suggeriva, occorre leggere l’obbligazione costituzionale come una temporalità aperta nella quale trasformazione, fiducia e responsabilità si saldino. Le controcondotte, le pratiche del comune, abbisognano di principi comuni (Hardt). Rispetto alla nuova giuridicità sanno e sappiamo cosa non vogliamo: sovranità nazionale, formalità vuota, difesa della proprietà hanno, abbiamo pure dei contenuti con cui forgiarle, dal diritto alla casa al reddito di cittadinanza, da sane politiche di welfare alla gestione comune di risorse materiali e immateriali.
3. La possibilità di una nuova giuridicità deve giocarsi su un terreno diverso dal diritto sovrano e dalle “frontiere della sua democrazia” e porre come centrale la revisione delle condizioni che definiscono la soggettività giuridica delle persone e di conseguenza delle “non persone”. E la nozione di umanità su cui poggia il modello dei diritti umani sappiamo ormai che non basta. Quale posto occupano i soggetti, tutti i soggetti e non i cittadini di uno stato in particolare, tutte le persone che al comune hanno accesso e danno corpo? L’idea, tra le altre di una costituente europea, da pensare, verificare e di certo non irrigidire in posizione egemonica offre la possibilità di lasciarci alle spalle i difetti della “nazionalità” che allo stato attuale delle cose oltraggia il comune e limita l’effettivo accesso ai beni comuni, quando per una firma di consenso al referendum sull’acqua come bene di tutti occorre, ad esempio, una carta d’identità e a partecipare alla gestione “illegale” prima, legale poi ad opera di un “nuovo diritto” (la Fondazione Teatro Valle) si rischia più degli altri, perché si è intanto “cittadini illegali”.
Il seminario e le questioni discusse al Valle ci interrogano sul politico e su come trasformarlo a partire da quanto c’è già nel comune delle lotte e quanto ha da venire.
Note
[1] Il collettivo uninomade, dal 2010 progetto Uninomade 2.0 lavora sulla connessione dei saperi critici che vanno dall’economia alla filosofia politica, dalla sociologia al diritto – una università nomade e dislocata – con il tessuto delle lotte globali nell’epoca del capitalismo finanziario e della trasformazione postfordista del lavoro. Si dota dello strumento della conricerca, promuovendo seminari di autoformazione all’interno dei luoghi accademici e degli spazi del comune. Come si può leggere sul sito, ha in mente un’Enciclopedia della scienza della trasformazione dello stato di cose presente.
[2] Per una discussione di questi temi cfr. E. Balibar, Cittadinanza, Bollati Bolinghieri, 2012. Ho deciso qui di introdurli poiché mi pare allarghino la trama che il binomio costituzione/comune già di per sé traccia.
[3] Cfr. Il contributo di Marella tra i materiali del seminario cit. e il suo Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona, 2012.
[4] Per un’analisi delle differenze tra comune, beni comuni, qui solo accennata ma in vista di quanto mi preme sottolineare, quindi decisamente parziale, cfr. Hardt, Negri, Comune oltre il privato e il pubblico, Rizzoli 2010.