La costanza del minatore

Leggere S/Z oggi.

 

A oltre quaranta anni dalla prima edizione di S/Z (1970) i motivi per cui riprendere in mano l’opera di Roland Barthes mi sembrano omologabili a tre “intenzioni” fondamentali: una rilettura storica, che voglia indagare attraverso l’analisi quell’alveo di rapporti tra critica letteraria e semiotica e tra strutturalismo e poststrutturalismo; una lettura di apprendimento, fatta per comprendere l’opera in sé, in rapporto all’autore e ai suoi scritti; oppure una lettura che definirei “metodica”, che voglia indagare non tanto l’opera in sé né il suo portato storico, ma che chieda nuovamente a S/Z di spiegarsi e provi a trarne una serie di indicazioni per la contemporaneità.

Apparso come elaborazione del seminario tenuto due anni prima all’École Pratique des Hautes Études, S/Z nasce come analisi del racconto Sarrasine di Balzac, analisi che sarebbe più giusto definire un corpo a corpo con il testo, una lettura minuziosa scandita dalla divisione in numerosissime lessie, unità di comodo utilizzate allo scandaglio quanto più preciso e “locale” del testo in questione. Ognuna di queste lessie viene così isolata e definita attraverso una suddivisione del testo secondo cinque codici (ognuno dei quali generante una voce): il codice Ermeneutico (voce della verità), il codice Proairetico (voce dei fatti e delle azioni), il codice Semantico (connotazioni), Simbolico (soprattutto nei campi della retorica, del sesso, del denaro) e Culturale/Referenziale (il bacino di tutte le nozioni “comuni” alla cultura di quel tempo). L’autore decide di rintracciare le frequenze e gli sviluppi di queste voci dentro il pulviscolo del testo, mantenendone l’intrinseca plurivocità senza ipotizzare una struttura superiore o dei principi di unificazione.

La scelta compiuta da Barthes è tanto avventurosa quanto problematica: percorrere le piccole vene del senso, senza applicare ad esso una griglia anteriore (interpretativa o narrativa che sia) lasciando così che i codici identificati non vengano definiti da una struttura a loro superiore; tutto ciò, oltre le evidenti implicazioni nel campo della teoria semiotica, permette al suo autore (e ai suoi lettori) di far nascere dall’analisi del racconto una potente riflessione sui caratteri del testo moderno, alcune considerazioni en passant sulla cultura della modernità (nel suo legame con la cultura della castrazione), e altre questioni – esplicitate solo nelle sue opere successive – sul lavoro del critico nella costruzione del testo, sul rapporto tra atto di scrittura e lettura, sul concetto di scrivibile e sull’azione di interpretazione non come riduzione ma quale attivatore di molteplicità. Le stesse molteplicità di lettura/scrittura che, parzialmente castrate dall’unidirezionalità del codice Ermeneutico, vengono ritrovate nel testo “imperfettamente moderno” di Sarrasine.

Ma quanto detto finora rientra piuttosto nei primi due filoni di lettura, che in quello che vorrei davvero interrogare: ritengo, per usare le parole dell’autore, che già troppe volte si sia scandagliata la polvere d’oro del saggio, misuratola centellinandone il valore, calcolati e incisi sia la tara che il taglio dei ciottoli; e si sia concentrata l’attenzione verso i risultati del metodo o verso la discussione teorica del metodo stesso, all’interno di un quadro e una questione storica che oggi finirebbe per interessare un numero limitato di addetti ai lavori, e così di lettori.

Si può essere d’accordo o meno con la formulazione della castrazione come principio in S/Z, così come con l’assunto del testo scrivibile a testo moderno, e del testo classico a quello leggibile; e si può interpretare la scelta di non gerarchizzare la struttura come un passo indietro nella teoresi, o una concessione ai limiti dell’epistemologia o tanto altro ancora; si può dubitare dei risultati di S/Z in quanto analisi e della riproducibilità della sua operazione, o chiedersi se possa una disciplina a vocazione scientifica essere fondata sulla fuga e moltiplicazione indefinita (quando non infinita) dei significanti/significati. Tutti dubbi che ancora oggi sono leciti e meritano di essere indagati e discussi.

Ma a chi avrà la pazienza e l’amore per la letteratura necessario a leggere un testo di cui non è facile seguire il passo, si ritroverà con una impressione tanto forte quanto immediata: l’idea che alla base di qualsiasi lavoro delle scienze umane ci sia un discorso, condotto con quanta più costanza possibile, condotto con il maggiore rigore possibile e con quanta più attenzione e approfondimento ci si possa permettere; un lavoro condotto nella massima trasparenza di linguaggio possibile, condotto fino ai limiti delle proprie conoscenze, scegliendo di non sostenere ciò che non si può ancora definire, ma di portare fino alle estreme conseguenze (e contraddizioni) ciò che si crede di aver analizzato. Nei presupposti di S/Z sta ciò che, usando le parole di Italo Calvino [1], chiamerei una vocazione all’«attenzione ed approfondimento continui», e che per chi legge oggi dovrebbero spostare l’attenzione dalla polvere d’oro a quella che chiamerei la costanza del minatore.

E se, come Barthes sosteneva [2], nell’epoca moderna è destinato a nascere un “tipo bastardo” di scrittore, un incontro tra lo scrittore in quanto tale e chi utilizza il linguaggio come strumento, probabilmente è proprio a questo figura sincretica di addetto ai lavori che il saggio è oggi più adatto: a chi possa comprendere e intrecciare, nella società dei servizi sempre più impalpabili e binari, l’uso politico della scrittura e la richiesta scientifica della sua comprensione e analisi continua.

[S/Z di Roland Barthes fa parte della nostra Piccola biblioteca delle scienze umane: visitatela qui.]

Note

[1] Forse a sproposito, il finale de Le città invisibili, Einaudi 1972.

[2] In Écrivains et écrivants.

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