La continua Nakba

Il settantatreesimo anniversario della pulizia etnica della Palestina e le rivolte in corso

Palestina Gerusalemme

Ricorre oggi il settantatreesimo anniversario della nakba, la “catastrofe” subita dai palestinesi espulsi dalle loro terre in seguito alla creazione della Stato di Israele nel maggio del 1948. Molti attivisti palestinesi hanno sottolineato come la nakba non sia semplicemente un avvenimento storico ma un processo tutt’ora in corso, alimentato dalla natura coloniale del progetto politico da cui sono scaturite la società e le istituzioni statuali israeliane.

Il periodico riacutizzarsi di tensioni e violenze attorno ai numerosi problemi di cui si compone la questione palestinese non sempre riflette con tale chiarezza il loro punto d’origine comune. In questo senso, la recente escalation si differenzia da episodi simili verificatisi nell’ultimo decennio, evidenziando distintamente quella matrice originaria di una nakba che si reitera nel tempo. Controllo della terra e discriminazione razziale sono i due pilastri del colonialismo d’insediamento, il sistema di potere su cui si regge lo Stato di Israele e che ha dato origine alla questione palestinese. Ed è proprio sul filtro concettuale del colonialismo d’insediamento che bisogna basarsi per comprendere quanto sta accadendo nelle ultime settimane in Israele/Palestina.

Le leggi israeliane che giustificano l’espulsione di famiglie palestinesi dai propri quartieri, come nel caso di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, perseguono l’obiettivo di assicurare un controllo crescente del territorio da parte del gruppo etnico dominante e sono formulate secondo principi discriminatori. Ai cittadini ebrei israeliani è infatti concesso di reclamare la proprietà di terreni e immobili persi durante la guerra del 1948, mentre tale possibilità è negata agli abitanti palestinesi discendenti dalle famiglie scappate dalla parte occidentale della città. Volgendo lo sguardo alle proteste dei “palestinesi del ‘48”, ovvero coloro in possesso di cittadinanza israeliana, è possibile individuare la stessa matrice coloniale. Le proteste avvenute in città come Haifa, Acri e Lidda non sono state solo una risposta a quanto avveniva a Sheikh Jarrah o allo sgombero violento di fedeli musulmani dalla Spianata delle Moschee. Non si può infatti trascurare il contesto di discriminazione sistematica cui sono soggetti i cittadini palestinesi in Israele che si traduce, ad esempio nel caso di Lidda, in ostacoli sempre crescenti nell’accesso al diritto alla casa. Nella cittadina del distretto centrale di Israele, i quartieri a maggioranza araba sono anche i più poveri e sono da anni oggetto di un processo di gentrificazione cui partecipano società pubbliche e organizzazioni legate all’estrema destra israeliana. Ad ulteriore conferma della natura coloniale delle relazioni tra cittadini israeliani ebrei e palestinesi, i video circolati in questi giorni sui social media, in cui si vedono estremisti di destra israeliani aggredire cittadini palestinesi, dimostrano drammaticamente l’origine suprematista di tali violenze.

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La questione coloniale unisce quindi le frammentate realtà politiche e sociali di cui si compone la società palestinese, dalla Cisgiordania punteggiata d’insediamenti coloniali alla Striscia di Gaza chiusa militarmente e sotto bombardamento, passando per Gerusalemme Est e le città e i quartieri a maggioranza palestinese all’interno di Israele. La condizione comune di gruppo indigeno sotto minaccia esistenziale si rivela quindi più potente dei decennali tentativi israeliani di depotenziare tale percezione attraverso un regime differenziato di concessione e negazione dei diritti umani dei palestinesi.

Gli eventi più recenti hanno anche evidenziato, da una parte, cambiamenti paradigmatici nella coscienza politica delle nuove generazioni di palestinesi e nella percezione internazionale della questione. Dall’altra, hanno reso più che mai chiara l’irrilevanza che affligge la leadership politica palestinese e la crisi del regime politico che ha governato Israele sin dalla sua creazione.

Spinte dalla minaccia alla presenza fisica e culturale palestinese sul territorio, le numerose proteste riflettono una rinnovata azione collettiva, per quanto spontanea, che trova nel paradigma coloniale il proprio collante. Le recenti mobilitazioni sono state spesso guidate da giovani attivisti che rifiutano le appartenenze politiche tradizionali, delegittimate da anni di immobilismo e, nel caso di Hamas e dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), autoritarismo. Questa nuova generazione sembra anche più conscia nell’utilizzare le categorie analitiche, politiche e giuridiche proprie del paradigma coloniale. Slegandosi dal tradizionale nazionalismo palestinese, incentrato sul progetto di costruzione di uno stato-nazione, sempre più palestinesi pongono l’accento sulle manifestazioni concrete del colonialismo d’insediamento, in primis il sistema di discriminazione razziale che il recente report di Human Rights Watch ha categorizzato come apartheid. Articolando la questione in questi termini, attivisti, studiosi e giornalisti palestinesi hanno portato avanti un’efficace campagna d’informazione sui media di tutto il mondo, in particolare quelli americani, che ha bucato i tradizionali dispositivi narrativi.

L’esposizione mediatica della chiara asimmetria esistente tra palestinesi e Stato d’Israele ha disattivato, in misura maggiore rispetto al passato, tentativi di descrivere quanto succede come un “conflitto” tra due contendenti eguali o le azioni di repressione israeliana come mera rappresaglia per i razzi lanciati da Hamas e altri gruppi palestinesi. In questo contesto si sono moltiplicate le voci di figure pubbliche internazionali che hanno espresso solidarietà alla causa palestinese e denuncia per le politiche israeliane. Nel Congresso statunitense, i nuovi esponenti progressisti del Partito Democratico hanno messo fine al tradizionale appoggio bipartisan alla retorica del diritto israeliano alla difesa, evidenziando come la sua affermazione comporti la negazione dello stesso diritto per i palestinesi. Nel suo piccolo, anche all’interno del Partito Democratico italiano stanno emergendo malumori per la partecipazione acritica del Segretario Enrico Letta ad una manifestazione in solidarietà con Israele che lo ha visto sul palco assieme agli esponenti della destra italiana, da Salvini a Tajani.

Di fronte alle conquiste della società civile palestinese, il confronto con l’inadeguatezza della leadership politica tradizionale è ancora più evidente. Dopo aver cancellato le elezioni per paura di non vincerle, Mahmud Abbas, presidente dell’ANP, appare del tutto marginalizzato, largamente incapace di amplificare le voci delle proteste di questi giorni. Dal canto suo, la dirigenza di Hamas ricorre al lancio di razzi per rinnovare la propria immagine di forza di resistenza, riuscendo però a togliere l’attenzione dalle mobilitazioni popolari e fornendo un pretesto al governo Netanyahu per alimentare la retorica del conflitto, mettendola in atto con una vasta operazione militare contro la Striscia di Gaza.

Ed è proprio la violenza scaricata su Gaza che squarcia l’immagine democratica storicamente associata ad Israele a livello internazionale. Benjamin Netanyahu, sotto accusa per corruzione e fino a pochi giorni fa incapace di formare un nuovo governo, è l’apice di un establishment politico che mobilita l’elettorato attraverso un razzismo di stampo coloniale. L’operazione militare su vasta scala di questi giorni appare quindi come l’imposizione di una punizione collettiva dove un esercito regolare rinuncia ad ogni principio di proporzionalità e rispetto della tutela dei civili distruggendo un intero palazzo e adducendo la presenza di un ufficio di Hamas come giustificazione.

Quando questo ciclo di violenze giungerà al termine, il nucleo coloniale che le alimenta resterà irrisolto, rinnovando le basi per ulteriori violenze e instabilità. È questo il significato della continua nakba, un vulnus la cui riparazione è condizione ultima per assicurare pace e diritti a chiunque viva in Israele/Palestina.

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