La comunità necessaria nella tragedia

Il senso di emergenza che stiamo vivendo dovuto alla crisi sanitaria e il cambiamento drastico delle abitudini lavorative e sociali, è solo l’ennesima tragedia legata alla mancanza di previdenza come quella delle Gole del Raganello, in Calabria. Un geosito suggestivo, incantevole e spettrale, da percorrere con una dovuta preparazione fisica e con delle guide che muniscono i partecipanti con dei dispositivi di sicurezza, tra cui corde, imbracature e caschetti. La Riserva Naturale Gole del Raganello, è un imponente canyon all’interno del Parco Nazionale del Pollino, lungo 17 km, che attraversa i paesi di San Lorenzo Bellizzi, Cerchiara di Calabria e Civita. La conformazione accidentata del torrente Raganello esercita un certo fascino tra i turisti che frequentano il borgo di Civita adagiato sulle propaggini orientali del Pollino e i villaggi turistici della Piana di Sibari. La routine era ben rodata e da diversi anni le imprese locali avevano strutturato una nuova economia turistica legata al canyoning o per chi frequentava le rive come se fossero delle spiaggette.

Le Gole del Raganello (Fonte: “prima profondità”, Stiphy, CC BY-SA 4.0).

Il 20 agosto del 2018 le previsioni meteo erano sfavorevoli, da diversi giorni pioveva ininterrottamente e nonostante le ammonizioni da parte dei più anziani, dalla piazza continuavano a partire gruppi di escursionisti diretti nelle gole. Sfidando ogni sorte e sperando di tornare in tempo, gli ultimi escursionisti hanno visto prima ingrossarsi il fiume, poi sono stati travolti da una piena improvvisa che li ha scaraventati sulle rocce e tra gli alberi. Il bilancio è stato terrificante, dieci morti e undici feriti, i corpi dilaniati e faticosamente recuperati e le voci delle guide che cercavano di aiutarli per portarli in salvo. Tra i casi soccorsi: politraumatizzati, chi in stato di shock e chi trasferito in elicottero in ospedale viste le gravi condizioni dovute all’ingestione di fango e sabbia. Un portato di dolore immenso, che ha segnato in maniera profonda la storia di Civita in termini di perdite umane e di sofferenza.

La Comunità Necessaria è un’etnografia elaborata all’interno del progetto Mea Memoria1, a seguito di questa tragica storia. I momenti di difficoltà, emersi dall’esperienza del disastro sono stati punti di osservazione che hanno fatto emergere una serie di forze e di percorsi storici vitali. Un paese come Civita, che ha fatto esperienza delle perdite umane, è un paese reso fragile, che ha bisogno di riconsiderare le sue vulnerabilità. La catastrofe, causando una vera e propria crisi di senso e di collasso del quotidiano, ha fatto emergere un grave senso di disagio e di incertezza. Nei mesi successivi alla tragedia, l’indotto turistico legato alla frequentazione delle gole si è parzialmente fermato, il geosito è stato posto sotto sequestro e i residenti che avevano investito su un’economia turistica hanno dovuto rivalutare gli investimenti.

Con gli abitanti di Civita per il progetto Mea Memoria. Foto: Franco di Benedetto.

Etnografia e comunità

La pratica etnografica si colloca sempre più spesso nelle politiche di intervento, in contesti instabili ed esposti al rischio. Durante il campo di ricerca, che si è svolto a un anno dalla tragedia, abbiamo valutato insieme alle persone che ho intervistato nuovi elementi narrativi, legati al patrimonio locale e a nuove modalità di fruizione del paese dal punto di vista turistico. Ho individuato nella gjitonìa, il vicinato, e nella lingua arbresh, che deriva dall’albanese – un forte legame a un territorio più vasto, quello dell’Arberìa.

Lo sviluppo di una comunità, chiamata a partecipare e ad avere voce nelle decisioni che la riguardano è una comunità competente, che conosce i suoi problemi e le risorse di cui dispone, capace di circoscrivere progetti di sviluppo mal direzionati. Depositaria di preziose conoscenze accessibili solo attraverso il loro recupero, sedimentate nei racconti orali, così come nelle pratiche consuetudinarie o nella cultura materiale, che hanno permesso alle generazioni precedenti di vivere in territori impervi e di conoscerne profondamente le insidie e le fragilità. Una memoria che si è probabilmente spezzata, dovuta a un mancato trasferimento intergenerazionale di saperi tecnici e pratici.

Nelle riflessioni raccolte durante le interviste, il ricordo di un tempo comunitario scandito dalle festività e dalle ritualità religiose rimanda a una concezione altra del tempo. Uno spazio della memoria collettivo, in cui la potenza generosa della comunità, delle famiglie, la vitalità degli sheshi, gli spiazzi, e l’educazione impartita attraverso i racconti dei più anziani è minacciata. L’idea di un passato perduto ma non ancora morto è una retrotopia, in cui si preferisce guardare al passato, spingendo le nostre energie e le intenzioni verso qualcosa di inafferrabile ed estinto, anacronistico, duttile e facilmente declinabile a una narrazione autobiografica.

Registrare le testimonianze orali dei più anziani, sulla vitalità dei vicinati e la ritualità delle festività arbresh, mi ha permesso di collezionare più storie e di osservare come queste si intersechino con gli altri vissuti. La funzione sociale della gjitonìa emerge nell’intervista a Maria. Il sistema di vicinato, ancorato a valori economici andati perduti, come quello della reciprocità e della gratuità delle azioni – con l’introduzione del denaro si è dissolto: “Fino al 1960 c’era la gjitonia, dopo il 1960 si è persa. Prima i rapporti erano di mutuo-aiuto e scambio. Quando non c’erano i soldi per esempio: andavi a prendere la legna con il mulo del vicino, e poi facevi un altro giro per prendere la legna anche al vicino per ringraziare del prestito del mulo. Quando arrivarono i soldi si perse tutto ciò”.

Nella sede dell’associazione culturale Gennaro Placco a Civita. Foto: Franco di Benedetto.

L’oralità e le memorie autobiografiche possono rappresentare a posteriori un valido strumento di cronaca, un modo proficuo per indagare le autonarrazioni e la produzione culturale. La cultura arbresh, radicandosi, ha creato una nicchia ecologica, piuttosto complessa e articolata, tra paesi albanofoni. Partecipare a un percorso di ricerca storica collettiva mi ha permesso di elaborare il maggior numero di informazioni e di elementi da esperienze concrete, e spesso simili narrazioni hanno costruito quella che è stata l’esperienza collettiva dei civitesi. Gli abitanti che ho intervistato mi hanno messo davanti a quella che definirei un’etnografia dell’emergenza per lo shock che la comunità ha vissuto con la tragedia delle Gole di Raganello, perché alcune delle famiglie intervistate avevano familiari coinvolti nell’inchiesta della Procura della Repubblica di Castrovillari. Ho dunque preferito non riaprire una ferita non ancora rimarginata, né riattivare i ricordi della tragedia, indagando sulle vicende personali.

I periodi difficili e di transizione più facilmente si fissano nella memoria. E anche questo rimarrà impresso nella memoria collettiva. Nell’incertezza e nell’instabilità rimanere ancorati alla tradizione non è sempre una soluzione. Il chiudersi in identità cristallizzate e fisse, di conservazione allo strenuo di una musealizzazione farebbe svanire ogni spinta. Come dice David Lowenthal, geografo e storico delle idee, statunitense: “Questi trend producono l’isolamento e il distacco dell’individuo dalla famiglia, della famiglia dalla comunità locale, della comunità locale dalla nazione, e perfino del sé dai precedenti sé. Questi cambiamenti riflettono tanti aspetti diversi della vita: la crescente longevità, il dissolvimento della famiglia tradizionale, la perdita del contesto familiare, l’obsolescenza accelerata, il genocidio, le migrazioni, ma anche un timore crescente verso la tecnologia” (The Heritage Crusade and the Spoils of History, 1996).

Continua David Lowenthal, “mentre svaniscono le speranze di progresso, l’eredità del passato ci consola con la tradizione”.“Come mai il passato oggi incombe così fortemente su tutti noi?” Esplorando altre terre del pensiero, la risposta la potrebbe dare Luigina Mortari, filosofa ed epistemologa della ricerca qualitativa, “costruendo paesaggi del pensare che aiutino a stare alla ricerca di senso dell’esperienza. Il camminare nel tempo ha infatti bisogno di mappe che orientino nella complessità dell’esperienza umana, di coordinate che segnalino i modi di composizione del senso dell’esistere” (Aver cura di sé, 2019). Durante le giornate di campo, aiutata dai civitesi, ho realizzato una mappatura dei rioni e delle gjitonie, in prospettiva di una nuova segnaletica del patrimonio architettonico, che potesse dare valore alle case antropomorfe, alle fontane e alla storie dei rioni in parte disabitati.

Negli ultimi mesi, alcuni abitanti di Civita proprietari di ristoranti, b&b e sensibili al tema dello spopolamento, si sono resi disponibili a una serie di iniziative del Campus del Cambiamento, con l’obiettivo di fare trasferire nuove famiglie in appartamenti in vendita o sfitti, per attrarre nuove professionalità assenti in paese, come elettricisti, idraulici o caregiver che sappiano prendersi cura delle fasce più fragili.

 

 

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Note

  1. Il progetto “Mea Memoria”, ideato da Stefania Emmanuele, sociologa e project manager, in sinergia con l’associazione culturale “Gennaro Placco”, con il contributo della Lega Calcio nazionale serie B, Museo Etnico Arbresh, Comune di Civita e Parco Nazionale del Pollino, Civita (CS).
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