Una recensione a “The art of making do in Naples”, di Jason Pine, da poco tradotto in italiano per Donzelli con il titolo “Napoli sotto traccia. Musica neomelodica e marginalità sociale”.
Chi guarda Napoli dall’esterno non può non accorgersi dell’abnorme compagine neomelodica (e del suo indotto socioeconomico) che ha seguaci e ascoltatori anche negli insospettabili ambienti borghesi. Una visibilità che l’antropologo statunitense Jason Pine trasforma in materia tangibile, condensando i fumi della mentalità collettiva – intesa come visione del mondo – attraverso le immagini girate con la telecamera, sua inseparabile compagna.
Su Napoli sono stati prodotti spot, cortometraggi, documentari, film, docufilm, docufiction e trasmissioni televisive. La continua produzione di immagini sulla città alimenta un imponente patrimonio immaginario, eppure nessuno di questi lavori si è posto l’obiettivo di compiere una videoetnografia. Il diario di campo dell’antropologo è invece un video condensato in parole che hanno il potere di evocare immagini suggestive. Una suggestione che cattura sin dall’incipit, che trascina il lettore nel bel mezzo dei rumori e degli odori di un mercato rionale. Nell’introduzione immediatamente si evidenziano le fondamenta estetiche della città che reggono i processi relazionali. Pine parte dal mercato, luogo di contiguità, per presentare il nucleo centrale della sua ricerca: la «zona di contatto», che dal punto di vista letterario può essere sintetizzata dall’osservazione del napòlide Erri De Luca: «quando entri nei vicoli di Napoli è impossibile non toccare e non essere toccati».
Il contatto (fisico, sonoro, visivo) è la pulsione istintiva che muove l’obiettivo della telecamera come un alter ego digitale: le immagini registrate catturano il divenire concreto della zona di contatto e possono essere trasferite nel web intrecciando il reale con il virtuale. Un cortocircuito che unisce due network moltiplicando gli effetti estetici del patrimonio relazionale attivato dall’economia precaria dell’arte di arrangiarsi. Un’economia che è il sostegno del sottoproletariato napoletano, come aveva notato Thomas Belmonte ne La fontana rotta alla metà degli anni Settanta. Un paragone del tutto calzante se si pensa che Pine, proprio come Belmonte, si trasferisce nel centro storico di Napoli per immergersi fisicamente nell’ambiente oggetto della ricerca. L’immersione ha un duplice valore: pubblico e privato. Da un lato l’etnografo usa l’obiettivo della telecamera per redigere il diario di campo, dall’altro l’uomo si cala nella dimensione quotidiana, forzando i limiti della ricerca.
L’antropologo vuole fornire un risvolto umano alla sua inchiesta: gli uomini e le donne con cui è entrato in contatto non sono solo nuda carne su cui lo scienziato ha sperimentato l’empirismo etnografico, ma esseri umani con i quali ha costruito una relazione amichevole. Pine, pur partendo dagli elementi strutturali che, secondo Belmonte, connotano il sottoproletariato napoletano (un’etica mercantile derivante dal capitalismo primitivo fondato sul baratto; una tradizione picaresca e ladresca assai diffusa nel Mediterraneo; una religione popolare materialistica e supplicatoria di carattere clientelare) giunge alla definizione di una geografia morale metropolitana, la contact zone, appunto. Un luogo immateriale che dà forma antropologica al continuum legalità-illegalità/delinquenza-camorra, descritto, in sede storica, da Isaia Sales e Gabriella Gribaudi.[1] L’originalità scientifica consiste proprio nell’aver radiografato il continuum evidenziando spessore, lunghezza e ramificazioni delle reti relazionali che strutturano la zona di contatto, la quale si espande e si restringe come un organismo vivente, a seconda dell’habitat in cui attecchisce. Ciò rende la ricerca uno strumento utile per interpretare il contesto in cui è maturato il fenomeno neomelodico. Del resto Pine, sin dall’inizio, afferma che la scena neomelodica è solo un segmento del sistema di relazioni rintracciabili nella contact zone.
È come se l’etnografo stesse realizzando un’ecografia della città concentrandosi su una porzione del totale: scannerizza il mondo neomelodico in quanto manifestazione visibile e sintomatica delle relazioni estetico-affettive generate dalla socialità urbana, oltre a descriverlo come uno dei canali di passaggio dalla indeterminatezza del precariato alla determinatezza della camorra.La zona di contatto, proprio perché è una mappa morale della città, sembra essere delimitata da due confini: una parte inferiore della povertà assoluta, popolata da chi non è nemmeno dotato di un patrimonio di relazioni, e una parte superiore della camorra, ovvero la galassia degli affiliati che condiziona il sistema delle relazioni. Povertà e camorra sono i punti terminali, in mezzo c’è la zona di contatto che, con un turbinio di relazioni a fascio, si presenta come un ponte di collegamento tra i due estremi del continuum.
La contact zone, quindi, è un’area in cui le vite sono sospese, in attesa di un destino che può essere modificato solo dall’intervento di forze determinanti. Essa è, in sostanza, l’essenza stessa della camorra, cioè l’intermediazione tra soggetti appartenenti a un identico territorio e che condividono il medesimo universo semantico. La camorra è un medium, il nucleo centrale della zona di contatto. La sua centralità è connaturata all’azione di mediazione criminale che, a differenza delle altre mafie, funziona come un’impresa commerciale: l’obiettivo è controllare il sistema delle relazioni per monopolizzare il mercato con i suoi prodotti e servizi.
Tuttavia, come scrive Pine, il dominio dei contatti non avviene in maniera visibile; le sovrapposizioni, le mediazioni, le collusioni avvengono in maniera impalpabile. L’influenza criminale è un clima sociale che si respira, ma è pienamente percepito soltanto da chi è coinvolto nel network: quando si ha la coscienza di aver varcato la soglia della contact zone si comincia a dare senso a una serie di segnali, di codici e di simboli che prima erano insignificanti.
In questo contesto, della camorra non c’è bisogno di parlare: esiste senza che debba essere evocata. Per esempio, quando Pine racconta la storia di Fulvio, neomelodico minorenne, e del padre manager, si accorge che entrambi la considerano un potere invisibile ma reale. Il ragazzo dice che “tutto è camorra”, mentre il genitore non la nomina mai, limitandosi ad alludere alla sua presenza come a una forza non immediatamente percepibile, ma assolutamente tangibile. La camorra si evoca come una paura ancestrale che inorridisce e magnetizza lasciando l’interlocutore senza parole. L’attrazione magnetica di un potere invisibilmente determinante è fonte di suggestione per un contesto in cui indeterminatezza e precarietà sono la regola quotidiana; un potere palpabile e immaginario che sviluppa una logica binaria: violenza e consenso si intrecciano fino a rendere impossibile individuare il punto in cui finisce l’una e comincia l’altro. Tutto ciò che si muove intorno al centro della zona di contatto, quello che Pine chiama «occhio del ciclone», vive in uno stato di perenne incertezza: la camorra è l’unico medium che può rendere effettivo il passaggio dalla indeterminatezza alla determinatezza all’interno di un network fluido.
La zona di contatto è una specie di liquido amniotico che rende intangibile il potere criminale: la camorra in apparenza non è visibile, ma la percezione del condizionamento comincia a essere epidermica con il ramificarsi delle reti. Più aumenta il patrimonio di relazioni, più si infittisce il reticolato delle opportunità, più si intrecciano i network (parenti, amici, colleghi, conoscenti, comitive, clienti eccetera), maggiore è la possibilità di avvicinarsi all’«occhio del ciclone».
Ora, se la maggior parte di queste reti si costruiscono e si saldano sulla base di un rapporto di fiducia reciproca, tra persone che vivono in uno stesso ambiente urbano, allora la camorra diventa palpabile nel processo di formazione del capitale sociale metropolitano. Una strutturazione che nega l’idea di una criminalità monolitica a sé stante (da una parte i clan, dall’altra la società) per proporre un modello organizzativo simile a un clientelismo orizzontale in cui l’imposizione violenta è edulcorata dallo scambio di favori.
La camorra è dunque parte integrante del capitale sociale territoriale che nasce in risposta alla indeterminatezza cronica. Un’economia di prossimità in cui le opportunità si acquistano puntando sulla fiducia, personale e reciproca, come moneta di scambio. Ciò spiegherebbe anche il consenso sociale dei camorristi: non si tratta di individuare chi comanda e chi obbedisce; è necessario, piuttosto, riscostruire la rete delle relazioni generata dallo scambio dei favori, dall’economia sommersa, dalla contraffazione, dal contrabbando, dall’indotto del narcotraffico.
Sarebbe necessario analizzare la contact zone considerandola come un vero e proprio distretto di tipo industriale in cui il rapporto fiduciario ha prodotto un capitale sociale negativo, non del tutto criminale, ma sicuramente influenzato dalla presenza dei clan. La camorra studiata da Pine è un agglutinante che contribuisce a dare consistenza solida a un sistema relazionale liquido, garantendo lavoro in cambio di fiducia e consenso. La competizione tra Stato e camorra si fonda sulla capacità di dare risposta a una domanda di natura clientelare. Entrambi sono percepiti come i possessori di un potere che può rispondere simultaneamente a più interessi, concorrenti e contrastanti, avendo la possibilità di favorire, sulla base di rapporti fiduciari, la povertà o il benessere di una famiglia.
I neomelodici sono a loro volta i medium di questo contesto metropolitano (da qui la sovrapposizione e la confusione tra scena musicale e camorra). Così come la sceneggiata aveva incorporato la legge del vicolo sublimandola nella morale dell’onore, la musica neomelodica ha incorporato il patrimonio relazionale dei quartieri-Stato trasportandolo nella nuova dimensione della globalizzazione. Basta guardare come è cambiata la scena negli ultimi trent’anni: Nino D’Angelo era il ragazzo di periferia che rinunciava alla sceneggiata per aprire la canzone napoletana alle influenze della pop music; Alessio, Raffaello, Rosario Miraggio e tutti gli altri raccontati da Pine sono replicazioni locali di format televisivi da cui emergono cantanti clonati da impiegare e spremere nella battaglia dei media.
Note
[1] I. Sales, Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli, con la collaborazione di M. Ravveduto, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2006. G. Gribaudi, Clan camorristi a Napoli. Radicamento locale e traffici internazionali, in Traffici criminali. Camorra, mafie e reti internazionali dell’illegalità, a cura di G. Gribaudi, Bollati Boringhieri, Torino 2009.