La bambinata e altre crudeli favole del decoro (prima parte)

Il decoro come favola

I

Scrive Karl Marx, nel libro primo de Il Capitale:

«C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più.  […] Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle.»

Quella che Marx polemicamente illustra in forma di favola è la legittimazione ideologica della cosiddetta «accumulazione originaria». Ovvero del gesto inaugurale del «processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione» che costituisce «la preistoria del capitale e del modo di produzione a esso corrispondente». Nelle righe che seguono Marx chiama questa favola ingannatrice una «bambinata» (Kinderei) e «il punto di vista dell’abbiccì infantile». La teoria che prende di mira è quella di Adam Smith e degli economisti classici, teoria che pone le origini del capitalismo (appunto l’accumulazione originaria) nella differenza morale tra due categorie di individui: da una parte la minoranza delle persone laboriose, dall’altra la maggioranza dei fannulloni. Secondo la favola chi ha (e sfrutta il lavoro altrui) è in tale posizione, essenzialmente, perché se lo è meritato.

le favole del decoro
Bambine e bambini che “giocano” a cucinare, Das Frauenbuch, Stuttgart 1913

La bambinata giace sul fondo delle strutture mentali e narrative della nostra società, ma viene rinnovata costantemente. Alla metà del ventesimo secolo alcuni socialisti inglesi (Alan Fox, Michael Young), dando un nome alla «meritocrazia» la rendono riconoscibile come nuova bambinata, nuova giustificazione della diseguaglianza sociale.

Pierpaolo Ascari nel suo Corpi e recinti (ombre corte, 2019), fa della bambinata la via d’accesso alle vicende del «decoro». E infatti senza Kinderei non ci sarebbe decoro possibile. Perché senza la legittimazione fornita dalla bambinata l’ingiustizia del decoro, che colpisce i deboli per garantire l’uso esclusivo della città ai più forti, risulterebbe inguardabile. Ma per avvicinarci a una definizione del decoro non basta la bambinata: ci serve un’altra favoletta, o mito.

 

II

Il decoro è profondamente legato alla dimensione dell’abitare. Anzi: fino a  pochi anni fa il termine era usato quasi esclusivamente in questo senso, e il cosiddetto «decoro architettonico» era più che altro una questione di tenuta dell’intonaco. In realtà quel discorso estetico aveva già una sua perniciosa dimensione morale, come dimostra la favola che segue, che chiameremo della Torino-torinese. A raccontarla è una lettera indirizzata a La Stampa e pubblicata dal quotidiano il 20 settembre del 1973:

«Mi riferisco ad alcuni articoli sui “bassi di Torino” […] per richiamare alla memoria dei non giovanissimi quel rapporto “casa vecchia-pulizia” che regolava la vita della Torino-torinese. Torinese puro sangue (e perciò non più giovane) sono nata e vissuta per anni in una vecchia casa di via Po […] senza bagno e con i servizi igienici in comune […]. Non c’erano piastrelle di marmo, allora, né aspirapolvere, ma una forte dose di “olio di gomito” e uno spiccato senso del decoro che mantenevano alle nostre vecchie abitazioni quella dignità che oggi si cerca invano nelle abitazioni di chi va cercando dignità e pulizia in case con quei “comforts” che noi ci siamo, poi, creati con decenni di sacrifici e rinunce.»

Questa lettera giunge a noi tramite l’analisi che ne fa Furio Jesi in un testo rimasto a lungo inedito (ora in appendice a Cultura di destra nell’edizione Nottetempo del 2011). Jesi individua, nella lettera,

«una volontà di aggressione contro la gente dell’Italia meridionale che si è trasferita a Torino. L’autrice della lettera attribuisce la responsabilità della sporcizia attuale […] ai difetti o vizi innati negli immigrati meridionali.»

La ricostruzione non tiene conto, continua Jesi, che i «torinesi “puro-sangue”, anche poveri, non erano generalmente costretti a vivere in cinque o sei (o anche più) in una camera». E neppure del fatto che, quando questo invece accadeva, anche tra «torinesi “puro-sangue”» regnavano sporcizia e puzzo «d’lavandin e d’ces stôp», di lavandini e gabinetti intasati. Non c’è nulla di innato né di culturale quindi nel «decoro» o nella sua mancanza, ma tutto di materiale.

Il mito della «Torino-torinese» non solo mistifica la storia, dipingendo un «bel tempo che fu» che mai ci fu, ma pure confonde la corretta rappresentazione dei rapporti sociali, facendo scomparire la responsabilità dei proprietari che affittano a caro prezzo case inadatte e prive di manutenzione. Ed è appunto quel caro prezzo che costringe le persone a viverci ammassate, esattamente come accade oggi nelle nostre patinate e decorose città, dove migranti africani o asiatici sono costretti a vivere in cinque o sei (o anche più) in quella che per «noi» sarebbe una semplice camera «matrimoniale».

Anche Ascari fa riferimento alla Torino del boom, come pure alle Coree (che esistono a Milano, ma non solo), cioè quartieri disordinati, densi d’alloggi di fortuna, dove si vive in condizioni disperate, come se vi fosse passata l’allora recente guerra di Corea (1950-1953):

«alloggi sovraffollati, soprattutto le soffitte, dove bisogna fare anche con un gabinetto ogni cinquanta inquilini, oppure […] “stamberghe, abituri, sottoscale, scantinati, in vecchie cascine e vecchie case destinate alla demolizione” […] sostanzialmente inabitabili».

Così vivono proletari e sottoproletari, che devono però anche preoccuparsi di non dare nell’occhio, perché quando «le aberrazioni della non-city emergono» subito accorre la stampa (e La Stampa) a denunciare la sporcizia e il degrado causato dall’arrivo dei meridionali nel quartiere. «Ed è quindi», riepiloga Ascari,

«la vecchia storia della bambinata, vale a dire la tendenza del capitale a risolvere le proprie contraddizioni imputandole alla presunta natura storta di chi le patisce.»

le favole del decoro
Bambini che giocano nel Corriganville Movie Ranch, 1963, foto di George Garrigues

Questi due primi pilastri del «decoro» (il merito e l’abitare) sono perfettamente riconoscibili oggi nella decisione presa da alcuni comuni – di tutti i colori politici – di assegnare con una sorta di «patente a punti» gli alloggi di ERP. Se gli assegnatari o i loro famigliari contravvengono al regolamento condominiale in modo anche trascurabile, con violazioni come fumare o bere alcolici in spazi comuni o parcheggiare male, i punti vengono scalati e, di penalità in penalità, si arriva fino alla revoca dell’assegnazione; se invece sono decorosi inquilini modello, «assegnatari che mantengono un comportamento virtuoso» nelle parole dell’Unione Pedemontana Parmense, otterranno qualche punticino in più.

Ne deriva che per i proprietari di casa, o per gli inquilini sul libero mercato, valgono codice civile, stradale eccetera, per chi è troppo povero per stare sul mercato immobiliare valgono regole più penalizzanti. Per avere la casa popolare non devi quindi averne semplicemente diritto in base all’ISEE, ai figli a carico, alle situazioni di fragilità economica e sociale eccetera, ma devi anche dimostrare, giorno dopo giorno, di «meritartela».

 

III

È nel corpo – assai spesso nel corpo migrante – che le istanze del decoro mordono la carne. Nel testo di Ascari tali questioni sono trattate soprattutto facendo riferimento a Frantz Fanon:

«il colonizzato sta sempre in ansia, perché decifrando con difficoltà i molteplici segni del mondo coloniale non sa mai se ha oltrepassato o no il limite»

Fanon chiama «una specie di maledizione», questa colpevolezza spaziale e corporea. Il tema della postura del migrante, e dunque del suo corpo che presuntamente «ciondola» negli spazi pubblici, è un tema che ha letteralmente pervaso la politica del decoro. La destra sogna esplicitamente una «pulizia» delle strade che corra lungo la linea del colore della pelle. La sinistra, quando non replica direttamente la narrativa della destra (come fa Vincenzo De Luca, per capirci), impone il decoro tramite  retoriche «color-blind» e «class-blind». Le politiche del decoro, scrive Ascari, «formalmente non badano alla razza, ma statisticamente sì». La legge sarà così uguale per tutti, e nessun proprietario di superattico in centro potrà sottrarsi alle giuste sanzioni se trovato a bivaccare nottetempo su una panchina in un parco di periferia! Quale che sia il colore della sua pelle!

Tornando all’«ansia» denunciata da Fanon, voglio ricordare come, nella gestione all’italiana del lockdown per Covid-19, grazie a una stratificazione subdolamente confusiva di norme, ordinanze, dpcm fosse diventato impossibile anche a «noi», dotati di cittadinanza europea e pelle bianca, decifrare i «molteplici segni» e sapere se avessimo «oltrepassato o no il limite» del consentito: eravamo «prossimi» o no all’abitazione? Sbirciando nel sacchetto, le guardie avrebbero considerato gli alimentari che avevamo comprato una giustificazione sufficiente, oppure c’era troppo alcool e junk food?

Oltre ai corpi migranti ve ne sono altri che eccedono i codici del «decoro», e talvolta uno stesso corpo incarna entrambe le infrazioni. Come mi ha scritto Filomena «Filo» Sottile, anticipando alcune riflessioni del suo La mostruositrans (Eris edizioni, 2020) e aiutandomi a colmare le mie lacune di sguardo:

«La città decorosa è percorribile dalle persone trans? Dipende. Esistono persone trans i cui corpi passano, somigliano cioè moltissimo a quelli che gli stereotipi di genere prescrivono per donne e uomini cisgender. Corpi appetibili e desiderabili per la norma, adeguati alle categorie imposte dal binarismo di genere, corpi a prima vista indistinguibili. Per questi corpi i cancelli si schiudono. Ci sono altri corpi trans che hanno un livello di passing basso: i fianchi, le spalle, i seni misurano troppo o troppo poco per il genere che performiamo, la voce è troppo acuta o troppo profonda, la quantità di pelo non è quella prescritta. Tralasciamo gli sguardi, i commenti e la transfobia spiccia, quotidiana. Parliamo della relazione coi “tutori della legge”. Io ne ho esperienza diretta: mi capita con una certa frequenza di aspettare treni nelle stazioni della penisola. Gli abiti, il trucco, gli anelli e le collane spesso vengono percepiti come incongruenti con il mio corpo. Le forze dell’ordine mi chiedono spesso di mostrare i documenti. Per ora non mi è successo nulla di grave, ho un biglietto di viaggio, ho pagato e ho diritto a stare in stazione. Appurato questo restano a farsi due risate, provano a umiliarmi usando il maschile, sottolineando il nome assegnato alla nascita, chiedendomi più volte di ripetere i miei dati anagrafici sebbene siano chiaramente scritti sulla carta d’identità ma tutto finisce lì. Io però sono una persona bianca. Le persone trans non bianche se la passano peggio. L’ultimo episodio a me noto è accaduto in questi giorni di lockdown. Una persona trans di origine sudamericana che andava a fare la spesa, è stata fermata da uomini in divisa e immediatamente accusata di essere uscita per prostituirsi.»

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