L’ “arte esatta” di scoprire teoremi

Sul processo di invenzione matematica e i limiti dell’attuale didattica

Non esiste nulla di più idealistico e poetico, nulla di più radicale, sovversivo e psichedelico della matematica.

Paul Lockhart, Contro l’ora di matematica

Voti, note, registri, crediti, debiti: in tutto il mondo della formazione scolastica ed universitaria, coerentemente con i canoni dell’era della produttività e della competitività, imperversa ormai l’opinione comune che una rigida normazione dei metodi di studio e una didattica fondata sulla valutazione siano strumenti necessari come incentivo allo sviluppo intellettuale e culturale dello studente. Abitudine che va a braccetto con la messa al bando di ogni forma di svago, in quanto improduttivo. “Prima il dovere e poi il piacere”, e si badi bene a tenere le due cose distinte. Paradossalmente, allo stesso tempo, si indaga su quali siano le condizioni favorevoli alla produzione creativa, potendo facilmente riscontrare, anche pensando alle nostre esperienze personali, come sia l’interesse svincolato da fini pratici a fungere da massimo incentivo di ricerca culturale, artistica o scientifica che sia.

L’ imporsi di una didattica coercitiva, aiutata dalla compartimentazione stagna delle aree del sapere, ha contribuito a costruire metodi che sono quanto di più ostacolante alla creazione del sapere possa esistere.  

Nell’ambito delle cosiddette “scienze esatte”, dove più si risente dell’influenza del produttivismo accademico, un’interpretazione meramente utilitaristica di queste discipline ha portato spesso a travisarne la definizione stessa, tramandandone così un metodo ben lontano da quelli che storicamente sono stati i processi di invenzione e scoperta delle teorie scientifiche, quindi certamente inadeguato per l’insegnamento di tali discipline. Per quanto riguarda in particolare la matematica, sulla quale ora ci soffermiamo, siamo tutti ormai più o meno consapevoli di quanto sia facile odiare questa meravigliosa scienza a causa di ore di liceo (o di corsi universitari) improntate su una didattica estremamente frontale tra docente e studente, nelle quali si privilegia l’applicazione meccanica delle formule rispetto alla comprensione approfondita, e dalle quali si torna a casa con tanti dubbi sul significato e l’ utilità delle conoscenze trasmesse. Il matematico e filosofo Bertrand Russell, famoso per le sue invettive contro i metodi didattici, racconta di come il professore fosse solito lanciargli il libro in testa ogni qual volta lui non si ricordava una formula, chiedendosi come questo potesse stimolare le sue capacità intellettuali. Seppur questo aneddoto ci faccia di primo istinto sorridere, il problema esposto da Russell rappresenta la logica di tutto l’ attuale sistema educativo, che si illude di poter incentivare la produzione culturale con coercizioni o ricatti fondati sulle scelte razionali. Ciò che ci proponiamo di fare ora è smontare l’idea di una matematica statica, rigida e anti-creativa consegnataci durante gli anni di studio, riscontrando invece una stretta similitudine tra l’ invenzione matematica e quella artistica, partendo dai casi di diatribe storiche all’interno della comunità scientifica e ascoltando le parole di quegli scienziati che la stessa scuola che ci chiama ad essere produttivi e intransigenti considera le menti più eccelse della Storia.

La matematica è (quasi) un opinione

Uno dei grandi malintesi sulla matematica che commettiamo nelle nostre aule di scuola è che il professore sembra sempre conoscere la risposta di ogni problema che si discute.

 Ciò dà agli studenti l’idea che da qualche parte c’è un librone con tutte le risposte corrette a tutte le domande interessanti,

che gli insegnanti ce l’hanno e che basterebbe trovarlo per avere tutto a posto.

Questo è davvero l’opposto della vera natura della matematica.

Leon Henkin

 La prima idea che ci viene consegnata della matematica, che è anche la più ingannevole riguardo la sua essenza, è quella di una disciplina rigida nel senso di incontestabile, semplicemente da assumere come tale e nella quale il suo formalismo non comporta necessità di comprensione ulteriore. A rafforzare questa impressione è sopratutto il ruolo delle definizioni, oggetti assunti a priori, consegnati dal dio della matematica e quindi immuni dal dover essere in un qualche modo comprese, perché appunto così definite. Una tale interpretazione della matematica è impartita nelle scuole secondarie ma purtroppo anche in ambienti accademici, e talvolta i suoi sintomi si riscontrano anche nei metodi di professori e ricercatori che con la matematica hanno a che fare ogni giorno. Tale interpretazione, oltre ad essere di ostacolo ad una adeguata comprensione della disciplina, non trova neppure riscontro nei reali processi che hanno portato alla formulazione delle attuali teorie lungo i secoli.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nella comunità matematica si sono spesso avuti diverbi a proposito dell’accettare o meno le varie teorie proposte. Un caso che forse tutti conosciamo è la vicenda delle geometrie non euclidee, costruite negando alcuni postulati della geometria classica, a seconda di quali concetti intuitivi estrapolati dalla realtà il matematico di turno volesse porre come fondamento assiomatico della propria teoria geometrica. Un altro diverbio ben più acceso è quello che riguarda i numeri immaginari, oggetti fondamentali per introdurre il campo dei numeri complessi, ma che trascorsero 300 anni di latitanza, dal XVI secolo in cui furono ideati fino a Gauss, prima che la comunità matematica li accettasse come numeri degni di valore, mentre prima erano considerati solo “frutto dell’immaginazione”. Il caso che reputo tuttavia più interessante è quello dell’ analisi non standard, una vera e propria “reinterpretazione” dell’ analisi matematica che ha portato a formulare una migliore definizione di derivata e di probabilità (ma è proprio sul significato di questo migliore che dobbiamo interrogarci), aprendo una discussione all’ interno della comunità matematica che non si è ancora conclusa.

Ma se la matematica è così incontrovertibile come ci hanno insegnato, perché tanto discutere? Non basterà applicare la formula a pagina 46 del manuale per scoprire chi ha ragione? La matematica, così come oggi è strutturata, è il tentativo di costruire oggetti via via più complessi tramite composizione di oggetti più elementari, come ad esempio cercando di definire la “circonferenza” dopo aver definito il punto o rappresentando il concetto di “funzione” utilizzando come mattoncini soltanto gli insiemi. Il punto è che queste rappresentazioni non sono univoche, bensì lasciate, per così dire, al senso artistico del matematico. È certamente vero che verificare la coerenza di una teoria è una questione formale, ma ciò che non ammette un metodo formale è pensare a come costruire con i concetti elementari (o quelli complessi già costruiti) un modello matematico più simile possibile ad un oggetto avente un certo “comportamento”, o meglio un certo rapporto con gli altri oggetti già esistenti. Le definizioni di cui parlavamo prima dunque, non sono oggetti dati a priori, assunti come veri in quanto tali, ma sono state concepite avendo come riferimento un concetto intuitivo da dover rappresentare, concetto che può provenire dalla vita quotidiana o essere nato in circostanze legate allo studio della matematica stessa. Questo meccanismo viene del tutto eclissato nei corsi di matematica odierna, in cui innanzitutto non si fa riferimento alle discussioni attuali sulle teorie insegnate e soprattutto non si ammettono le criticità effettive che le varie teorie devono colmare, camuffando così l’essenza stessa della disciplina ed il lavoro nel quale consiste. Ed è qui che si nasconde quello che possiamo considerare  l’ aspetto artistico della matematica: nel dover prendere una nozione, un concetto familiare e stupirsi di come sia possibile definirlo, ovvero costruirlo, a partire da oggetti più semplici già costruiti. Questa costruzione, è fondamentale ribadirlo, non è univoca né universale, bensì contingente, immanente, dettata dalle circostanze storiche e sociali, e nessuno garantisce che non ve ne possa essere una migliore di quella insegnata, dove per migliore intendiamo più vicina all’intuizione o più maneggevole dal punto di vista formale.

Una volta elaborate più teorie, la scelta del matematico di quale definizione assumere tra le tante è un operazione quanto di più lontana dal formalismo e dalla razionalità, affine invece ad un vero e proprio senso estetico, artistico, come è riscontrabile dalla collezione di testimonianze che i grandi pensatori ci hanno lasciato dal passato. Michele Emmer, nel suo La perfezione visibile, dopo aver studiato tanti casi di grandi studiosi arriva a concludere che “l’attenzione che i matematici hanno per le qualità estetiche della loro disciplina:(…) è notevole; da qui discende l’idea di molti matematici, anche contemporanei, che l’attività matematica e quella artistica siano in qualche misura molto simili, paragonabili.” Chandrasekharan, matematico e Premio Nobel per la Fisica, in Verità e Bellezza esprime il proprio “pensiero generale sulle motivazioni che ispirano l’attività artistica e sui modelli di creatività che si esplicano nel campo della Scienza”. Einstein e De Morgan consideravano entrambi l’immaginazione una capacità più importante della conoscenza. Poincarè, così come Dirac e Heisenberg, diceva di capire la correttezza di una formula o di una teoria, prima che razionalmente, valutandone la “bellezza”. Boltzmann affermava di riconoscere i vari matematici dal loro stile proprio come un musicista distingueva Mozart da Beethoven e per Rutherford la teoria di Einstein era una “straordinaria opera d’arte”.

Infine grandi matematici come Russell e Gauss sono famosi per i loro aneddoti in cui criticano pesantemente il metodo di insegnamento scolastico della matematica, considerato quasi ridicolo; fu proprio Gauss, inoltre, che si dichiarò stupito di quanta poesia vi fosse in una tavola dei logaritmi. La lista potrebbe facilmente continuare a lungo, e sarebbe troppo comodo, giunti a questo punto, considerare queste affermazioni come semplici aforismi poco degni di nota per poi tornare ad elogiare la genialità degli autori una volta tornati sui libri di testo, invece di leggere questi come consigli per comprendere meglio il funzionamento di quei meccanismi intellettuali che hanno portato alla formulazione delle più importanti teorie scientifiche.

Che suono fa il Teorema di Pitagora?

Esiste una passione per la comprensione come esiste una passione per la musica

Albert Einstein

 

In un recente articolo comparso su American Mathematical Society Journal, dal suggestivo titolo Can One Hear the Sound Of a Theorem?, Rob Schneiderman indaga sulle similitudini tra il processo creativo nella matematica e quello nella musica.

Infatti”, dice, “il processo di creare e scoprire la matematica è in molti casi analogo all’esibizione di un gruppo jazz”. Schneiderman quindi non solo critica solo l’eccessivo formalismo della didattica americana ma vuole sfatare il mito del matematico solitario, riscontrando quanto la creatività sia più proficua se alimentata da necessità di relazione sociale. “Questo è evidente”, continua, “nello scambio in tempo reale di idee tra collaboratori, guidati da un problema comune da risolvere, che si trovano a sviluppare materiale simultaneamente, seguendo idee divergenti, risolvendo le questioni più critiche, e senza essere mai sicuri che l’ obiettivo finale sia stato raggiunto”. In gran parte dell’articolo poi, l’autore osserva come la matematica, al pari della musica, se praticata senza avere necessariamente un fine pratico o un programma prestabilito da dover portare a termine in tempi previsti, possa diventare un potente mezzo di sviluppo delle capacità logiche e intuitive. Per questo motivo Schneiderman suggerisce l’uso di una matematica “dell’improvvisazione” nelle scuole primarie e secondarie che sappia cogliere queste potenzialità. La  matematica, al pari della musica, andrebbe considerata come un mezzo per sviluppare un abilità, più che una conoscenza, in particolare l’abilità di adattarsi ad un pensiero flessibile e di ragionare per astrazione.

La completa ignoranza dell’essenza della ricerca matematica e dell’improvvisazione musicale che prevale nella società odierna”, conclude, “è indice di quanto i benefici di questo metodo potrebbero essere enormi.”

Curiosamente un paragone tra metodo matematico e musicale è anche quello che fa da colonna portante di un celebre testo, Contro l’ ora di matematica, di Paul Lockhart, un insegnante stanco di una didattica della matematica a suo avviso dannosa, che ha deciso di mettere nero su bianco questo manifesto originale e divertente. Questo breve saggio, pubblicato originariamente con il sottotitolo “Come la Scuola ci allontana dalla nostra più affascinante e fantastica forma d’arte”, si apre con uno scenario distopico in cui a tutti gli studenti di tutte le scuole è stata resa obbligatoria l’ ora di musica, praticata in modo estremamente rigido e noioso. Il paragone a questo punto è evidente, e per tutta l’ opera Lockhart prova a fornire un’idea di matematica più artistica e “musicale” possibile, proponendo modifiche all’attuale didattica.

La matematica è un’arte.” – dice Lockhart –  “La matematica è la più pura delle arti, ed è anche la più incompresa.” E ancora: “Fare matematica vuol dire giocare con gli schemi, notare cose, fare congetture, cercare esempi e controesempi, sentirsi ispirati a inventare e esplorare, elaborare argomentazioni e analizzarle, e sollevare nuove questioni. Ecco in che cosa consiste la matematica”.

Le idee espresse da Lockhart sono molto interessanti e provocanti, condotte narrativamente da un simpatico dialogo galileiano tra Simplicio e Salvati, ma lasciano un po’ desiderare nel momento in cui occorre trarre conclusioni pratiche su come riformare il sistema didattico. Lockhart invita a gettare dalla finestra i libri di testo e il programma scolastico, e come suggerisce il titolo propone addirittura di eliminare l’ ora di matematica dalle scuole perché considerata inutile. Per quanto riguarda il metodo, si limita a riportare qualche esempio di dimostrazione originale vicine all’ intuizione ma limitandosi a un paio di teoremi di geometria basilare. Per ragionare sulle applicazioni di tutte queste riflessioni credo sia necessario porre innanzitutto una distinzione tra scuole secondarie e università, per poi fare un ultima fondamentale osservazione su ciò che che va al di là di quanto le istituzioni del sapere possono offrire. Per quanto riguarda le scuole primarie e secondarie, essendo ormai tutti consapevoli di quanto sia inutile l’ apprendimento attuale, visto il tempo con cui ci dimentichiamo le formule e i teoremi appresi in modo mnemonico, è forse realmente praticabile una didattica secondo i consigli di  Schneiderman e Lockhart, cercando i metodi più fruttuosi, dall’insegnamento di giochi da tavolo a percorsi più stimolanti come quelli che la divulgazione scientifica oggi sa offrire, per poter sfruttare la matematica e le scienze come mezzi di sviluppo di quella capacità intellettuale che potremmo riduttivamente chiamare intuitiva, ma sulla quale si potrebbe scrivere un mare di parole.

La didattica universitaria e più avanzata, invece, deve poter fornire un’idea di matematica quanto più fedele al vero processo di invenzione, e ciò può avvenire, innanzitutto, presentando le teorie alternative laddove vi sia tuttora un dibattito all’ interno della comunità, rendendo così gli studenti partecipi anche degli sviluppi attuali della disciplina. Vi è inoltre un altro tasto “dolente” da dover toccare. Se il processo di invenzione matematica è così prossimo alla creazione artistica, è impossibile non osservare come una didattica della valutazione e del merito sia un bastone nelle ruote non indifferente alla libertà di espressione e di ricerca culturale. La valutazione è la tomba della creatività. La figura del maestro incontrovertibile e anzi giudicante rende impossibile l’ obiezione al metodo, blocca sul nascere ogni tentativo di evasione guidato dall’interesse personale non appena questo porti a valicare i confini del sacro programma scolastico. Quello esposto in questo articolo è soltanto un piccolo esempio di quanto la valutazione, funzionale alla perpetrazione di processi sociali tanto complessi da non poter essere qui analizzati, sia di ostacolo ad un’autentica ricerca culturale, imbrigliando i percorsi di ogni studente in un unico, omogeneizzante metodo.

Conclusione: per una scienza “hacker”

Infine dobbiamo notare che per quanto le teorie di Lockhart possano sembrare utopiche, gli va riconosciuta la capacità non indifferente di aver saputo riconoscere le potenzialità formative del tempo libero. Siamo abituati ad un paradigma in cui la produzione del sapere deve avvenire rigorosamente entro i termini, i tempi e gli spazi previsti per essere riconosciuta come tale e non venire etichettata come un inutile perdita di tempo, indipendentemente dalla qualità del sapere prodotto. Nel proporre di eliminare la matematica dal programma scolastico per lasciarla alla libera ricerca personale (non necessariamente individuale, ma anzi con la costituzione di gruppi di appassionati alla disciplina), Lockhart riabilita il percorso autoformativo, compiuto seguendo le passioni personali, eventualmente con l’aiuto di esperti ma senza la necessità del giudizio insindacabile di un tutore, perché la curiosità stessa, alimentata dalla socialità, può fare da incentivo per un adeguata quanto fruttuosa ricerca culturale. Questo lo possiamo riscontrare in vari esempi, dalle comunità hacker legate al mondo dell’ informatica, nelle quali è proprio l’ autoformazione (il famoso DIY, Do It Yourself) a farla da padrone, ai tanti casi storici in cui menti brillanti, guidati da una passione sregolata, sono arrivati a dedicare tutta la vita ad un unica ricerca, riuscendo così ad ottenere quei grandi risultati di cui oggi tanto ci vantiamo. È qui, infatti, che ci troviamo ad affrontare apertamente la grande ipocrisia dell’attuale mondo accademico, che esorcizza ogni forma di svago e divertimento con l’ etica protestante del merito e del sudore, quando la storia delle scienze, dell’ arte e della letteratura ha dimostrato più volte come le grandi opere di ingegno siano state compiute grazie alla potenza dell’entusiasmo.

 

 

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