Quattro passi nel “piacere del testo” kafkiano
Poco prima della pubblicazione de La metamorfosi, Kafka invia una lettera al suo editore in cui cerca di dissuaderlo dal raffigurare sulla copertina dell’opera l’uomo-scarafaggio Gregor Samsa. «Non lo scarafaggio, soprattutto non lo scarafaggio!» E ancora: «sulla base della mia conoscenza naturalmente più corretta del racconto, la prego di non disegnarlo». E infine: «l’insetto in sé stesso non può essere disegnato. Ma non può neanche essere mostrato da lontano»[1].
Come suggerisce la difficoltà di artisti, registi e illustratori nel dare una trasposizione visiva all’universo dei romanzi e racconti, l’irrappresentabilità dello scarafaggio de La metamorfosi è comune a molte immagini e situazioni kafkiane. La scrittura di Kafka, infatti, costruisce la visibilità dei suoi oggetti attraverso un dispositivo stilistico di sottrazione alla vista, e ai sensi, di ciò che descrive. Questi punti ciechi di esperienza nel testo kafkiano non sono casuali, ma si costituiscono intorno ad una tipologia specifica di rappresentazioni: tutto ciò che, come lo scarafaggio, appartiene all’ambito del disgustoso, dell’osceno, del perverso.
Un indizio a riprova di questo fenomeno si trova nella discrepanza tra ciò che i testi di Kafka mostrano e la loro ricezione e categorizzazione critica. L’opera del nostro non è sicuramente classificabile come letteratura pornografica e il ripugnante non compare mai come tema preminente nella – seppur immensa – letteratura sullo scrittore praghese. Ciononostante, presenta in modo ossessivo riferimenti ad una sessualità perversa, a processi alimentari disgustosi, a corpi degradati, maleodoranti e mutilati, e ad ambienti e situazioni sudice e nauseanti. Se questa proliferazione di immagini disgustose non diviene mai centrale nell’esperienza del testo kafkiano, è proprio perché la scrittura di Kafka è in grado di trasformare l’osceno in qualcosa che, seppur apertamente esibito come tale, rimane stranamente assente e impalpabile.
«Dovrei poter inventare parole capaci di soffiare il fetore di cadavere in una direzione di modo che non arrivi subito in faccia a me e al lettore»[2], scrive Kafka nei suoi diari. Questa capacità di disperdere il “fetore” di una rappresentazione è ciò che Winfried Menninghaus, nel capitolo dedicato a Kafka nella sua monografia sul disgusto, definisce come «radicale desincronizzazione del contenuto effettivo dell’azione e degli effetti inerenti alla rappresentazione»[3]. Attraverso uno straordinario lavoro di contestualizzazione e stilizzazione, Kafka è in grado di ritardare l’effetto estetico delle sue rappresentazioni disgustose, e in tal modo di rendere quasi invisibile l’esibizione di pratiche e oggetti abbietti. Questa strategia testuale ha a che fare con ciò che Friedrich Beissner ha definito, in rapporto a Kafka, «prospettiva narrativa univoca» (einsinnige Erzählperspektive)[4], ovvero la sovrapposizione tra la coscienza narrativa in terza persona e la prospettiva del protagonista. Se i lettori vedono e conoscono solo quello che il protagonista fa e percepisce, e il protagonista mostra assoluta noncuranza nei confronti del teatro di oscenità che lo circonda, allora anche il lettore è inconsapevolmente portato a trascurare il “fetore” del testo. Lo spazio che si apre nella discrepanza tra oggetti disgustosi e la loro neutralizzazione estetica, inoltre, costituisce spesso un piacere che si approssima al grottesco. Alcuni esempi possono essere utili per inquadrare questo fenomeno di desincronizzazione.
Nel racconto Un digiunatore, Kafka presenta l’immagine rivoltante del corpo degradato di un digiunatore, rinchiuso per più di un mese nella «paglia putrida» di una gabbia in cui «reprime a fatica» [5] i conati di vomito al pensiero del cibo. Questa abiezione fisica e psicologica è del tutto velata dal fatto che il racconto sia restituito dal punto di vista del digiunatore stesso, che continua ad enfatizzare, anche con effetto comico, il suo status di artista sublime, capriccioso e incompreso.
Nel racconto Nella colonia penale, il punto di vista del tutto distaccato dell’“esploratore” chiamato a giudicare di un’abominevole procedura di esecuzione si integra con la prospettiva grottescamente ingegneristica e tecnica con cui l’“ufficiale” descrive il dispositivo di tortura («Si sono dovute superare alcune difficoltà tecniche per fissare gli aghi in questa materia, ma dopo numerosi tentativi ci siamo riusciti»[6]). Immagini che in qualsiasi altro contesto rimarrebbero vividamente impresse alla lettura, come quella di un sistema idraulico per incanalare «l’acqua mista a sangue»[7] o di un tampone «che più di cento uomini agonizzanti hanno succhiato e masticato»[8], si stemperano nel registro e negli accadimenti comico-grotteschi del racconto.
Anche i tre romanzi presentano in modo del tutto esplicito uno spettro di pratiche e situazioni ripugnanti che vengono sublimate dal punto di vista monopolizzante dei vari K.
Ne Il processo e Il castello, il ruolo totalizzante della ricerca spasmodica dei protagonisti rende marginali, quasi invisibili, la congerie di bassezza e immagini disgustose in cui incappano. Tanto i luoghi della legge in cui si perde Joseph K., quanto gli ambienti in cui K. cerca disperatamente un accesso al castello sono spazi soffocanti, sporchi e maleodoranti. Nei dintorni del tribunale, tra lenzuola segnate, stracci e individui vestiti solo di biancheria intima, si aggirano prostitute-bambine, «ragazze adolescenti vestite, pareva, del solo grembiule» che «si davano un gran da fare»[9]. I funzionari del Castello abusano impunemente di tutte le donne del villaggio e conducono un’esistenza a tal punto abbietta che «non è facile sormontare il ribrezzo nel far le loro camere quando se ne sono andati»[10].
Joseph K. e K. attraversano questa catabasi di sozzure e perversioni rimanendo quasi del tutto indifferenti, secondo quello che Adorno definisce come il diktat del «così è»[11] del testo kafkiano. Nel modo di Kafka, «viene eliminato tutto ciò che potrebbe scostarsi dal sogno e dalla sua logica pre-logica e proprio per questo risulta eliminato il sogno stesso»[12]. Insieme alle distanze che si dilatano, i volti che si confondono, il sole che cala troppo presto, anche le peggiori oscenità sono ratificate e normalizzate dalla logica onirica in cui si muovono i protagonisti di Kafka.
Nel caso del romanzo America, invece, questo effetto di semantizzazione e dislocamento del disgusto è ottenuto attraverso il punto di vista assolutamente inconsapevole, infantile e dunque (freudianamente) privo di disgusto di Karl Roßmann. Sebbene il giovane subisca diversi tentativi di stupro, assista ad orge alimentari, si accompagni ad individui disgustosi e perversi e finisca al servizio di una prostituta informe, sadica e sporca, egli fraintende sistematicamente la matrice disgustosa e sessuale di tutto ciò che gli accade.
L’innocenza immacolata di Karl è al tempo stesso l’innocenza del lettore e di Kafka stesso. Anche in America, dunque, il disgustoso è depotenziato e reso impercettibile.
Il senso di questa torsione kafkiana dell’oscenità in innocenza è perfettamente racchiuso in un passo di una lettera a Felice, che Kafka trascrive nel suo diario e invia a Max Brod definendolo «un abbagliante brano di autocoscienza».
«Se mi esamino in merito alla meta finale», scrive l’autore, «risulta che non aspiro veramente a diventare un uomo buono e a rispondere a un tribunale supremo, ma proprio al contrario, […] a riuscire gradevole a tutti, o precisamente (qui viene il salto) così gradevole da poter infine eseguire, unico peccatore che non venga arrostito, le volgarità che contengo, apertamente, davanti a tutti, senza perdere l’amore di tutti». Ciò che rimane assente ad una lettura del testo è proprio ciò che più volutamente e ricorrentemente vi circola.
Un certo piacere per il ripugnante e il perverso, dunque, entra a far parte del piacere del testo senza che il lettore se ne accorga, rimanendo invisibile e non tematizzabile. Il ritardo del significato sul significante, e dunque l’illeggibilità di un ripugnante che è nondimeno esposto alla vista, permettono a Kafka un vero e proprio “miracolo” estetico: anestetizzare sul nascere le inibizioni dei lettori e far loro gustare, del tutto innocentemente, un inferno dei sensi.
[1] F. Kafka, Briefe 1902-1924, Frankfurt am Main, Fischer, 1975. (trad. mia).
[2] F. Kafka, Tagebücher, Frankfurt am Main, Fischer, 1990; trad. it. Diari [1910-1923], in Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1972, p. 141.
[3] W. Menninghaus, Ekel. Theorie und Geschichte einer starken Empfindung, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1999; trad. it. Disgusto. Teoria e storia di una sensazione forte, Mimesis, Milano, 2016, p. 386.
[4] Cfr. F. Beissner, Der Erzähler Franz Kafka, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1983.
[5] Cfr. F. Kafka, Un digiunatore, in Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, trad. it. S. Berardelli, Newton Compton, Roma, 2016, p. 604.
[6] Ivi, p. 557.
[7] Cfr. F. Kafka, Nella colonia penale, in Tutti i racconti, i romanzi, i pensieri e gli aforismi, cit. p. 557.
[8] Ivi, p. 560.
[9] F. Kafka, Der Proceß, Fischer, Frankfurt am Main 1990; trad. it. Il processo, in Romanzi, Mondadori, Milano, 1991, p. 449.
[10] F. Kafka, Das Schloß, Fischer, Frankfurt am Main 1982; trad. it. Il castello, Mondadori, Milano, 1976, p. 878.
[11] T.W. Adorno, Aufzeichnungen zu Kafka, in Noten zur Literatur 1961-1968, Suhrkamp, Frankfurt, 1974; trad. it. Appunti su Kafka, in Note per la letteratura, Einaudi, Torino, 1979, p. 236.
[12] Ivi, p. 239.
Leggi anche l’articolo di Gianluca Pulsoni Comicità infilmabili. Tre “letture kafkiane” nel cinema italiano.