Comicità infilmabili

Tre “letture kafkiane” nel cinema italiano.

Intervista (1987) di Federico Fellini

La specificità della scrittura di Kafka – la sua profondità teorica in relazione ai suoi effetti – sono un qualcosa che, in Italia, ha avuto tanta letteratura. Ciò detto, prospettive originali non sono mancate. Fra queste, sicuramente, c’è stata quella di Carmelo Bene, il quale proponeva un punto di vista particolare in materia, vagheggiando di voler scrivere un saggio sul comico in Kafka. Nelle sue parole: «Non c’entra nulla lo scrittore di Praga con la coscienza. I critici letterari sono fuorvianti. Kafka è un monumento comico al concetto di porno. Parlo del freddo cadaverico del comico.» E ancora: «Mi sono espresso alla poveraccia un attimo fa. Parlare di “concetto di porno” è uno scadente ossimoro. L’ “osceno” è per definizione quanto si sottrae al concetto. In quanto al “comico” non va mai confuso con la “commedia” o peggio ancora con il “buffo”. Così come il sentimento del “tragico” non va mai confuso con la “tragedia”». E infine: «Il comico è tutto l’opposto. Quanto di più asociale e libertino si possa concepire, se mai fosse concepibile. […] Il comico è cianuro. Si libera nel corpo del tragico, lo cadaverizza o lo sfinisce in un ghigno sospeso. C’è niente di più comico di un cadavere o di un abbacchio a testa in giù, sospeso a un gancio, di qualunque macelleria?»1

Seguendo la lettura beniana, si potrebbe ipotizzare tutta una serie di ricognizioni su come la pratica che è per eccellenza il doppio della letteratura – cioè il cinema – abbia “tradotto” o “non tradotto” in immagini audiovisive quel «ghigno sospeso». In merito, fra le varie cinematografie occidentali, quella nostrana potrebbe essere un campo privilegiato d’indagine, data la tradizione della commedia all’italiana. Quindi, di seguito, tre note su tre progetti filmici italiani (in)compiuti che riguardano i tre romanzi dell’autore praghese: America, Il processo e Il castello.

Il limite del “visionario”

Di Fellini si è ovviamente scritto talmente tanto che il rischio di ripetere il già detto è quasi certo. In questo caso però, l’attenzione potrebbe andare su di un aspetto particolare della sua poetica, ovvero la natura della sua conclamata visionarietà – il cui limite era, come Flaiano apostrofava, «il fellinismo delle maschere» – in relazione ad uno dei progetti che il regista di Rimini non è mai riuscito a realizzare in pieno, ovvero la sua versione per il cinema di America di Kafka.

Tracce di questo interesse si ritrovano in un episodio del programma per Rai Tre, Una sera, un libro (1988), ma anche – e soprattutto – nel film Intervista (1987), in cui il solito meccanismo del set nel set, insieme ad altre soluzioni narratologiche, ci fa intravedere un Fellini che, nella parte finale, è alla prese con provini di possibili attori e attrici per il suo adattamento. Ora, quello che suggerirebbe la visione o revisione della pellicola citata è proprio questo, e cioè che, per il nostro, la trama del romanzo dello scrittore praghese sembra traducibile come una specie di occasione onirica in cui la caricatura figurativa è il tratto saliente. Non una novità, chiaro. Ma qui, in sintonia con il contesto storico dello scrittore di Praga, si potrebbe dire che c’è quasi un esibizionismo espressionista, un gusto che – alla fine – potrebbe portare alle stilizzazioni di un George Grosz. Quindi ecco, pittura, ma tutto questo è Kafka oppure è una interpretazione di qualcosa di kafkiano? Se si considera la rappresentazione iconografica della sessualità in Fellini, si può forse intuire come questo sia uno degli aspetti del romanzo che interessava maggiormente al regista. Allo stesso tempo però, sembra anche chiaro che una letterale adesione al mostruoso kafkiano dei corpi tradisca la mancanza di una attenzione nei confronti di quanto, in Kafka, il sesso sia totem e tabù assieme.

Il processo (1978) di Luigi di Gianni

Il problema della trasposizione

Fra le molte cose, Luigi Di Gianni (1926-2019) è stato un bravissimo documentarista, capace di affrontare una varietà di temi con un piglio antropologico non comune, senza troppi manierismi. Questa sua asciuttezza stilistica la si ritrova anche in un film da lui diretto e andato in onda nel 1978, una riduzione per la RAI del romanzo di Kafka, Il processo.

Con un cast di professionisti di tutto rispetto – fra cui, Roberto Herlitzka, Milena Vukotic, Piera Degli Esposti – Di Gianni ha messo in scena, in modo puntiglioso, tutto il meccanismo kafkiano della narrazione. Non sembra mancare nulla, nemmeno rispetto a versioni più celebri e, se si vuole, “immaginifiche” (il riferimento è naturalmente al film di Orson Welles). Eppure… eppure, un lavoro del genere, mostrerebbe facilmente un problema – fra i tanti – che una trasposizione per così dire “fedele” all’originale comporterebbe. Nello specifico: l’argomento riguarderebbe il fallimento automatico di una resa letteraria della narrazione kafkiana. Automatico perché chiunque sia il regista e qualunque sia l’idea di messa in scena, ci si andrebbe a scontrare sempre con l’impossibilità di tradurre ciò che potrebbe essere alla base del comico in Kafka attraverso la lettura beniana, cioè ciò che Nora Siena ha ripreso da Winfried Menninghaus, «la desincronizzazione tra fattori disgustosi e sentimento del disgusto», possibilità che reputiamo intrinseca al solo linguaggio verbale e in grado di svilupparsi in simultanea nella scrittura del praghese.

L’opzione del grottesco

Se si “bypassano” i modi della commedia, sia nella caricatura che nella teatralità, forse l’opzione del grottesco potrebbe essere quella più vicina al senso del comico in Kafka delineato da Bene. In questa accezione, un maestro di quello che potremmo ribattezzare “grottesco all’italiana” è senza dubbio Marco Ferreri il quale si è cimentato con il lavoro dello scrittore, dal momento che si può ritrovare molto de Il castello nel suo splendido film L’udienza (1972), in cui “l’italianità” di alcune scelte (Enzo Jannacci come K; il Vaticano a posto de Il castello) danno già la misura dell’operazione.

Per chi non lo conoscesse, il film racconta le peripezie del giovane Amedeo (appunto, Jannacci), che cerca di parlare in privato con il Papa di turno. In merito all’operazione, si potrebbe recuperare il pensiero sul grottesco elaborato da un genio come Aldo Braibanti. Nello specifico, si potrebbero riesumare due caratteristiche che il filosofo ha dato sul tema. Una riguarderebbe la natura dell’idea in questione, dal momento che «il concetto di grottesco appartiene solo di passaggio al campo estetico, perché contiene tutti gli elementi di una esplorazione olistica.»2.  L’altra, la sua relazione con l’angoscia, visto il carattere anti-drammatico del grottesco, cioè il suo essere non identificabile con l’idea di dramma come azione (tragedia o commedia che sia)3.

Attraverso quanto ipotizzato, si potrebbe quindi considerare L’udienza come un esempio che tenta di recuperare la violenza della comicità in una deformazione della rappresentazione che, della situazione kafkiana, non sembra avere la dimensione tradizionalmente riconosciuta come tragica. In questo, il film appare come una buona illustrazione della terza via che conduce al grottesco delineata dallo stesso Braibanti: «è quella di chi ritiene la fede il termine supremo del dramma morale, e su essa non solo fonda il suo sistema, ma spesso tutta la sua vita pratica. […] Fede è sempre fede nella vita: ma la vita è per noi questa vita, il grottesco è dunque lo stato emotivo di chi scopre in sé stesso o nell’altro il fallimento della fede, che non è riuscita a superare la speranza, o non è divenuta azione, o non ha saputo riconoscersi come un frammento»4.

L’udienza di Marco Ferreri (1972)

Leggi anche l’articolo di Nora Siena Kafka e l’invisibilità dell’osceno.

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Note

  1. Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 2005, p. 31.
  2. Gioacchino Danilo di Gesù, Teorie sul grottesco da Hugo a Braibanti, Aracne, Roma 2012, p. 77.
  3. Ivi, p. 57
  4. Ivi, p. 58.
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