Jean-Francois Lyotard: Il fatto pittorico oggi

Pubblichiamo un estratto dal saggio di Jean-Francois Lyotard “Il fatto pittorico oggi”, contenuto nel volume “Rapsodia estetica. Scritti su arte, musica e media (1972 – 1993)”, a cura di Dario Cecchi, pubblicato da Guerini.

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La raccolta, che copre il periodo che va dagli anni Settanta agli anni Novanta, propone una ricognizione esaustiva del contributo che il filosofo francese ha dato alla riflessione contemporanea sulle arti e sull’estetica, come pure alle connessioni di queste con la psicoanalisi e la politica. Dalla concezione dell’opera d’arte come dispositivo energetico Lyotard approda, nella fase finale del suo pensiero, a un’idea di opera come soglia di irrappresentabilità, che garantisce alla sensibilità umana la capacità di non appiattarsi sulla mera riproduzione percettiva del dato oggettivo: l’opera si apre, al contrario, a nuove possibili configurazioni di senso del mondo.

Nell’estratto che pubblichiamo Lyotard si confronta con lo statuto della pittura nell’epoca dell’estetizzazione generalizzata, ovvero nell’epoca in cui tutto gode della dignità di esposizione.

Il fatto pittorico oggi (1993)

Si partirà da un fatto che è stato definito postmoderno. Esso ha lavorato da lungo tempo nel corso della modernità, a partire da qualcosa come due millenni fa, se si mette nel conto (con Auerbach) Agostino come primo moderno.

Il fatto è il nichilismo inerente al pensiero. In Occidente il sospetto attacca la poesia (Longino), la morale (Montaigne), le arti visive (barocchi, manieristi), la Bildung romanzesca (Cervantes), la politica (Machiavelli).

Cronologie futili, ma punti di riferimento utili. Il nuovo è antico. Prendendo come un tutto l’insieme delle attività, il sistema, un tempo chiamato «capitalismo», il sospetto si allarga a tutta la vita: nulla vale di per sé, ma a partire dalla sua scambiabilità. Il sospetto è il risvolto negativo (critico, disilluso, disastroso); l’altra faccia è lo sviluppo, sarebbe a dire l’ottimizzazione delle prestazioni di scambio e il raggiungimento di una loro maggiore complessità.

Esempio: la «crisi della scuola» è composta insieme di scetticismo verso i saperi presi in se stessi e dell’evidenza del loro valore di scambio (la «realizzazione», la professione, l’apparenza).

Le cosiddette avanguardie hanno risvegliato ed esplorato tutti i sospetti riguardanti il gesto artistico. In particolare nel campo del visivo la (breve) tradizione rappresentata dal classicismo moderno europeo è stata posta in questione in tutti i suoi paradigmi. Poi l’interrogazione (cos’è dipingere?) è sembrata svanire.

Cinismo o modestia della transavanguardia alla fine degli anni Settanta. Si dipinge per il pubblico, ossia per il mercato: gallerie, musei. Cosa si dipinge? Pittura. La pittura è un oggetto culturale. Essa c’è sempre stata: sottoposta ai grandi motivi dei culti religiosi, politici alla richiesta delle autorità. Essa contribuiva a celebrare qualche figura.

Quando qualsiasi figura diventa oggetto di sospetto, cosa può celebrare la pittura? La sua propria esposizione. È arte dal momento che si espone. Nominalismo di De Duve, l’expôt di Déotte (che non è esattamente la stessa cosa). Ci sarebbe una «morte dell’arte» dovuta non tanto alla realizzazione dello Spirito, quanto allo sviluppo del nichilismo.

Questa morte si raddoppia in una estetizzazione generalizzata: cosa non si merita di essere esposto? Come fare a sapere quel che la grande bestia oscura (il pubblico) amerà, dato che essa non obbedisce ai motivi di una credenza o di un gusto? Bisogna procedere per tentativi. Qualsiasi cosa può funzionare. Regola dello scambio: è sufficiente promuovere.

Il pensiero non si interrompe nemmeno quando l’istituzione filosofica non gli è più sufficiente. La vacuità intrinseca dell’istituzione pittorica non altera minimamente la necessità del gesto di dipingere, il suo appello a realizzarsi.

Come la filosofia tenta di emanciparsi dalla sua legittimazione in termini di concetti sistematici, così la pittura ha fatto saltare la catena della buona forma, del tono locale, della rappresentazione figurativa e del gusto.

Si deve pensare senza concetto non fosse altro che per pensare cosa significa concepire (Kant). Si deve dipingere senza soggetto, in tutti i sensi di questa parola. Eccezion fatta per quello che è da dipingere.

Non si deve domandare quale sia la finalità del gesto di dipingere: è collocare il dipingere sotto la causalità di un concetto. Bisogna ammettere che questo gesto investiga se stesso, non discorrendo, ma dipingendo. Così come è essenziale al pensiero riflessivo l’interrogarsi su se stesso pensando. La pittura è il pensiero della pittura, ma il suo pensiero-corpo.

Essa opera in, con e contro lo spazio-tempo e la materia-colore: il sensorium del corpo che vede. L’opera pittorica è senza dubbio un oggetto nel campo del visibile. In cosa differisce da altri oggetti? Nella sua attrattiva? Ciò significherebbe che essa risponde a un qualche bisogno.

Ma non è così: il piacere estetico è senza interesse. L’opera non è attesa o desiderata, come un alimento dall’affamato. Occorre dunque che essa sorprenda, che sciocchi? Nemmeno. Il fatto che un oggetto visibile sciocchi non fa di esso un’opera visiva. L’evento portato dall’opera non è l’accidente dovuto a un primo incontro con un visibile sconosciuto.

L’opera è un’apparenza in cui avviene una apparizione. Da essa emanano uno spazio, un tempo e un cromatismo irriducibili al suo contesto visivo e culturale. Un altro mondo? No, ancora un mondo sensibile, fatto di aistheta. In nessun caso un’immagine, piuttosto un fatto, come notava Braque. Semplicemente visivo piuttosto che visibile. Questo fatto non è il risultato di un fiat.

La cultura contemporanea crede di celebrare l’arte facendo dell’opera l’effetto di una creazione e dell’artista un creatore. La pura performatività del Fiat lux, paradigma della sublimità a partire da Longino, diventa l’ideale di una cultura ossessionata dalla prestazione. La creazione rappresenta il rendimento ottimale: due parole fanno un mondo. L’uomo al posto di Dio: una teologia si perpetua nell’estetica creazionista. Il factum pittorico è tutt’altro: esso fa dell’apparenza cromatica (o formale ecc.) un’apparizione, marcando l’aistheton (il sensibile) con il sigillo della sua soppressione minacciosa. Il visivo della pittura è sempre un riprendersi dalla cecità.

[…]

Nello stesso momento in cui l’aistheton è respinto come apparenza senso-motoria identificabile e ricondotto ad apparizione, il pensiero-corpo, o anima [in latino nel testo], è risvegliato dall’opera, esso esiste.

Questa anima non è una sostanza né una intenzionalità. Né permanenza, né intenzione. Essa non esiste se non in quanto affetta da un evento sensibile: colore, timbro, profumo… Senza un simile evento, non affetta, essa non esiste. Il gesto artistico richiama a questo enigma: l’evento di un aistheton è una affezione. Un corpo dormiva comodamente, sistemando il suo campo sensomotorio, adattandolo allo spazio-tempo-materia della sua vita terrena.

L’opera risveglia questo corpo dal torpore percettivo. Anima [in latino nel testo] è questo risveglio. La pelle di Olimpia è passata attraverso una notte verde, il giardino di Monet torna dall’oscurità screziata del cosmo, il sole apre la sua bocca nera sui campi di grano di Van Gogh.

Il gesto pittorico annienta il sensibile e lo fa ritornare carico di notte. L’anima [in latino nel testo] esiste. Essa non esiste che sulla base di questa dipendenza: né rappresentazione, né concetto, né immagine, né desiderio, né continuità spazio-temporale. L’avvento [advenir] dell’affezione, che il gesto pittorico (o artistico) risveglia, soffia nello stesso tempo l’aura di un ritorno. Ciò non implica alcuna memoria: è la marca inflitta all’aistheton dal suo passaggio attraverso le tenebre. L’opera è uno spettro [revenant].

Essa si costituisce nell’aver perso il tempo, lo spazio, i sensibili ordinari. L’addio che essa manifesta e che riporta in salvo tinge l’affezione suscitata da essa di angoscia e di malinconia. A dispetto dell’immensa diversità delle opere, l’affezione attraverso la pittura è forse sempre della medesima qualità, gioia e sbigottimento indistinti.

In seguito il discorso tenta di specificare questa qualità, a seconda che la sua occasione sia una statuetta delle Cicladi oppure il leone di Rousseau il Doganiere. Terrore che il sensibile abbia potuto essere andato perduto, estasi che un sensibile sia reso, graziato. Bisogna smettere di opporre il bello e il sublime. L’affezione risvegliata dallo spasmo pittorico è sublime: tenebre e gloria. Altrimenti l’anima inesiste [inexiste]: il corpo da una parte e lo spirito dall’altra conservano i loro rispettivi diritti e negoziano senzafine la loro unione.

Ogni avanguardia ha perseguito, secondo la linea di cui si è appropriata, l’esposizione dello spasmo pittorico. Mettendo alla prova i valori dell’espressione, della buona forma, della rappresentazione, della maestria, dello stile, della realtà, del soggetto e così via, la pittura ha aperto un campo di investigazioni quasi-cliniche, o poetiche, sulla pittura.

Ben lungi dal rompere con le tradizioni pittoriche, questa anamnesi cercava di avvicinarsi a quel che è il gesto di dipingere (Picasso e Velasquez). L’estetica si è realizzata nel momento in cui dava inizio a una ontologia concreta dell’aistheton, che non era in alcun modo una teoria della pittura.

Allo stesso modo in cui le frasi tentate dall’ultimo Wittgenstein a proposito del valore delle frasi fanno parte di queste ultime, ugualmente i tocchi tentati dai pittori a partire da Cézanne fino ad Appel, Sam Francis o Alechinsky sono immanenti al mondo dei tocchi che essi mettono in questione.

L’anamnesi dell’aistheton pittorico compiuta nell’arco di un secolo ha risvegliato l’affettibilità dell’anima-corpo attraverso tutte le opere del mondo. Questa anamnesi le ha scoperte e le ha conservate. Essa è stata un saggio di poetica dell’evento visivo.

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