Jean Baptiste Malet è un giovane giornalista francese che si è fatto assumere in un magazzino Amazon nel periodo prenatalizio. Da questa sua esperienza è nato “En Amazonie”, reportage che racconta le condizioni di lavoro negli impianti della multinazionale americana. Lo abbiamo intervistato in occasione di Più Libri Più Liberi.
Di Jean Baptiste Malet non colpiscono tanto gli occhi azzurri, il chiodo e gli anfibi che indossa e il volto da ragazzino che dimostra molti meno dei suoi 26 anni. Quando me lo ritrovo casualmente accanto prima della presentazione di “En Amazonie” Un infiltrato nel “migliore dei mondi” (Kogoi Edizioni, 2013) a Più Libri Più Liberi è l’alone d’imbarazzo e timidezza che lo circonda a restarmi maggiormente impresso. Lo stesso che vedo sul volto di Zerocalcare ogni volta che lo incrocio a qualche fiera o salone del libro, intento a firmare interminabili copie di qualcuno dei suoi libri. L’imbarazzo e la timidezza di coloro che non si capacitano del proprio successo, perché ciò che fanno non è altro che il loro dovere, ciò che non potrebbero fare a meno di fare.
Per Jean Baptiste Malet è il giornalismo, una professione che il giovane reporter francese vive con serietà e dedizione, la stessa che lo ha portato a farsi assumere in un magazzino logistico di Amazon, la multinazionale americana leader nel settore dell’ecommerce. Un colosso il cui giro d’affari, nel 2012, ha raggiunto i 45 miliardi di euro (61,09 miliardi di dollari). “Per me il dovere del giornalista è quello di testimoniare il mondo” mi dice Jean Baptiste quando lo intervisto nella sala stampa del Palazzo dei Congressi dell’Eur “all’apparenza il fatto d’essermi infiltrato nel magazzino Amazon di Montélimar è qualcosa che sembra contraddire le deontologia professionale del giornalista. Ma se una multinazionale m’impedisce di entrare da una parte, i miei valori mi obbligano a entrare e testimoniare. È un modo per difendere questa deonotologia”.
Infiltrarsi all’interno dei siti produttivi dell’azienda infatti è l’unico modo per poter raccontare ciò che vi accade. Amazon centellina in modo molto severo le informazioni che riguardano la sua attività. I giornalisti possono visitare gli stabilimenti solo in presenza dei responsabili della comunicazione aziendale e ai dipendenti non è concesso per contratto parlare di quanto avviene sul posto di lavoro neppure con le loro famiglie. Pena pensati sanzioni da parte dell’azienda. Ogni informazione diffusa su Amazon deve essere vagliata e autorizzata da Amazon stessa.
Ciò che emerge leggendo il libro e parlando con l’autore è il carattere ideologico di Amazon, il suo essere l’epitome di un modello di società che è, potenzialmente, quello che stiamo vivendo e vivremo nel prossimo futuro. Il carattere ideologico di Amazon emerge chiaramente nel rapporto che l’azienda stringe coi propri dipendenti, riassunto nello slogan “Work hard, have fun, make history”.
Che le condizioni di lavoro siano dure, anzi durissime è un dato di fatto che nel reportage di Malet emerge chiaramente: turni lunghi, pause brevi, mansioni faticose, condizioni contrattuali svantaggiose sono gli elementi con cui Amazon costruisce il proprio vantaggio competitivo e aggredisce il mercato. Ma è nell’have fun e nel make history che si palesa l’ideologia; un’ideologia che punta alla cancellazione delle differenze di classe (in Amazon manager e operaio si danno del tu, perché quando c’è confidenza si lavora meglio, si è più produttivi), alla rimozione della conflittualità sociale (Amazon lusinga i propri dipendenti con giochi, divertimenti, regali e concessioni che fanno parte della strategia di gestione delle risorse produttive) e all’engagement (far credere ai lavoratori di essere davvero parte di una realtà destinata a cambiare le cose, a fare la Storia). Eppure, continua Malet “non considero Amazon qualcosa di originale e non credo che Jeff Bezos sia un genio. Di certo è uomo molto furbo e, soprattutto, lungimirante. Qualcuno che ha capito bene e in anticipo alcune potenzialità offerte da internet. Il servizio offerto da Amazon – comprare un libro che posso trovare in libreria, un attrezzo da giardino che si può acquistare dal ferramenta o una maglietta che posso avere in qualsiasi negozio di abbigliamento – non è una grande novità.
La novità è il modo in cui Amazon sfrutta il desiderio libidinale dell’acquisto, il modo in cui soddisfa il bisogno al consumo. Le vere novità di Amazon sono la possibilità di ordinare in uno stock estremamente ampio di prodotti direttamente dalla scrivania e la velocità dei tempi di consegna. Se pensiamo al prodotto libro, che è stato ed è ancora il core business di Amazon, questo è un prodotto per cui non abbiamo necessità di tempi di consegna rapidi, anzi spesso il libro si accumula in casa senza che si abbia il tempo per leggerlo. Lusingando il nostro bisogno di consumo rapido e inducendo in noi il desiderio della rapidità, Amazon riesce comunque a imporre i propri servizi. È per questo che i magazzini di Amazon sono molto più simili a delle fabbriche che non a dei negozi e sono organizzati secondo i principi della produzione industriale”.
Fabbriche però molto particolari, rispetto alle fabbriche a cui la prima e la seconda rivoluzione industriale ci avevano abituati. Questi sistemi produttivi erano sistemi produttivi caratterizzati da una costante visibilità. Producevano rumore, s’imponevano visivamente nel paesaggio, emettevano odori. Il loro Potere si affermava nella visibilità, nel dominio tangibile dello spazio umano. Oggi i magazzini di Amazon sono luoghi caratterizzati da una diffusa invisibilità, sembrano avere lo stesso statuto dei campi per migranti e rifugiati o delle carceri; sono costantemente rimossi dall’orizzonte mediatico e concreto “perché oggi è in atto una rimozione del lavoro. Se il lavoro è diventato invisibile non è soltanto una conseguenza della globalizzazione (che ha permesso di delocalizzare le attività produttive dall’Occidente verso i paesi in via di sviluppo, ndr) ma anche del fatto che l’ideologia dominante veicola una sorta di edonismo in cui il lavoro non ha più spazio. Questa rimozione del lavoro però non è altro che una mitologia, perché tutti sanno che una società senza lavoro non è una società.
La filosofia ha mostrato un dibattito appassionante tra Simone Weil e Hanna Arendt sulla questione del lavoro. Arendt sosteneva che il lavoro è un male necessario, mentre a Simone Weil interessava la spiritualità del lavoro, un lavoro pensato nel mondo e non all’esterno del mondo. Amazon invece cerca di restare all’esterno del mondo. Quando si presenta nel mondo lo fa nella forma di un’interfaccia grafica con un design molto accattivante e liscio. Qualcosa che ci è così famigliare da trovarcelo direttamente in casa, proiettato sullo schermo del computer, o addirittura in tasca, nei nostri dispositivi mobili. In questa forma Amazon fa di tutto per lusingare il consumatore; grazie al trattamento dei nostri dati personali ci propone prodotti che potrebbero interessarci, perché simili a quelli che abbiamo cercato e acquistato, creando in questo modo l’impressione di conoscerci davvero. In realtà si tratta soltanto di sofisticati algoritmi, sistemi automatizzati che simulano ciò che potrebbe fare una persona reale. È così che da ciò nascono dei “sogni”, vere e proprie utopie nel senso etimologico del termine – ού τοπος – ovvero da nessuna parte, in nessun luogo. Il mito che costruisce Amazon è un mito in cui il lavoro non dovrebbe esistere, in cui il lavoro è rimosso. Se guardi le pubblicità di Amazon non vedi operai, vedi dei cartoni che arrivano miracolosamente a chi li deve consumare.
Oppure arrivano con dei droni, come si è visto in queste settimane. La vicenda dei droni è una straordinaria cartina al tornasole di quest’ordine del discorso, perché tutta la stampa internazionale ha rilanciato la notizia senza alcuna verifica. Di fatto non è stato un atto di giornalismo, ma semplice comunicazione aziendale. Il ruolo del giornalista è quello di controllare la veridicità delle notizie e se in molti lo avessero fatto avrebbero scoperto che quei droni hanno un’autonomia limitata a 16 km. In Francia Amazon ha 5 depositi logistici e anche se ottenesse le autorizzazioni necessarie per far volare queste macchine non sarebbe in grado di coprire l’intero territorio. Nella Drome, la regione dove si trova lo stabilimento in cui ho lavorato io, questi droni non arriverebbero nemmeno a Valence, che è la città più grande del distretto. Per non parlare del fatto che non potrebbero consegnare ai piani alti delle case e nemmeno bussare alla porta o suonare il campanello. Ed è impensabile che dei colli possano essere lasciati sulla strada alla portata di chiunque”.
Rimozione del lavoro dall’orizzonte del visibile, potenza delle narrazioni aziendali della realtà, sfruttamento del lavoro sono le caratteristiche di Amazon e di altre aziende legate all’economia digitale; ma anche forme di controllo digitali sia del consumo, sia della produzione. In Amazon infatti il lavoro è concepito come una performance che deve seguire costanti quanto irreali curve di crescita. Una performance controllata attraverso i dati prodotti in tempo reale dagli scanner wi-fi che sono lo strumento di lavoro principale degli operai. Come dicevamo prima, in Amazon sono presenti in nuce tutti gli aspetti di uno dei possibili modelli di società che oggi convivono in potenza per questo motivo “c’è bisogno di capire le cose per eventualmente trasformare la società. Oggi il settore della logistica è un settore di grande interesse perché è un tipo di lavoro che non possiamo far sparire anche se viviamo in una società che il lavoro lo rimuove costantemente; non possiamo farlo sparire perché le aziende hanno bisogno che le loro merci arrivino ai consumatori per poter fare affari. In questi anni mi è capitato di parlare e raccogliere le testimonianze di molti lavoratori di questo settore.
Ci sono tante similitudini con il modo di organizzare la produzione del lavoro di Amazon, ma è del tutto o quasi assente il carattere ideologico che fa dell’azienda americana qualcosa di unico. In ogni caso le lotte e le vertenze attive in questo settore, quelle che ci sono proprio in questi mesi in Germania (ma anche le lotte di questi anni in Italia, ndr) , sono momenti centrali per tutti i movimenti sociali. Infatti nel settore della logistica ci sono molti lavoratori sottoposti a dure condizioni contrattuali. Precari e sottopagati questi lavoratori sono costantemente a contatto con merce molto cara. Queste persone capiscono bene che la maggior parte della merce non sta lì per loro e che per la loro classe sociale molti di questi beni sono inaccessibili. In tanti dicono che il mio libro sia militante, in realtà è solo un libro che parla del mondo del lavoro così com’è. Il fatto che parlare del mondo del lavoro sia considerato un discorso militante dovrebbe farci riflettere… (sorride, ndr) forse c’è qualcosa da nascondere? Qualcosa come il fatto che una multinazionale come Amazon mette in atto dinamiche di distruzione creatrice, per usare un concetto mutuato dai lavori dell’economista Schumpeter. Amazon aggredisce i mercati, distruggendo i modi di produzione, distribuzione e consumo dei beni precedenti.
Uno studio del Sindacato delle Librerie Francesi ha mostrato che, per vendere la stessa quantità di libri del circuito delle librerie indipendenti, Amazon impiega una quantità di personale diciotto volte inferiore. Una perdita enorme sia in termini di occupazione che in termini di professionalità e competenze, perché i lavoratori di Amazon sono operai non qualificati. Il tutto a dispetto di una politica che continua a favorire Amazon con la scusa che crea posti di lavoro e che fa di tutto per non vedere le costanti infrazioni in materia fiscale e di disciplina del lavoro che la multinazionale continua a commettere. Per questo c’è bisogno di fare informazione in modo corretto su Amazon e di dare alle lotte e alle vertenze di questo settore la visibilità che la loro importanza richiede. C’è bisogno di mostrare e far capire la forma di società che potrebbe nascere se smettiamo di interrogarci criticamente sui modi e sulle forme che assume oggi il lavoro e la produzione dei beni. È questo che mi ha spinto a scrivere En Amazonie“.