Ossessioni profonde e mitologie personali come linee di fuga nell’inner space.
Il futuro sarà suburbano e noioso, ma allo stesso tempo molto instabile. Ci saranno improvvise esplosioni di eventi politici, culturali, di epidemie, o forse di serial killer, o di qualsiasi cosa che squarcerà la superficie di tutta questa periferia. Ci sarà questa strana combinazione di noia e di improvvisa frenesia (J.G. Ballard)
Le vicende personali di James Graham Ballard – cresciuto a Shangai e costretto a fare i conti con l’occupazione giapponese e con un lungo periodo di detenzione in un campo di prigionia – hanno probabilmente influito su quella che Sandro Moiso definisce nell’introduzione al volume All That Mattered Was Sensation (Krisis Publishing, 2019) la sua personale riflessione sulla «vanità della volontà umana» e sulla «perdita di significato della nozione di futuro» percepibile nelle opere. La dura esperienza di libertà negata ha probabilmente suggerito allo scrittore una via di fuga consistente in un immaginario altro rispetto a quello dettato da quella cultura coloniale inglese perbenista di cui, in qualche modo, anche lui era figlio. L’immaginario altro proposto da Ballard, nel suo rifiutare ogni forma di ipocrita edulcorazione, assume inevitabilmente tratti di estrema durezza in quanto si propone di fare i conti con le ossessioni più profonde che albergano nella mente umana, ossessioni incorporate in vere e proprie mitologie personali.
Nel corso della conversazione con Moiso, tenutasi durante il Noir in Festival di Viareggio del 1992 e riportata nel libro, Ballard, pur dicendosi contento di essere considerato il padre nobile del cyberpunk, ha modo di esplicitare la sua presa di distanza dalla fantascienza tradizionale considerata ormai del tutto inadatta ai nuovi tempi. In effetti, strada facendo, le sue opere si sono allontanate dai canoni del genere fantascientifico tradizionale preferendo indagare le modalità con cui l’individuo contemporaneo percepisce e vive una realtà ormai trasformatasi in un nonluogo1 fuori dal tempo, privo com’è di memoria del passato e di vocazione al futuro. Ed è il dilagare di queste periferie urbane – veri e propri nonluoghi in cui, sostiene lo scrittore, si stanno rifugiando gli esseri umani alla ricerca di anonimato, forse incapaci di reggere la vetrinizzazione2 imperante contemporanea –, che rischia di condurre alla morte dell’anima, all’avvizzirsi dell’immaginazione, ad un futuro noioso.
Secondo Moiso i romanzi di Ballard hanno in comune con le opere di Graham Green e John le Carrè l’ossessione per la perdita di ruolo dell’individuo in balia di avvenimenti nei confronti dei quali percepisce tutta la sua impotenza. Ciò sancisce una rottura con la tradizione di personaggi tipici dell’epopea espansiva del colonialismo inglese: con il tramonto di quest’ultimo, ormai soppiantato dall’egemonia delle superpotenze statunitense e sovietica, i personaggi della narrativa inglese si ritrovano spesso ad essere vittime tormentate dall’incapacità di agire sul reale. Se però gli anti-eroi di Green e le Carrè assistono impotenti al declino di un mondo giunto al capolinea, di cui fanno parte, i personaggi di Ballard, sostiene Moiso, trovano nell’inner space3, nello spazio interiore, una linea di fuga.4
Come gli altri autori citati, anche Ballard colloca al centro della narrazione individui facenti parte di quella upper middle class che assiste al disfacimento di una concezione del mondo che sin dagli albori pare destinata a fallire, incapace com’è, suggerisce Moiso, di prendere in considerazione i valori più profondi dell’essere umano. A differenza di Green e le Carrè, però, lo sguardo ballardiano sulla deriva psichica e sociale degli individui non ha nulla di morale o religioso: da questo punto di vista si possono piuttosto individuare analogie con i francesi Gerges Bataille ed il Marchese de Sade o con quella vitalità intima surrealista che si nasconde persino dietro all’efferatezza dei gesti e dei pensieri.
Nei romanzi di Ballard le rivolte, individuali o di gruppo, non si pongono mai nell’ambito di un orizzonte futuro; sembrano limitarsi a fare i conti con una sorta di eterno presente, tanto che Moiso ne parla come di un rovesciamento del paradigma della teleologia politica otto-novecentesca. Sarà proprio la mancanza di prospettive – magari attraverso improvvise ed inaspettate combinazioni di noia e frenesia, come sostiene lo stesso scrittore nel corso della conversazione riportata nel volume – a rendere instabile il «mondo dell’eterno presente» ballardiano.
Molti dei personaggi che si incontrano nelle pagine di Ballard hanno elementi in comune con quelli che popolano le opere di William Burroughs proprio per il fatto, sostiene con efficacia Moiso, «di non avere eliminato la scimmia che portano appresso, ma di averla saputa controllare e utilizzare per la propria personale salvezza» (p. 20). In entrambi gli scrittori non vi è traccia di un percorso di redenzione ricercata attraverso la sofferenza: i personaggi tendono piuttosto a cercare il piacere in essa, nel tentativo di trovare modalità con cui realizzare quelle mitologie personali a cui hanno dovuto ricorrere.
Secondo Moiso l’opera ballardiana è contraddistinta dalla convinzione che vuole il dilagare di nuove forme di fascismo sociale derivare da psicopatologie irrisolte, dall’incapacità dell’essere umano contemporaneo di realizzare i suoi desideri più intimi.
Sono le fantasie negate, oppure riversate su soggetti diversi da quelli reali dell’inconscio personale e collettivo e reindirizzare dalla potenza dei media – soprattutto dalla tv e da quelli elettronici di ultima generazione – a costituire una chiave importante di lettura (p. 22).
E questa è un’idea che, suggerisce lo studioso, rimanda a Wilhelm Reich di Psicologia di massa del fascismo (1933).
Se l’immaginario rappresenta il tema dominante dell’intera opera ballardiana, ciò accade perché questo è visto dallo scrittore come il luogo di conflitto in cui si scontrano concezioni differenti di libertà individuale e collettiva. Ogni individuo, sembra suggerire Ballard, ha il diritto di re-immaginare la propria vita, di dare sfogo ai propri desideri anche quando questi entrano in conflitto con l’ordine stabilito e con le logiche dominanti. Non si cerchino però, avverte Moiso, spiragli di lotta di classe nelle opere dello scrittore inglese: il conflitto c’è, ma è di altro tipo, per certi versi potrebbe dirsi ad essa complementare. Ed a tal proposito i debiti di Ballard nei confronti delle correnti surrealiste si fanno evidenti.
Alla sua nascita, avvenuta attorno alla metà degli anni Venti del Novecento, il movimento surrealista aveva infatti inteso affiancare all’idea di libertà sociale, ricercata spesso facendo riferimento all’analisi marxiana, quella della libertà individuale, attingendo in questo caso dalle tecniche psicanalitiche ritenute utili al fine di allentare il sistema di freni inibitori che impediscono alle pulsioni vitali, relegate nella sfera inconscia e onirica, di emergere e di sfogarsi liberamente. Nell’intendimento surrealista sarebbe proprio l’emergere delle pulsioni vitali rimosse ed il loro libero sfogo all’interno della realtà quotidiana, a permettere all’individuo di raggiungere quella completezza, quello stato di realtà superiore (surrealtà), comprendente tanto il livello conscio quanto quello inconscio. Ed è Ballard stesso a dichiarare nell’intervista i sui debiti nei confronti di quei grandi autori surrealisti che hanno saputo raccontare il paesaggio interiore del mondo che si annida nella mente degli esseri umani. Affrontare questo inner space costellato di sogni ed incubi può significare, sostiene Moiso,
Dare inizio ad un ribaltamento generale della società della produzione indifferenziata del consumo massificato, della repressione sessuale e di genere, del razzismo endemico e della negazione dell’Io profondo. Tutte forme di una malattia sociale che le superficiali ipotesi fondate sulla lotta di classe non sembrano essere sufficienti a guarire (p. 23).
Nel corso della conversazione tenutasi nei primi anni Novanta e venuta finalmente alla luce grazie al recentissimo piccolo gioiello editoriale realizzato da Krisis Publishing, Ballard spiega come il suo approccio alla fantascienza si sia focalizzato proprio sull’inner space in quanto è lì che aveva individuato il luogo in cui si stavano dando i maggiori cambiamenti epocali determinati soprattutto dai media.
Come ricorda Simon Reynolds nelle sue riflessioni a corredo delle dichiarazioni di Ballard riportate sul libro, il romanziere inglese, insieme a Philip K. Dick, è sicuramente stato tra i massimi esponenti di quella speculative fiction che ha saputo abbandonare la versione hard della science fiction in favore di una narrativa incentrata sugli scenari interiori degli individui alle prese con atmosfere oniriche o livelli multipli di realtà. Se questa New Wave della s.f. – di cui lo scrittore inglese stila persino una sorta di manifesto pubblicato a metà degli anni Sessanta dalla rivista britannica New Worlds – al suo nascere si trova costretta a fare i conti con la necessità di individuare forme narrative adeguate ai cambiamenti psicologici, emotivi e percettivi dei nuovi tempi, indubbiamente James Graham Ballard è tra coloro che hanno trovato il modo di farlo con maestria.
* In copertina un fotogramma tratto da Crash di David Cronenberg
Note
- Il concetto di nonluogo è stato introdotto dall’antropologo francese Marc Augé per indicare due realtà complementari ma distinte: gli spazi costituiti in rapporto a certi fini (trasporto, transito, commercio, tempo libero) e il rapporto che gli individui intrattengono con questi spazi. Mentre i luoghi antropologici creano un sociale organico, i nonluoghi finiscono con il creare solitudine e similitudine. M. Augé, Nonluoghi, éleuthera, Milano 2018.
- Il sociologo Vanni Codeluppi introduce il termine vetrinizzazione per indicare una tendenza derivante dalla necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità. Si tratta di un tentativo di catturare l’attenzione attraverso un adeguamento agli standard di rappresentazione sociale prevalenti nella società. V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine, 2015.
- Il termine inner space è probabilmente stato introdotto da John Boynton Priestley nel saggio “They Come From Inner Space” (1953), poi confluito nel volume Thoughts in the Wilderness (1957). Successivamente tale concetto è stato associato alla New Wave della fantascienza che annoverava tra le sue fila, oltre a James Ballard, autori come Philip K. Dick, John Brunner, Thomas M. Dish ed Ursula K. Le Guin.
- Gilles Deleuze e Félix Guattari ricorrono al concetto di linea di fuga per indicare un’esperienza d’insofferenza e ritrosia antisociale a cui il corpo ricorre quando prova sofferenza nell’essere obbligato ad una data organizzazione. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Orthotes editrice, Napoli-Salerno, 2017.