Lorenzo Misuraca legge “L’età della tigre”, di Ivan Carozzi (Il Saggiatore 2019).
Se è vero che per capire un’epoca bisogna partire dalle ossessioni che la abitano, ne L’età della tigre (Il Saggiatore) Ivan Carozzi non perde tempo e si getta in un corpo a corpo con uno dei feticci della cultura pop di questi anni: la musica trap, con gli annessi e connessi di stile, linguaggio, e pulsioni dei nuovi divi della scena – Sfera Ebbasta su tutti, ma non solo. Anche Ghali e la Dark polo gang, per esempio, con la loro estetica di ragazzi di strada che ce l’hanno fatta, carichi di rolex, collane d’oro e abiti griffati.
In realtà – e lo spiega anche l’originale botta e risposta tra editor e autore in quarta di copertina – il romanzo sulla trap è solo un’esca per invitare il lettore ad avviarsi alla lettura. Carozzi utilizza l’espediente (non è chiaro se sia avvenuto realmente o no, ma poco importa, visto che siamo dalle parti dell’autofiction) di un incontro casuale con un Gionata Boschetti ancora adolescente e lontano dalla sua seconda vita come Sfera, per avviare un discorso che si muove su più piani. Il primo, quello più esplicito, è l’indagine attorno ai nuovi divi della cultura popolare: i trapper, appunto, inquadrati come soggetti oscuri e alieni, che in maniera del tutto inaspettata si sono presi il centro della scena con un’enorme capacità di connessione con le masse giovani (in molti casi persino preadolescenziali), trasformando in ferri vecchi gli strumenti di comprensione di chi, nato negli anni Settanta, pensava di avere una posizione privilegiata per interpretare il reale.
L’io narrante, spinto dal caporedattore di una rivista online, prepara un articolo su Sfera Ebbasta, e raccogliendo i pezzi, in maniera del tutto asistematica, racconta l’ossessione per le “tigri” (riferimento a una scena di Apocalipse Now, che rappresenta l’irruzione dell’imprevista e vitale ferocia del nuovo nella storia), ossessione che è sua come lo è per la città in cui è ambientato il racconto: Milano, inquadrata da Carozzi come punto di maturazione del capitalismo avanzato, quasi marcescente, corto circuito del significante che si sovrappone al significato al punto da ridurlo al superfluo. La Milano hipster, lavorista, in fermento, come da retorica degli ultimi anni, colma di attività culturali e possibilità, eppure terribilmente disumana. L’alienazione non è più quella delle fabbriche di mezzo secolo fa, ma è ora figlia della virtualizzazione dei rapporti, della dimensione performativa in cui like, cuoricini e visualizzazioni hanno trascinato le relazioni. Anche quando si dispongono ordinatamente in fila per un concerto di Side Baby (ex della Dark Polo Gang), i milanesi di oggi hanno più in comune con gli hikikomori di Tokyo che con i padri. La città, insieme al discorso sull’estetica trapper, è il Caronte che ci porta al secondo livello di lettura: Sfera, Ghali e gli altri, nella loro ossessione per Gucci, Balenciaga e gli altri brand da ricchi, nei continui riferimenti nei testi ai soldi, alle camere di hotel di lusso, alle “bitches” possedute, agli haters che li invidiano, sono inquadrati come una sorta di cyborg del capitalismo trionfante. Travolta qualsiasi resistenza altra, comunitaria, fosse anche soltanto controculturale, i millennials, e il loro idoli, diventano lo strumento della mercificazione dei rapporti, del consumo per il consumo, essi stessi annunciano al mondo di valere solo in base al prezzo di quello che si possono permettere. L’individuo atomizzato e trasformato in un codice a barre: o meglio, in un qr code.
A nostro avviso, questo è il livello di lettura meno convincente, dove l’equilibrio tra finzione autobiografica e saggio si perde e la sociologia si fa troppo rarefatta, schematica. Sono passati vent’anni da quando Toni Negri e Michael Hardt raccontavano di un semiocapitalismo in fase di fagogitazione universale di qualsiasi alterità, eppure da allora di irruzioni di soggetti inattesi e irriducibili al mercato la storia ne ha visti e, c’è da aspettarselo, ne continuerà a vedere. Gli stessi trapper, almeno i più capaci e i più furbi, del resto, stanno già iniziando a cambiare pelle e uscire dalla gabbia della narrazione del successo come accumulazione (Izi, Achille Lauro, Ghali, e in parte lo stesso Side Baby).
Dove il discorso di Carozzi riprende quota è il terzo livello di lettura, che riguarda in fondo il nocciolo letterario e intimo del testo. In questo, l’oscurità delle nuove divinità della città e l’incapacità di sondarne fino in fondo il magnetismo segreto (saggia da questo punto di vista la scelta dell’autore di rinunciare alla forzatura di un disvelamento), altro non sono che uno specchio di tutti i nodi incrostati, i vuoti sospesi, gli ingranaggi incastrati dell’età di mezzo che chi scrive attraversa. Il desiderio morboso di capire, di saperne di più, di penetrare Sfera e gli altri trapper di successo, liberato da ogni sovrastruttura, non è forse l’invidia per una forza primitiva che nell’essere umano esplode in adolescenza per poi cadere sotto i colpi della quotidianità dell’adulto? Ci si riferisce alla fatica del lavoro salariato, quando c’è, e a quella del precariato, ai compromessi tinteggiati di saggezza, all’autoconservazione, l’esperienza che ha reso impossibile l’illusione (o almeno molte delle illusioni, le più entusiasmanti), tutti colpi di scalpello finalizzati a renderci infine uomini e donne piegati dalla vita e dalla ragione. È questo, in fondo, il vero corpo a corpo che rende pulsante il libro di Carozzi, quello tra il se stesso giovane (in cui forse rivede la forza animale e spavalda, l’incoscienza arrembante dei trapper) e l’orizzonte ristretto della scrivania da cui indaga scrivendo.
Ci colpisce, a libro finito, tra i ringraziamenti e la pagina bianca che segue, la consapevolezza (trasmessa volutamente dall’autore o no?) del punto di incontro degli alieni con i terrestri, delle tigri della trap con il redattore di Linus nella Milano capitale culturale d’Italia: l’impressione che a monte di tutto, come una cappa di atmosfera malata che sovrasta l’Italia di questi anni, domini la sensazione d’impotenza diffusa. La crisi economica, l’analfabetismo funzionale di ritorno, l’umiliazione della centralità delle agenzie di formazione, come la scuola e la famiglia, il tabù della stabilità e la smaterializzazione della politica in un disperato e grottesco reality show, tutti questi elementi sono assorbiti sia dai millennials sia dai nati nel Novecento. In questa depressione latente diventata sistema, l’adulto colto e istruito – in un rovesciamento del motto di Rolland – si fa scudo con l’ottimismo dell’intelligenza (le piccole gioie, i disastri scampati, i cicli che inevitabilmente si chiuderanno), mentre il giovane artista punta tutto sul pessimismo della volontà: se il mondo è fatto di macerie, e non migliorerà, tocca correre e divorare per restare vivi. Ovvio che a fronte di queste opzioni, la prospettiva della tigre appaia ai molti la più seducente.