Isole, immaginari e rischio: Madeira

Lo sfruttamento del territorio risignifica l’immaginario delle piccole isole.

Paesaggi post-incendio di Madeira (2014). Foto di Sara Bonati.

Sara Bonati, geografa umana, ha studiato a lungo le relazioni tra immaginari e rischio dell’isola di Madeira (Portogallo). Sara Bonati ha conseguito un dottorato in Geografia umana e fisica presso l’Università di Padova. Attualmente è assegnista presso il laboratorio di geografia sociale dell’Università di Firenze. Tra i suoi ambiti di ricerca la riduzione del rischio di disastri, il cambiamento climatico, la vulnerabilità nelle piccole isole, l’ecologia politica urbana e la giustizia ambientale. Le abbiamo chiesto di parlarci di Madeira.  

1) Ti sei occupata a lungo della vulnerabilità di Madeira e dei temi di gestione del rischio delle piccole isole. Perché ritieni sia necessario parlare di piccole isole?

Il mio lavoro su Madeira ha inizio nel 2012, allo scopo di studiare i paesaggi vulnerabili e resilienti in relazione ai rischi di alluvione e incendio. Negli anni ho poi affrontato le sfide socio-ecologiche presenti sull’isola da prospettive differenti, collaborando con il centro di studi insulari e regionali dell’Università di Madeira (CIERL).

Oggi le piccole isole sono sempre più oggetto d’attenzione (mediatica), soprattutto in relazione al cambiamento climatico, ma anche ad altri temi di rilevanza pubblica, come le migrazioni. L’IPCC ha dedicato loro il capitolo 29 del Report 2014, nel quale individua gli impatti in seguito alla perdita dei servizi ecosistemici e della capacità di adattamento del territorio e della sua popolazione. Inoltre, da un punto di vista fisico, all’innalzamento del livello del mare sono associati un aumento degli episodi di inondazione e l’accelerazione del processo di erosione delle coste.

Le piccole isole sono presenti anche nei dibattiti della UNFCCC, benché le soluzioni avanzate in queste conferenze siano ancora piuttosto carenti. Bisogna tuttavia osservare che il tema del cambiamento climatico è prevalentemente discusso in relazione agli small island developing states (SIDS) mentre sono piuttosto ignorati i contesti subnazionali. Nel report IPCC non si fa cenno, ad esempio, alle numerose isole europee.

Le principali minacce riguardano le isole del Pacifico, dell’Oceano Indiano e dei Caraibi, con implicazioni politiche notevoli per molti paesi insulari, ma non si può ignorare che anche altre isole subiscono pressioni a causa del cambiamento climatico. Diversi studi evidenziano la perdita di biodiversità e l’incremento della vulnerabilità nelle isole del Mediterraneo, ad esempio,in connessione alle ondate di calore, a cui si associano gli squilibri ecosistemici nelle isole artiche, come le Svalbard.

Paesaggio post-incendio a Madeira (2017). Foto di Sara Bonati.

Il cambiamento climatico deve però essere messo in relazione ad altri fattori che rendono questi territori ulteriormente vulnerabili . È fondamentale ragionare, di fronte a un numero crescente di minacce, in termini locali, analizzando nello specifico i diversi contesti e distinguendo tra inland e island.

Ciò che manca nella narrazione è l’insidia rappresentata dal turismo e dal cambiamento climatico a fronte di una già profonda vulnerabilità di questi territori. La dinamica è comune a tutte le piccole isole, in qualunque contesto geografico: il turismo rappresenta per molti di questi territori “LA” risorsa economica, e per questo viene protetta e assecondata nelle sue diverse forme. La conseguenza è un impoverimento culturale e sociale, oltre che un degrado ambientale crescente. Si minano così le possibilità di sopravvivenza di questi territori.

Si pensi all’acqua, risorsa sempre più scarsa non solo a causa del prolungamento dei periodi di siccità, ma anche del suo consumo eccessivo. La maggior parte delle isole soffre l’emergenza idrica più del resto del territorio nazionale, anche a causa della pressione esercitata dall’economia turistica.

L’analisi delle piccole isole infine deve tenere conto della loro perifericità. Alcuni studiosi criticano il concetto di isola come luogo “isolato”. Non si tratta di concepire un’isola come ambiente disconnesso, quanto come iperconnesso con l’esterno ma disconnesso con se stesso. Pertanto, trattando le isole come un qualunque altro territorio si rischia di produrre politiche inconcludenti e poco efficaci.

2) Oltre a essere meta turistica, Madeira è un luogo con il quale gli abitanti hanno sviluppato connessioni e identità. Come le necessità degli abitanti confliggono, o supportano, le esigenze del turismo di massa?

Madeira è da tempo soprannominata “la perla dell’Atlantico” e “l’isola giardino”. A partire dal ‘900, un lungo processo di riconversione dell’immaginario legato all’isola ha trasformato Madeira in una meta per turisti stranieri. Dopo la sua scoperta nel 1419, l’isola è stata prima crocevia del commercio portoghese per il suo legname e poi per la coltivazione della canna da zucchero. Verso la fine dell’800, è diventata destinazione per il turismo sanitario. Successivamente è stato necessario ampliarne le prospettive economiche, puntando su altre forme di turismo che hanno favorito lo sviluppo di un immaginario “esotico” rendendola una destinazione più attraente.

Il problema è stato che gli stessi abitanti hanno finito per concepire Madeira come una “perla” e un “giardino”,  mostrandosi disattenti alla cementificazione e distruzione che la turisticizzazione inevitabilmente ha comportato. Negli ultimi anni poi la pressione turistica è andata notevolmente crescendo, soprattutto nella capitale Funchal, città in continuo divenire dove ogni anno appaiono nuovi edifici a uso turistico, alcuni definiti eco-mostri per via del loro impatto visivo. Inoltre il porto è stato recentemente riconfigurato e ampliato per accogliere navi da crociera sempre più grandi e servire un turismo mordi-e-fuggi che favorisce l’iper-sviluppo/consumo della fascia costiera a discapito delle aree interne. Infatti, il porto di Funchal viene sostanzialmente “occupato” dalle navi in transito.

Navi da crociera nel vecchio porto di Funchal (2013). Foto di Sara Bonati.

Proprio per l’iper-consumo che pervade l’isola, i miei lavori si sono recentemente spostati sul rapporto turismo/popolazione. In particolare ho analizzato il processo di riconversione di alcune aree del centro storico nel dopo-alluvione del 2010 e in particolare nell’area di rua Santa Maria, dove abitazioni e esercizi storici sono stati quasi completamente riconvertiti in ristoranti e negozi di souvenir, con conseguenti gentrificazione della popolazione residente e delle attività commerciali tradizionali e risignificazione dello spazio pubblico.

Il processo di rigenerazione dell’area è partito di un gruppo di artisti che ha lanciato il progetto delle “portas pintadas”, per “aprire le porte” di uno dei quartieri più degradati della città, dandogli nuova linfa e avviando un processo di “catarsi” proprio in corrispondenza con il post-disastro. Nel progetto di ricerca che ho seguito, oltre la raccolta dati sul progetto abbiamo anche attivato alcune iniziative di restituzione dei dati, quali una mostra (a opera di Laura Portinaro) e un docufilm da me curato per dare spazio alle diverse voci del quartiere (nuove e vecchie).

Questo lavoro ha anche consentito di recuperare alcune conoscenze storiche, in parte dimenticate dalle nuove generazioni, e di cui i turisti sono completamente ignari, come la mergulhança, gioco praticato dai giovani di Funchal che nuotando vicino alle imbarcazioni straniere si facevano lanciare monete dai turisti per poi recuperarle. Abbiamo anche avuto occasione, così, di far confrontare diverse “anime” del territorio e in particolare chi involontariamente ha dato il via al processo di rigenerazione/riconversione del quartiere, ossia gli artisti, e chi ha subìto il processo finendo poi per perdere la propria abitazione.  

Le narrative sulle isole sono spesso costruite da non-isolani con preconcetti su come esse dovrebbero essere. Questo problema è emerso proprio nel processo sopra descritto. La riconversione del quartiere di Santa Maria Maior a Funchal è avvenuta senza un dialogo con gli abitanti e senza tener conto dei loro desideri. La maggior parte dei residenti ha dichiarato di non ritenere il quartiere malfamato e di non comprendere perché venisse etichettato come tale e dunque evitato. Se da un lato ne apprezzano la nuova “veste”, dall’altro sono consci di cosa questo abbia significato da un punto di vista sociale.

Oggi l’idea che i cittadini hanno del turismo è in buona parte cambiata. Se fino a poco tempo fa i madeirensi partecipavano in qualche modo alla conservazione dell’immaginario dell’isola come luogo idilliaco, oggi sono sempre più coscienti dell’impatto negativo del turismo sul territorio e sulle loro vite.

Nuove costruzioni a Funchal (2017). Foto di Sara Bonati.

3) Quanto c’è di Madeira nelle piccole isole italiane? Come è possibile sviluppare connessioni e traslare conoscenza da un contesto all’altro?

Come a Madeira, il problema del turismo e i processi di gentrificazione collegati, le conseguenze socio-ecologiche dello sprawl urbano (si pensi a come questo si intreccia con situazioni di abuso edilizio e rischio, emerso ad esempio a Casamicciola), nonché la negazione del rischio, sono processi classici nelle isole italiane. Le isole oggi vivono sempre più di turismo. Esse rappresentano appendici senza le quali tuttavia non riusciamo ad immaginarci. La loro perifericità le rende per molti versi marginali, eppure rivestono un ruolo centrale nell’immaginario comune e nei flussi turistici. Sono “enclavi” in cui avviene un processo di iper-specializzazione economica. Per questo la rimozione del ricordo del rischio risulta più forte in questi contesti. Le piccole isole rappresentano nell’immaginario collettivo il luogo ideale nel quale rilassarsi e “fuggire dai problemi della vita”.

Anche a Madeira la tutela dell’immaginario e la costruzione di una certa narrazione hanno contribuito alla desmemoria (dimenticanza) del disastro, ossia un annichilimento del rischio con cui l’isola deve invece fare i conti. La rimozione è stata per molto tempo evidente e si è riproposta anche dopo l’alluvione del 2010. Nel mio primo viaggio a Madeira, nel 2013, non fu semplice parlare con le persone colpite dall’alluvione. Il processo di negazione era ancora molto forte e pochi accettarono volentieri di parlarne. A questo si aggiunge l’assenza di una memoria “istituzionalizzata”, tanto che solo nel 2014 è stata realizzata un’effige a memoria dell’alluvione. Fino ad allora non ci furono manifestazioni legate al disastro nonostante la morte di 42 persone. Numerose tuttavia sono state le iniziative auto-organizzate dal basso, tra le quali il “Labirinto de Memoria”.

Un altro elemento centrale riguarda la perifericità. Comprenderne i diversi livelli esperiti dai territori può aiutare in una più chiara lettura della vulnerabilità insulare. Nel caso di Madeira ho identificato 4 livelli di perifericità che sono applicabili ad altri contesti, incluse molte isole italiane:

perifericità insulare (l’isola come una periferia del continente), ossia la dissociazione tra rappresentazione e realtà;

perifericità morfologica, non solo a Madeira, ossia il problema della dicotomia dei paesaggi, in particolare quello montano e costiero. Il primo, nel quale spesso “nasce” il rischio, sottosviluppato rispetto al secondo;

perifericità urbana, ossia la marginalizzazione sociale entro i contesti urbani, aggravata dalla riconversione turistica di alcuni quartieri, a cui si associa l’abuso edilizio;

perifericità sociale, ossia il ruolo dominante che certe logiche economiche hanno nelle scelte territoriali e nell’esclusione della popolazione dal sistema decisionale.

A quest’ultima si associa anche il problema della memoria e della percezione del rischio. Pur accogliendo l’idea che le isole non sono “isolate”, resta evidente la loro perifericità nelle scelte economiche e politiche.

Dispersione urbana a Funchal (2014). Foto di Sara Bonati.

Spostando l’attenzione sulle isole italiane, si pensi al caso di Linosa, rimasta per diversi mesi senza benzina. L’accento è stato posto prevalentemente sulla necessità di ripristinare il rifornimento di greggio per consentire la ripresa della vita quotidiana e non sono emerse proposte che ripensassero a quel sistema. Linosa è piccola, potrebbe essere un luogo ideale in cui sperimentare soluzioni alternative e sostenibili. Invece questo non avviene, né nella narrazione mediatica né in quella politica.

4) Le piccole isole italiane sono soggette costantemente a disastri. Penso alle alluvioni a Ischia e Isola d’Elba, al terremoto di Casamicciola, le eruzioni di Stromboli. Credi che in tema di riduzione del rischio, la politica e la società italiana siano attente nei confronti delle piccole isole? Come, e perché?

Purtroppo direi di no. Nelle politiche di governo non si parla di piccole isole e non sono previsti piani specifici. Vengono considerate come qualunque altro territorio italiano, mentre vista la loro natura meriterebbero una riflessione a sé stante. Uno dei motivi è legato a quanto detto prima, al loro ruolo turistico e a come non si voglia associarle all’idea di rischio, problema generalizzato che non riguarda unicamente l’Italia.

Tuttavia, in altri paesi, esistono anche esempi virtuosi come le Azzorre, che hanno lavorato molto bene in termini di riduzione del rischio investendo contemporaneamente in un turismo sostenibile. Bisogna comunque riconoscere che la condizione politica di questi territori è diversa, in quanto Azzorre e Madeira sono governi autonomi. 

L’assenza delle isole è rintracciabile anche negli studi dei principali organi nazionali preposti. Nel rapporto ISPRA 2018 sui rischi di frane e alluvioni si fa fatica a trovare informazioni sulle piccole isole. Anche nelle carte, l’informazione di dettaglio risulta poco leggibile. Un problema di pericolosità idraulica e da frana, ad esempio, è evidente all’Elba e a Ischia. A Ischia c’è un’alta concentrazione di edifici e famiglie residenti in aree a pericolosità da frana, eppure questo è ampiamente sotto-narrato.

Inoltre l’ approccio alla riduzione del rischio di disastri in Italia – in generale per tutto il territorio nazionale, ma a maggior ragione per i contesti insulari – continua a essere prevalentemente di natura tecnica e ingegneristica. Manca una riflessione più profonda sulla vulnerabilità sociale e sulla interconnessione tra i processi.

Nuovo porto di Funchal, Madeira (2017). Foto di Sara Bonati.

5) Perché si parla poco e male delle piccole isole italiane? Sembra non si esca da visioni esclusivamente legate all’uso turistico: la narrazione è spesso legata allo spot paradisiaco, e sorgono poche riflessioni sull’abitare o su cosa pensino e vogliano davvero gli abitanti. Conscio del fatto che non esista un’unica ricetta, da dove (ri)partire per una visione meno stereotipata delle isole?

Io non credo si parli male delle piccole isole italiane. Ischia e Capri, ad esempio (ma non solo), godono di grande riconoscimento, anche internazionale. La loro dipendenza dal turismo costituisce un problema che va oltre l’Italia. Le isole rappresentano nell’immaginario comune il luogo ideale, la meta perfetta per una breve fuga, per cambiare vita, per trovare l’eden. Penso sia difficile per le isole uscire da questa visione; soprattutto, non credo che loro lo vogliano.

Portare alla luce i problemi del territorio può significare perdere il flusso turistico che oggi è spesso l’unica risorsa. Ritengo che il problema principale stia nell’incapacità di pensare alle isole come qualcosa di diverso da una destinazione per le vacanze, soprattutto per un certo tipo di vacanze.

Il punto di partenza dovrebbe essere capire il territorio e la sua “vera vocazione”. Quali sono realmente le esigenze degli abitanti? Quali altre prospettive hanno le isole? Devono vivere di turismo di massa o esistono alternative sostenibili? Non avere paura di raccontare la realtà e uscire dall’immaginario costruito credo sia il passo fondamentale. 

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