Islam dei giovani e “resistenza culturale” – #Parigi

Brevi considerazioni personali attorno al rapporto tra islam, religione e giovani generazioni a partire dalla lettura di George Lapassade.

Il presente contributo è un invito alla ricerca, il tentativo di mettere in luce due precise articolazioni della questione “Islam”, in parte contigue solo se sfumate: la “reislamizzazione religiosa” dei giovani immigrati che vivono nelle periferie dei paesi europei, cercando di comprendere i meccanismi che portano alla sedimentazione dell’“islam politico”, e l’arruolamento di soggetti “prelevati” da uno specifico contesto socioculturale e trasformati in miliziani sul fronte turco, siriano, egiziano, kurdo, e/o in cellule attive in Europa e negli Usa. La volontà è quella di indicare una delle tante traiettorie dalle quali partire per abbozzare uno studio sul rinnovamento religioso dei giovani islamici, scandagliando anche i fondali di coloro che aderiscono ai precetti integralisti (oramai divenuti maggioritari), prendendo in esame le teorie elaborate da George Lapassade in Islam dei giovani e “resistenza culturale”.

L’analisi proposta dall’etno-antropologo francese, partendo da un lavoro di osservazione diretta, sembra intercettare una serie di pratiche culturali dei giovani maghrebini (i beurs) nelle banlieue parigine degli anni Novanta, interessandosi al loro rapporto con il rinnovamento religioso nell’Islam attuale[1] (p. 293).

Il modello interpretativo[2]proposto nel saggio risponde alla seguente questione: è possibile comprendere il “ritorno all’Islam” dei giovani maghrebini di oggi (e per esteso di tutti i figli degli immigrati presenti nei territori francesi) attraverso la nozione prodotta dal Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) di Birmingham di “resistenza culturale”? E’ possibile proporre di trattare dei fenomeni in appartenenza specificatamente religiosi considerandoli come fatti di “resistenza culturale”? (p. 294).

La resistenza culturale intercettata da Lapassade sembra far riferimento all’opposizione tra un “universo” e “ideologie” maggioritarie e l’elaborazione di nuovi valori (p.297). Elemento, quest’ultimo, che poggia da un lato sull’estetizzazione del proprio background religioso e, dall’altro, sul rigetto della cultura genitoriale. Due sono i passaggi nello studio di G.L. che ben esemplificano l’antagonismo simbolico delle nuove generazioni e la contemporanea rottura con l’Islam tradizionale dei padri. Nel primo caso l’autore prende in analisi le nuove modalità di abbigliamento femminile, definito come “l’affare del foulard”(p. 295). Il significato socioculturale del chador indossato nelle scuole delle banlieue si costituisce come segno che si fa campo attraverso l’opposizione nei confronti di un universo simbolico maggioritario e dominante. In questo caso è nell’affermare la loro autenticità che il linguaggio del corpo si incrocia con la critica delle forme storiche dei poteri occidentali (costume, morale, valori), ergendosi così a baluardo contro il progressivo processo di laicizzazione e/o cristianizzazione della società (francese ma per esteso Occidentale).

Nel secondo caso, Lapassade parla di un rifiuto dell’Islam dei genitori e adesione a dei nuovi valori che si sostituiscono a quelli della società dominante – ovvero la ricerca di un’altra verità religiosa, trascendente; il militantismo di lotta (e dunque la Jihad riguardante la porzione più integralista della reislamizzazione); la conversione (di seguito esplicata, p.297).

La riflessione socioantropologica di G.L., si sofferma su un indicatore che porta in nuce il rinnovamento religioso, ovvero la rottura con le norme e i valori societari e familiari, con conseguente ritorno alla lettera del Corano (e il suo studio) quale meta culturale verso cui tendere. Il valore supremo non è rappresentato da una prospettiva di riconoscimento sociale basata sul valore accademico, sulle credenziali educative, sulla riuscita scolastica e sul successo economico, bensì esclusivamente sullo studio del Testo Sacro (scrive G.L. che nella percezione della “reislamizzazione” questi sono valori veicolati da una società corrotta ‘capitalista’ che ne ha bisogno per produrre una civiltà materialista atea, p.295); a tal proposito, il drop-out non è devalorizzante ed escludente per l’individuo, ma abilitante in chiave strumentale ai fini del “rinnovamento religioso” e della purificazione:

Per questo motivo che il rinnovamento, e più precisamente la frangia detta “integralista”, fa i suoi migliori adepti fra i giovani con scarso rendimento scolastico, molto più, secondo gli osservatori, che tra quelli che riescono meglio a scuola” (pp. 296-297).

Ispirandomi agli esempi sopra riportati dall’autore, di seguito propongo, ex abrupto, alcune considerazioni circa la concordanza di queste pratiche con il concetto di resistenza culturale proposta dal CCCS, e la possibile collocazione sub e/o controculturale dell’“Islam dei giovani”.

I teorici di Birmingham, influenzati da una lettura marxista della storia, considerarono le sottoculture come “strumento in grado di permettere ai giovani operai di affrancarsi, per lo meno simbolicamente, dall’egemonia della cultura dominante. Infatti, attraverso la creazione di specifici riferimenti culturali i giovani proletari avevano a disposizione un mezzo per articolare una concreta dialettica nei confronti dei vincoli imposti da una posizione di classe subordinata”[3]. L’islam dei giovani, nell’esempio proposto del foulard, richiama al “Trattato di lotta simbolica” prodotto da Patrice Bollon nel suo libro[4], ossia all’imposizione di un imperativo segnico come affermazione dell’ “Io collettivo”, e per questo propone i canoni della resistenza culturale di un gruppo dominato nei confronti del dominatore. Dick Hebdige nel suo Subculture. The Meaning of the style del 1979, sostiene una visione della sottocultura come sovversione alla normalità, il risvolto antagonista della cultura a causa della sua natura di critica alle norme dominanti della società, declinata nei seguenti fattori:

  • Uso distintivo e simbolico di uno stile (il chador appunto)
  • Condivisione di un linguaggio e gergo (il recupero dell’arabo antico attraverso il ritorno alla lettera del Corano)
  • Aggregazione sociale (interazione cooperativa nelle aree scarsamente organizzate, una risposta alla mancanza di opzioni all’autodeterminazione individuale).

Inoltre, per correttezza epistemologica (questo almeno nella visione di Hoggart), parlare di sottocultura tout court vuol dire richiamare quell’elemento, che combinato ad una serie di fattori ambientali e al background culturale, costituisce la base per l’integrazione dell’individuo in un gruppo sociale: infatti, nelle sottoculture del XX secolo, ciò che accomuna i soggetti è la comune condizione di classe (con le varianti Mods, Skinhead, Punk), tangibile anche nell’ Islam dei giovani, le cui organizzazioni costituite dai giovani delle classi svantaggiate si reggono sull’ “espirit de corps” e la solidarietà.

Il rinnovamento religioso nasce da una tendenza anomica, dall’incapacità di adattarsi alle trasformazioni sociali, cercando una “fuga” dall’occidentalizzazione e modernizzazione della società: le forze ostili sono i laici, i cristiani, i genitori fedeli all’islam moderno. In questo caso si può parlare di “conversione” nel senso di emersione di una autonomia cognitiva attraverso un nuovo percorso identitario , la cui interferenza rappresenta i principi morali e normativi da respingere.

Delle controculture in questo caso si condivide l’ascetismo religioso (Lapassade per similitudine richiama l’influenza esercitata dall’induismo sulla cultura hippy) e l’abbandono delle pratiche convenzionali di socializzazione (scuola), ma non l’intellettualismo contrario al valore lavoro (incentivato nella reislamizzazione) e, come ha giustamente osservato l’autore, rigettano l’uso di sostanze stupefacenti a differenza delle culture alternative tipiche dei figli della middle-class bianca negli anni Sessanta del secolo scorso).

I “nuovi valori” possono essere rappresentati come il contro-altare all’ingiustizialismo esasperato, tratto che accomuna molto spesso soggetti che versano in condizione di disagio (economico, familiare, sogettivo). Nella reislamizzazione trova cittadinanza un processo di autodeterminazione individuale attraverso il reinserimento sociale e morale.

In sostanza, il rinnovamento religioso presenta elementi in comune con lo schema predefinito proposto dal CCCS sulle sottoculture e sulle controculture, schema che per sua natura risulta intrinsecamente conflittuale, dato che al suo interno a configurarsi è una frattura totale (segnica e idealista). Pertanto, ci sono alcune indicazioni attinenti a delle forme di condizionamento ambientale di tipo culturologico, tali da indirizzare la traiettoria di studio verso un modello interpretativo che colga nelle “variazioni individuali” di resistenza all’assimilazione e all’integrazione, una prospettiva che spieghi il significato sociale delle pratiche poste in essere dai giovani immigrati delle periferie, le quali presentano tra loro delle differenti declinazioni, aspetto quest’ultimo di vitale importanza per non cadere in un atteggiamento concettuale semplificatorio e “totalizzante”, riassunto nell’equazione Islam=Terrorismo. Concludendo, la “reislamizzazione religiosa” (escludendo il militantismo politico) è una forma inizialmente individuale di resistenza (collettivizzata per le ragioni sopra esposte) che racchiude le ambivalenze culturali e simboliche del conformismo, una sorta di reificazione dell’intimità culturale in un’epoca dominata dallo stereotipo della differenzazione del soggetto.

Note

[1] Il corsivo richiama i contenuti proposti da G.L. nel saggio.

[2] Ad oggi, nelle scienze sociali sono presenti alcuni contributi che si muovono nella direzione tracciata dallo studioso francese, atti nel compredere il perchè, da un punto di vista storico, pedagogico, politico, sociologico, del riprodursi delle forme di resistenza culturale della popolazione di fede islamica – tuttavia con i dovuti distinguo nell’osservazione e nelle analisi – . Pertanto, per una maggiore contezza sull’argomento, si rimanda al libro di M.L. Maniscalco, Islam Europeo. Sociologia di un incotro, Milano, FrancoAngeli, 2012; G.L. Zani, Educazione in Islam. Fonti, storie, prospettive, Brescia, La Scuola, 2005.

[3] Magaudda P., “Ridiscutere le sottoculture. Resistenza simbolica, Post-modernismo e disuguaglianze sociali”, in Studi Culturali, anno VI, N. 2, 2009.

[4] Elogio delle apparenze. Dai Meravilleux ai Punk, Costa&Nolan, Genova, 1991.

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