L’invenzione della mafia

Le criminalità organizzata nella letteratura.

Pubblichiamo un estratto dell’intervento di Matteo di Gesù al Convengo “Narrazioni da Sud”, in programma oggi e domani all’Università per Stranieri di Siena.

Tempo fa, nel corso di una conversazione pubblica, a proposito di quel che forse ancora nessuno è riuscito a scrivere, Giosuè Calaciura affermava che a ben pensarci quel testo esiste già; soltanto che non si tratta, a rigore, di un romanzo e non si trova sugli scaffali delle biblioteche, ma negli archivi del tribunale di Palermo.

Probabilmente, asseriva provocatoriamente l’autore di Malacarne, il Grande Romanzo Palermitano lo ha “scritto” Tommaso Buscetta, dettando nel 1984 la sua fluviale deposizione a Giovanni Falcone, per l’istruttoria del maxiprocesso di Palermo contro la mafia. Cosa nostra che, quando finalmente decide di dare notizie di sé, di prendere la parola e raccontarsi (giacché non c’è dubbio che la deposizione del più importante collaboratore di giustizia sia stata anche una memorabile narrazione), oltre che fare luce sulla propria struttura organizzativa criminale, finisce col raccontare soprattutto un territorio, una società, una cultura tragici, unici e ineffabili: addirittura meglio di quanto non riesca a fare un romanzo.

Una provocazione, senza dubbio. Tuttavia, il paradosso di Calaciura è forse qualcosa di più di una boutade irriverente, specie se a formularlo è l’autore di uno dei romanzi più intensi e sensati che con il tema della mafia hanno a che fare, e forse vale la pena non trascurarlo.

Qui, tuttavia, si vorrebbe provare a verificare se l’assunto funzioni anche rovesciato: occorrerebbe, in altre parole, tornare a domandarsi come e dove, nella modernità, per via letteraria ma non solo, raccontando Palermo e la Sicilia si è raccontata anche la mafia; ovvero, più precisamente, in che modo questa narrazione abbia concorso a generare uno o più discorsi pubblici su Cosa nostra e a determinarne l’ordine, per così dire; nonché a interrogarsi sulla funzione documentativa di queste narrazioni e sull’uso che se ne è fatto nel corso del tempo, per provare a ponderare l’entità del loro apporto a un immaginario che, come è risaputo, ha ben presto travalicato il contesto delinquenziale e penale, estendendosi a svariati aspetti della società siciliana.

La mafia, d’altro canto, oltre che una consorteria criminale e una pratica politica criminosa è anche un costume culturale, un carattere identitario. E l’aggettivo “mafioso”, oltre che un lemma di importanza decisiva aggiunto troppo tardivamente a un articolo del codice penale, il 416 bis, è ormai anche l’attributo di paradigmi sociologici, antropologici o etnografici, di protocolli psicologici (lo “psichismo” mafioso), perfino il corredo dell’offerta turistica di qualche operatore siciliano.

Tra i numerosi luoghi comuni da sfatare, a proposito della mafia e delle sue rappresentazioni, oltretutto, c’è proprio quello secondo il quale la criminalità organizzata siciliana abbia patito un deficit di narrazione, quantomeno fino alla seconda metà del Novecento: che, in altre parole, prima della produzione romanzesca di Leonardo Sciascia degli anni Sessanta e della realizzazione, negli stessi anni, di alcuni film, molti dei quali tratti per di più dalle opere dello stesso racalmutese, la letteratura, tanto quella colta quanto quella popolare, nelle sue forme tradizionali (il romanzo, la novella, il teatro, la poesia), abbia per lo più taciuto o aggirato la questione mafiosa.

Esiste già, del resto, una bibliografia importante sul tema, ancorché assai poco cospicua, ed è opportuno, non solamente per completezza informativa, ricordare qui i pochi e imprescindibili studi che hanno indagato la questione, per ripartire da essi: alludo a quelli dello stesso Leonardo Sciascia, al saggio di Massimo Onofri e alle antologie curate da Pietro Mazzamuto e da Elena Brancati e Carlo Muscetta.[1]

Confido che quanto detto finora basti a spiegare il senso di un titolo come “L’invenzione della mafia” (sebbene avrebbe forse dovuto essere declinato al plurale: “Le invenzioni della mafia”), il quale evidentemente allude e rimanda all’irresistibile formulazione antesignana di Hobsbawm e Ranger (nonché a molti dei presupposti teorici di quel saggio), ma altresì implica il senso di creazione letteraria, di inventio narrativa, e che, comunque, in alcun modo intende essere riduttivistico e meno che mai apologetico rispetto a quella che è stata ed è ancora soprattutto una storia tragica di violenza, sopraffazione, collusione, morte.

Come procedere, dunque? Naturalmente destinando l’ambizione, invero probabilmente smodata, di dare corso a un’opzione di ricerca del genere a ben altra sede, prevedendo ben altri tempi di lavoro. E optando semmai, in occasione di un consesso comunque assai fecondo e propizio come questo, per una più agevole e meglio praticabile ricognizione preliminare.

Mi pare infatti già sufficientemente produttivo dare ordine al nostro discorso: si tratterebbe allora di stilare da una parte una sorta di cronologia, declinata individuando sul versante storico alcuni eventi di particolare rilevanza, a partire dall’unificazione nazionale, e quindi di verificare di volta in volta i loro riscontri anzitutto sul piano letterario, e in seconda battuta, quando è possibile, estendendo lo sguardo ad altri generi artistici, a cominciare dal cinema, fino a registrare la loro produttività discorsiva anche su altri e più vasti ambiti della comunicazione pubblica.

Ecco che da una parte si sgranano gli accadimenti di una storia tragica: la prima occorrenza della parola “mafia” in un rapporto ufficiale, inviato dal prefetto di Palermo, Filippo Antonio Gualterio, al ministro degli interni del governo italiano nel 1865; il delitto Notarbartolo, nel 1893, il processo che ne seguì e la mobilitazione che suscitò; il movimento dei Fasci siciliani e la loro repressione, per mano del primo ministro Crispi, nel 1894; la strage di Portella della Ginestra (1947), le lotte contadine del secondo dopoguerra, l’omicidio di Salvatore Carnevale (1955) e di decine di sindacalisti siciliani tra il 1943 e gli anni Sessanta; la prima “guerra di mafia” tra le cosche del palermitano, tra il 1963 (stage di Ciaculli) e il 1969 (strage di viale Lazio); la seconda “guerra di mafia” dei primi anni Ottanta (una mattanza con oltre trecento morti) e gli omicidi politico-mafiosi, fino alle stragi del 1992.

Dall’altra parte, una lunga serie di testi narrativi e letterari che documentano, narrano, trasfigurano, allegorizzano carnefici, complici e vittime, personaggi e contesti, fino a codificare un unico, controverso, contraddittorio e nondimeno continuo racconto “della” mafia lungo centocinquant’anni: I Mafiusi di la Vicaria di Rizzotto e Mosca (1863); Cavalleria rusticana di Giovanni Verga (1893); L’assassinio Notarbartolo di Paolo Valera (1899); I vecchi e i giovani di Pirandello (1913); Le parole sono pietre di Carlo Levi (1955); La morti di Turiddu Carnivali di Ignazio Buttitta (1956); Il Gattopardo e Il mattino di un mezzadro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958); Il Giorno della Civetta (1961) e Filologia (1964) di Leonardo Sciascia; De Mauro. Una cronaca palermitana di Giuliana Saladino (1972); Le pietre di Pantalica (1988) e Lo spasimo di Palermo (1999) di Vincenzo Consolo; Palermo in tempo di peste (1992) e Portella della Ginestra. Indice dei nomi proibiti (2005); Malacarne di Giosuè Calaciura (1998); Cuore di madre di Roberto Alajmo (2003).

Note

 [1] Cfr. L. Sciascia, Letteratura e mafia (1970) in Id., Cruciverba, Einaudi, Torino, 1983, pp. 139-149; Massimo Onofri, Tutti a cena da don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia, Bompiani, Milano, 1995; P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, Andò, Palermo, 1970; E. Brancati e C. Muscetta (a cura di), La letteratura sulla mafia, Bonacci, Roma, 1988. Ma si veda anche C. del Greco Lobner, The Mafia in Sicilian Literature, New Academia Pub., Washington, 2007.

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