Introducing Pavese in blues

[Venerdì 25 Maggio si è svolto, a chiusura del Ciclo Pavese, un reading musicale dal titolo Pavese in blues; pubblichiamo oggi il video della giornata e le riflessioni dei suoi organizzatori]

di Jacopo Rasmi ed Elena Pelliccioni

SIDE A

«Niente va perduto. […] La vita è più grande e più piena di quanto sappiamo.»

(C. Pavese)

La vita è più grande, più ricca, più entusiasta e più vasta di quanto sappiamo. L’università e la cultura sono più popolate, umane e vitali di quanto il loro generale appiattimento e “immonotimento” lascerebbero intendere. La società che ci sta intorno è meno perduta, meno rinunciataria e disgregata di quanto i trend di riflusso e nichilismo collettivi concederebbero di sperare.

Si tratta di fare un tentativo, almeno. Di lanciare un sasso di verifica in mezzo allo stagno, e vedere se qualcosa si muove. Se davvero lo spazio universitario é quello chiuso nell’angusto e preordinato ciclo lezione-biblioteca-esame. Nel solipsismo accademico e pedestre dei curricula, delle scadenze di consegna e di pindariche acrobazie matematiche per quadrare orari o crediti. E se la cultura che vi dimora può esser solamente quella frontale-unidirezionale-inebetita che lezioni e manuali ci propinano (e noi per lo più accettiamo, proni o recalcitranti). Onanismi dei docenti, inerzie rinunciatarie di studenti all’eterno ribasso, fretta di chiudere presto dei custodi: ognuno con il suo compitino, con l’esigenza formicolante di strappare la propria meschina gratifica il prima possibile, per tornare agli affari propri.

Forse si può lavorare per una cultura umana e fattiva. E, di conseguenza, per studi, rapporti, educazioni, università tali. Forse è possibile non ridursi a ri-produrre nozioni, ma produrre sapere, nuovo e autentico. Forse lo spazio universitario non precede, già prestabilito e scompartimentato, le relazioni umane che vi si producono all’interno: forse nasce con l’incontro tra professore e studente, tra compagno e compagno di corso, tra entusiasmi e competenze. E si modula sulla forma di questi incontri, si definisce sul profilo di tali relazioni umane.

Si possono aprire dibattiti? Mettere in discussione autorità e prassi? Si può persino tentare di uscire dalle aule, frequentare in modo alternativo gli spazi accademici, trattenervisi oltre l’orario canonico del dovere? Si può stare in università per piacere? Starci insieme agli altri, starci bene?

Proviamo a rimettere in gioco il nostro apprendimento, le nostre abilità extra-curricolari, i nostri legami con altri studenti, professori e tecnici. Proporre un esperimento, ludico e attivo, di cultura che divenga occasione di condivisione e di socialità. Sia per chi si ritrova e s’infervora per organizzare, sia per coloro che che si raccolgono e si entusiasmano per assistervi. Proviamo a situare i nostri pensieri e i nostri studi, a farli occupare spazio e tempo. Renderli visibili e apprezzabili, fuori dalle canoniche sedi. Gioire e profanare. Interrompere il giro comune degli impegni e delle logiche, con piglio carnevalesco.

Perché non resti tutto solo un gran mucchio di retorica, c’è bisogno di passare dalla teoria alla pratica. E dalle parole ai fatti abbiamo tentato di procedere l’anno scorso con il ciclo-maggio dedicato a Pasolini. Quest’anno abbiamo insistito con Cesare Pavese, che fosse il nostro sasso nello stagno di facoltà. In particolare con Pavese in blues.

SIDE B

Perché Pavese in blues?

Potremmo fornirvi riferimenti colti e sofisticati. Perché al blues si appella direttamente una delle sue ultime poesie, Last blues. Perché il blues ha qualcosa a che fare con il cuore profondo della cultura americana, dall’autore così amata. Perché il rythm’n blues degli schiavi neri è stato, innanzitutto, il canto del lavoro e della sofferenza e Pavese ha raccontato di mestiere, dolore e poco altro..

Ma, tralasciando i pedissequi accademismi che abbiamo assemblato a posteriori, recitare i testi di Pavese in tono blues per noi significa, in primis, profanarlo: sottrarlo all’olimpica fossilizzazione dei classici, alla piattezza scolastica del canone e portarlo tra noi. Riprendercelo, tutto intero. Un Pavese così umano, incredibilmente vicino, come ci si racconta lui stesso nel suo diario. Profanato come si profanava da sé nelle sue stesse annotazioni. Un Pavese dalla statura tragica che si lascia andare a frecciate ironiche, meditazioni aforistiche e contemplazioni trasognate. Che sghignazza, impreca amaramente, sbotta con irriverenza adolescenziale e si sdilinque in lagne sentimentali. Che scrive poesie in inglese che posson parere canzoni vere con l’accompagnamento d’una chitarra (percossa) e d’una armonica.

Abbiamo attraversato i suoi testi, il Mestiere e Verrà la morte, per farvene fare una conoscenza inedita che conducesse dalle sue esperienze giovanili fino alla scelta esiziale del 1950. Abbiamo strappato la sua parola alla pagina stampata per proclamarla, sussurrarla, cantarla, sospirarla: incarnarla in un vivo dialogo di voce e musica. Perché non si continui a credere beatamente che tutti quei busti ch’affollano le nostre storie letterarie non siano persone vere e complete. Per non incorrere nell’errore di ritenere, parafrasando un’osservazione di Foster Wallace, che tutti questi altri non abbiano/abbiano avuto una vita interiore meno complessa, forte e contraddittoria della nostra.

Quale musica può esser più adatta del blues, con quel suo timbro viscerale, immediato e dolente per fiancheggiare questo Pavese? Per dialogare con questa sua confessione totale, spericolata ed inerme?

Pensandoci ex post nulla vieta di trovare, di questo spirito, una tutela, una nobile discendenza dal dittico recentemente inscenato da Gifuni-Bertolucci su Pasolini e Gadda. In particolare, le coincidenze fisionomiche con -l’altrettanto diaristico e lirico- L’ingegner Gadda va alla guerra sembrano, involontariamente, eloquenti e immediate.

Fedeli all’insegnamento che Belpoliti ci ha rivolto (tramite le parole di Pasolini): «I classici si gustano in salsa piccante». Vanno gustati con sempre originali cotture, sapendoli accordare alle sempre nuove esigenze di ciascun pensiero ed emotività. Scostandoci dal sentiero tracciato dalla tradizione, che di un autore rivela un solo profilo. Mentre ogni nuovo tentativo, ogni attualizzazione cogente, ogni nuova incarnazione é in grado di svolgere almeno un altra delle infinite potenzialità che uno scrittore reca eccezionalmente. Tentiamo di interpretarlo, ri-velarlo, agirlo e parlarlo. Anche a rischio di fraintenderlo, di tradirlo prima che canti il rappelle-à-l’ordre del gallo della cultura ufficiale e titolata. Quanto di magnifico può dare il Pavese riletto e frainteso dalla riflessione e necessità politica di Straub-Huillet in Dalla nube alla Resistenza (proiettato in aula cinema, mercoledì 16)?

Bisogna continuare a tradurre la parola di Pavese e degli autori per portarla ad ogni nuovo pubblico ed ogni nuova sensibilità. Convinti che dove anche due soli sono riuniti in suo nome, anche lui vi sarà.

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