Intrecciare fili d’erba: il sapere indigeno nel rapporto con l’ambiente

Pubblichiamo la quarta puntata di Intemperie*

Skywoman, illustrazione originale di Federica Benedetti.

Incendi, pandemie, scioglimento dei ghiacciai e catastrofi ambientali dovuti ai cambiamenti climatici e al rapporto deleterio tra esseri umani e pianeta Terra ormai caratterizzano la nostra epoca. Ci si affida alla “scienza” occidentale per cercare di “riparare” il nostro pianeta e assicurare un futuro migliore per noi e le prossime generazioni. Tuttavia, ai grafici e alle formule matematiche manca la capacità di cogliere qualcosa di essenziale: raggiungere l’interiorità degli individui – ovvero la cultura, le scelte, le credenze e tutte quelle caratteristiche che nel tempo fanno connettere la nostra emotività con gli avvenimenti del mondo circostante – perché ciò che realmente bisogna riparare non è il pianeta Terra, ma il nostro rapporto con esso. Per potere realmente capire cosa spinge l’individuo a relazionarsi con l’ambiente in un modo o in un altro, come reagisce a quest’epoca di crisi climatica, e cosa lo spinge ad abilitarsi per migliorare questa situazione o, al contrario, i motivi che lo rendono indifferente, è dunque necessario concentrarsi non solo sul linguaggio della comunità scientifica, ma integrare un sapere con secoli di tradizione.

Questa è rappresentata dal sapere indigeno, ovvero le storie tramandate di generazione in generazione che, se da un lato ad una prima lettura possono sembrare una mera astrazione del mondo naturale, dall’altro vedremo come in realtà abbiano un forte fondamento scientifico e come fungano da ponte per unire il mondo scientifico all’intelletto e all’emotività umana. Nello specifico, il caso studio su cui mi concentrerò verterà sulla figura di una donna, scienziata, indigena Potawatomi, Robin Kimmerer, autrice del libro Braiding Sweetgrass: Indigenous Wisdom, Scientific Knowledge, and the Teaching of the Plants (2013) che comincia raccontandoci una storia: la storia è quella di Skywoman che cadde da Skyworld quando ancora portava in grembo le generazioni che successivamente popolarono quel luogo buio che oggi chiamano pianeta Terra.

Ad aiutarla ad atterrare furono le creature che abitavano quelle terre che, ai tempi di Skywoman, erano solo ricoperte da uno scuro manto d’acqua. Una tartaruga le si avvicinò e le offrì il suo guscio su cui riposarsi. Il Consiglio degli abitanti delle terre buie si riunì per aiutare Skywoman a costruire un terreno stabile che reggesse la sua nuova casa, e grazie al sacrificio di un piccolo abitante di quelle terre, il guscio della tartaruga fu ricoperto di fango per poterle dare un posto in cui vivere. Per ringraziare, Skywoman cominciò a danzare, e da quella danza la Terra cominciò a crescere: così si formò Turtle Island, la sua futura casa. Inoltre, Skywoman piantò i semi e i frutti raccolti dall’Albero della Vita poco prima di cadere da Skyworld. Poggiandoli sulla terra, il fango da marrone divenne verde. Il sole sorse, i semi germogliarono e Turtle Island si riempì di piante, fiori e alberi che permisero a Skywoman e alla sua nuova famiglia di creare una nuova casa.

Abbazia di Oakwood (1810), Caspar David Friedrich.

Nell’approccio della “scienza” occidentale nei confronti dei problemi ambientali tutto si riduce a numeri: la storia dell’umanità, il suo rapporto con la natura e i racconti indigeni vengono improvvisamente dimenticati. Per questo motivo, Robin Kimmerer nel suo libro spiega come sia fondamentale integrare il sapere tradizionale all’interno della comunità scientifica perché, seppur i racconti orali in apparenza sembrino solo storie, in realtà hanno un fondamento scientifico, e permettono all’intelletto umano di comprendere e ristabilire un rapporto con la natura. Infatti, la relazione a lungo termine tra le comunità indigene, le loro terre e le risorse che producono risulta vantaggiosa, proprio grazie al sapere tradizionale e alla sua visione olistica del mondo naturale (Rotarangi e Russell 2009, 212). Fikret Berkes e Mina Kislalioglu Berkes (2009, 7) parlano della regola del pollice, ovvero quelle regole e schemi che ci si crea grazie all’esperienza, in questo caso grazie ad una cultura che è nata e cresciuta con una profonda consapevolezza e connessione con l’ambiente.

Grazie a questa regola, e dunque grazie all’esperienza di queste comunità, possiamo comprendere quanto realmente siamo interdipendenti da qualcosa. Questo qualcosa è la natura che, se vogliamo che continui a prendersi cura di noi, necessita di qualcosa in cambio. Ed è proprio su questo argomento che si concentra Robin Kimmerer, ovvero il concetto di reciprocità, o meglio, di restaurazione reciproca. Proprio per questo motivo il sapere indigeno deve essere integrato negli studi dei problemi ambientali, perché nel momento in cui la terra ci offre qualcosa, inevitabilmente si stabilisce un rapporto di reciprocità, ed è quindi nostro compito ristabilire l’equilibrio originario. Come dice Freeman House (citato in Kimmerer 2013, 336) “avremo sempre bisogno della metodologia scientifica, ma se facciamo sì che la restaurazione diventi esclusiva al dominio della scienza, avremo perso la sua più grande promessa, ovvero niente meno che una ridefinizione della cultura umana”.

Skywoman arriva sul pianeta Terra da immigrata, ma diventa subito indigena nel momento in cui compie un atto di reciprocità con la Terra: indigena perché nel suo rapporto con la Terra immagina anche il futuro dei suoi figli, indigena perché considera la vita del pianeta non inferiore a quella umana. Inoltre, indigeno è colui che non impone la propria presenza sul piedistallo più alto della gerarchia della natura: infatti, le piante abitano il pianeta Terra da più tempo e gli esseri umani sono visti come “i fratellini più piccoli della Creazione”, quindi spetta a loro il compito di insegnarci, lasciando a noi in eredità le istruzioni per il futuro, trasmesse attraverso i racconti orali. Ma se queste possono sembrare solo storie di tempi lontani, in realtà di recente si è scoperto che hanno un forte fondamento scientifico: in passato gli scienziati hanno deciso di “zittire” le piante, considerandole incapaci di comunicare tra loro. Invece, gli alberi in realtà comunicano, e lo fanno attraverso un meccanismo sotterraneo chiamato mycorrhizae, ovvero attraverso i funghi.

Caldera di Kilauea (1885), Jules Tavernier.

Emanuela Borgnino (2019), trattando del mito della dea Pele nelle isole Hawaii, offre un altro esempio calzante che ci fa capire molto chiaramente quanto l’esperienza indigena sia fondamentale nell’osservazione e comprensione dell’ambiente. Nella sua ricerca spiega quanto sia necessario un dialogo tra scienza e sapere tradizionale per ottenere un quadro completo dell’osservazione della realtà (Borgnino 2019, 122), avendo la prima la tecnologia per farlo e il secondo una visione olistica e una tradizione fondata sul rapporto di reciprocità tra gli esseri umani e l’ambiente. Infatti, grazie a mo’olelo (storie orali) sulla dea Pele, la storia della formazione della caldera del vulcano Kilauea viene modificata, e viene ridatata dal 1790 a 300 anni prima (Borgnino 2019, 128-129). Così ritorniamo a quella regola del pollice di cui abbiamo parlato in precedenza: le storie orali nate dall’esperienza ci avevano già raccontano della comunicazione tra le piante e delle dinamiche dei vulcani, la scienza lo ha capito dopo.

Sweetgrass, la hierochloe odorata, o meglio, l’erba dolce, si pensa sia la prima pianta ad essere cresciuta sulla Terra, ed è quindi considerata la chioma di Madre Natura (Skywoman, nella cultura Irochese). Kimmerer ci manda un messaggio forte e chiaro, riassunto nella delicatezza di queste sue parole: “c’è una certa tenerezza nell’intrecciare i capelli di qualcuno che ami, e quando intrecciamo l’erba dolce, intrecciamo i capelli di Madre Natura, mostrandole amore, gratitudine e attenzione per il suo benessere”. Infatti, alla base del libro c’è proprio l’esigenza dell’autrice di fare capire al lettore che la prima cosa da fare per potere “curare” il pianeta Terra è restaurare il nostro rapporto con l’ambiente. Tuttavia, come sostiene Kimmerer, la scienza difficilmente vede la sacralità della natura; ci può dare la conoscenza delle cose, ma la reciprocità e l’istinto di prendersi cura della Terra derivano da qualcos’altro, e possono essere compresi e trasmessi agli altri solo attraverso gli studi indigeni. Possiamo quindi ricordarci queste tre semplici parole: esperienza, emotività e reciprocità. È con esse, e solo con esse, che avremo imparato a rispettare la Terra.

Una volta che avremo compreso che non è la Terra ad essere rotta, bensì il nostro rapporto con essa, potremo cominciare a rimediare al danno fatto, riparando questa relazione attraverso le istruzioni della tradizione indigena. Se si pensa a come è stata considerata la “scienza” nel corso dei secoli e alle difficoltà che le maggiori (e ora indiscutibili) teorie hanno dovuto affrontare per essere accettate, si può comprendere come le “relazioni logiche” che spiegano i fatti del mondo siano in realtà iscritte nel tempo della Storia: la teoria eliocentrica di Copernico ci mise settantatré anni per essere accettata (Storer 1966, 79), ed è adesso considerata una teoria indiscutibile e inconfutabile. L’auspicio è che il sapere indigeno venga ascoltato e accolto con più attenzione e in tempi più rapidi.

Kimmerer spese diversi anni a ripulire lo stagno nel giardino di casa sua, in modo che le sue figlie e i suoi futuri nipoti ci potessero nuotare. Ripulendo quello stagno, rese vivibile un piccolo pezzo di pianeta Terra per le generazioni a venire. Il nostro lavoro, quindi, non sarà concluso finché non si creerà una casa abitabile per tutte le creature, e per farlo ci invita a seguire le regole della Honorable Harvest, cioè il patto di reciprocità tra gli umani e la Terra:

Conosci i modi di coloro che si prendono cura di te, cosicché tu possa prenderti cura di loro.
Chiedi il permesso prima di prendere qualcosa. Rispetta la risposta.
Prendi solo ciò che ti serve.
Prendi solo ciò che ti viene dato.
Non prendere mai più di metà. Lasciane un po’ per gli altri.
Raccogli in modo da minimizzare i danni.
Usalo con rispetto. Non sprecare mai ciò che hai preso.
Condividi.
Ringrazia per ciò che ti è stato dato.
Offri un regalo, in reciprocità per ciò che hai preso.
Sostieni chi ti sostiene e la Terra durerà per sempre.

Bibliografia

Berkes, F e Berkes, M K (2009) ‘Ecological complexity, fuzzy logic, and holism in indigenous knowledge’, Futures 41, 6-12.
Borgnino, E (2019) ‘Ka wahine ‘ai honua, la donna che divora la terra: un’analisi eco-antropologica del mito di Pele’ in G Gugg, E Dall’O’ e D Borriello (eds), Disasters in Popular Cultures, 118-135. Il Sileno Edizioni: Lago, Italia.
Kimmerer, R W (2013) Braiding Sweetgrass: Indigenous Wisdom, Scientific Knowledge, and the Teaching of Plants. Milkweed Editions: Minneapolis.
Rotarangi, S e Russell, D (2009) ‘Social-ecological resilience thinking: can indigenous culture guide environmental management?’, Journal of the Royal Society of New Zealand 39 (4), 209-213.
Storer, N W (1966) ‘The hard sciences and the soft: some sociological observations’, Sixty-fifth Annual Meeting of the Medical Library Association, Boston, Massachusetts, 75-84.

*Serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino.

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